La galassia di Madre - 76
In ogni sistema di sicurezza il vero e principale punto debole è sempre l’essere umano, o il fattore scimpanzé rasato, se la si preferisce mettere in questi termini. Chakra lo aveva rispiegato a Matteo anche quell’ultima sera, quando già si preparavano a uscire. Per quanto un tuo sistema possa essere stabile, sicuro, affidabile e così via, a manovrarlo sarà sempre qualche essere umano e nessun essere umano è stabile, sicuro e affidabile. Non quanto potrebbe esserlo una macchina, o una funzione, se progettata correttamente. Una funzione corretta, applicata agli stessi parametri, ti darà sempre uno stesso risultato: la radice quadrata di quattro sarà sempre due, la somma di tre e cinque sarà sempre otto, il fattoriale di sei sarà sempre settecentoventi.
Un essere umano non funziona così. Un essere umano non vive in un mondo di numeri precisi, ma di reazioni chimiche imprecise e imprevedibili, secrezioni ghiandolari che ne alterano di continuo il comportamento, mascherate sotto l’etichetta apotropaica di sentimenti o emozioni. Per quel buffo scimpanzé dal pelo corto, che ama presentarsi come homo sapiens, la radice quadrata di quattro può essere due, tre o anche sette, e il fattoriale di sei può variare da tredici a centomila e nove, a seconda di come si è svegliato quella mattina e di cosa ha mangiato a pranzo. Per questo, se ti si presenta la possibilità, non perdere tempo cercando di superare i sistemi di sicurezza che proteggono una cosa; vai direttamente all’assalto della persona che li maneggia. È molto più vulnerabile.
Per questo Chakra aveva speso decine di giorni a lavorarsi con cura Andrea Fartswell, che ancora non aveva ruoli di grande responsabilità come avvocato nello studio legale, ma era l’ultima a uscire quasi tutti i giorni e dunque era lei ad attivare gli ultimi allarmi e disattivare i codici di accesso dei colleghi, o almeno dei colleghi che non le erano superiori nella gerarchia locale. I codici di accesso degli associati li toccavano gli associati soltanto. Laozi era un pianeta costruito sulla base di fiducia, empatia, unione, solidarietà e palle varie, più un alveare che una società umana, per cui non doveva esserci bisogno di misure di sicurezza eccessive, in teoria. In pratica la sicurezza c’era, anche se non eccessiva o invasiva, o eccessivamente invasiva. Per entrare in luoghi in cui non potevi entrare, un aggancio interno era comunque indispensabile. Peccato soltanto che nessun laozita si sarebbe mai neppure sognato di aiutare un non laozita a infrangere un divieto locale.
Ma Andrea Fartswell non era laozita. Non ancora. Così Chakra era riuscito a convincerla e adesso si allontanava a passi lenti e tranquilli dall’alloggio che divideva con Matteo, perdendo tempo per le strade di Shun Yao e respirando a pieni polmoni, ma soprattutto a narici larghe, la brezza salmastra che soffiava dalla costa orientale. Piacevole, quasi gradevole, un poco rilassante. Gli sarebbe quasi dispiaciuto dover lasciare quel posto, se solo gliene fosse fregato qualcosa. Ma non gliene fregava un bel niente e così non solo non gli dispiaceva, ma non vedeva l’ora di avere messo la maggiore distanza possibile tra sé e quel pianeta, possibilmente con in tasca (tasche virtuali, beninteso) quei documenti che gli servivano. E poi tanti saluti a Laozi e al suo incubo di società futura. Non era un posto per lui, quindi sarebbe stato un posto meno lui.
«Sei sicuro che andrà tutto bene, giusto?» gli aveva chiesto Matteo, mentre raccoglieva i bagagli e controllava per la ventisettesima volta di non aver dimenticato qualcosa, come se avessero molto da dimenticare o come se valesse poi la pena di preoccuparsi tanto per quelle quattro cianfrusaglie che si erano portati. Ma quella era la conformazione psicofisica di Matteo, anale fino all’ultimo.
«Sono sicuro che andrà tutto bene e se anche non sarà così, sarà così lo stesso. Tu pensa soltanto a farti trovare pronto al momento della partenza, che potrebbe essere una operazione piuttosto rapida e delicata, sai com’è. Quando mi vedi arrivare, tutti a bordo e tanti saluti.»
«E se non ti vedrò arrivare?»
«Mi vedrai arrivare, non preoccuparti. Ma se proprio proprio proprio non mi vedrai arrivare entro l’orario stabilito, tu parti lo stesso e prosegui col programma come se ci fossi anch’io. Come ben sai io mi posso arrangiare anche da solo; tu no. Ma ci sarò, vedrai.»
Matteo non aveva aggiunto altro. Bravo ragazzo, stava almeno facendo uno sforzo per imparare a tacere, quando ce n’era bisogno. Non gli riusciva ancora molto bene, d’accordo, ma i tentativi erano apprezzabili. Adesso era probabilmente già arrivato alla stazione e lo aspettava con la sua migliore espressione di stipsi congenita, controllando l’orario più o meno a ogni secondo. Doveva imparare a rilassarsi, quel terrestre. Chakra non si sarebbe preoccupato proprio, al suo posto. Si preoccupava un poco di più essendo se stesso, invece. Il palazzo in cui aveva sede lo studio legale presso cui aveva lavorato come zerbino parlante si trovava molto vicino al centro della città, in una strada parecchio trafficata, e questo non era bene. Troppa gente ancora in giro, troppa che guardava. Erano guardoni professionisti, i laoziti, tanto che avrebbero potuto gareggiare coi lakshmiti, almeno quando c’erano di mezzo non laoziti. Fissavano, sorridevano, salutavano. Cordiali, ma anche spettarli. Chakra non sapeva a quanti tizi avesse già dovuto mostrare il suo peggior sorriso, mentre rispondeva ai saluti.
Cominciavano a dargli sui nervi. Una paranoia di accatto gli suggeriva che non era un caso, che la gente attorno al palazzo era più numerosa del solito perché sapeva, sentiva che lui era lì, un estraneo che si preparava a violare il loro nido. Lo sorvegliavano. Lo controllavano. Ma non aveva senso e Chakra lo sapeva. Erano in centro, la sfortuna o il meteo gli aveva regalato una serata bella, calda e serena, fuori si stava meglio che dentro e insomma era normale che in molti avessero scelto di fare due passi prima di cena, o magari dopo cena, a seconda delle abitudini personali. Proprio come lui, no? Anche lui era lì per una passeggiata, tanto per rilassarsi, guardare vetrine, cose così. Non aveva niente di illegale in programma, per carità!
Per un dato valore di illegale, quantomeno.
Ma il tempo era limitato e prima o poi avrebbe dovuto agire, che la strada fosse piena, vuota o metà e metà. Aveva calcolato con cura i tempi, programmato l’uscita di scena e per quella serata la vita si sarebbe svolta seguendo una tabella precisa, quasi ossessiva. Doveva essere dentro entro l’ora X, in possesso dei documenti entro l’ora Y, uscito per l’ora Z, in stazione per l’ora W, a bordo, in viaggio, via, il più lontano possibile. Una volta partito, c’era tempo solo per correre e correre entro i tempi stabiliti, che gli piacesse o meno. A Chakra piaceva, anche se avrebbe gradito una zona più deserta.
Il problema erano i documenti. Riguardavano il caso Arunachalam, attorno a cui lui aveva deciso di impostare la propria tesi, per ragioni che, al momento, gli erano sembrate divertenti, a tratti anche interessanti, ma che adesso gli apparivano solo come un fastidio, una fissa più cocciuta che logica.
Logico o meno che fosse, però, era quello che lui aveva deciso di fare e lo avrebbe fatto. Non sarai mai nulla e non combinerai mai nulla nella vita, se non continui a perseguire i tuoi obiettivi finché ti è fisicamente possibile perseguirli. Se cambi idea a ogni curva, se getti via tutto ciò che hai fatto per dedicarti ad altro, allora resterai sempre perso a metà strada, senza arrivare da nessuna parte. O così la pensava Chakra, quando decideva di impanare con un sottile strato di spiegazione le manie che lo colpivano di tanto in tanto. Lo faccio perché ho deciso di farlo e quando hai deciso di fare qualcosa, qualunque cosa sia, allora devi continuare a farla finché ne rimane un pezzo.
O qualcosa del genere. Ma il caso era interessante e dietro a tutta quella segretezza doveva per forza esserci qualcosa, no? E ormai era praticamente a metà, con la documentazione che aveva recuperato su Rudra, quindi concludere il lavoro era praticamente un dovere morale, se ci pensavi bene. Se non ci pensavi bene, o se ci pensavi lungo altre direttive, ciò che avrebbe dovuto fare quella sera era non soltanto una stupidata, ma anche una stupidata assai illegale e pericolosa. Quindi, molto meglio non pensarci e procedere con l’azione. Se era veloce a sufficienza, avrebbe anticipato il cervello.
I documenti. Secoli prima sarebbe stato molto più semplice. Scassinare qualche serratura, se proprio non gli riusciva di ottenere le chiavi, poi frugare in qualche schedario, afferrare una manciata di cartacce, infilarle in una borsa, chiudere tutto (se possibile) e poi via. Avrebbe avuto tutto il tempo per cambiare aria e magari anche faccia, prima che qualcosa di sgradevole potesse accadere. Era un mondo molto più semplice in generale, anche se molto meno piacevole da vivere, almeno secondo la versione che la storia e le storie ne avevano tramandato.
Adesso era tutto complesso. Per aprire una porta non bastava una chiave o un grimaldello (che cosa poi fosse di preciso un grimaldello e come funzionasse erano dettagli che a Chakra non interessava esplorare), ma ci volevano impronte digitali, scansione dell’iride, dna, palle varie. I documenti non erano più pile di carta aromatizzata alla muffa, ma versioni digitali in formati che cambiavano di continuo, più o meno a ogni moda, e debitamente criptate, copie solo in locale e probabilmente su dispositivi esterni ma in possesso solo degli associati, niente accessibile dall’esterno, tutto dietro un sistema di sbarramenti, terminali disconnessi dalla rete, eccetera eccetera. Pure, un punto rimaneva lo stesso, anche attraverso i secoli: se volevi qualcosa, dovevi andare di persona e metterci sopra le tue luride manacce. Peccato che adesso ci fossero molte più trappole attorno.
Andrea Fartswell lo avrebbe aiutato ad arrivare almeno all’interno dell’ufficio, “dimenticando” per puro caso di disabilitare i suoi codici di accesso, al momento di uscire. Salvo imprevisti, entrare non sarebbe stato difficile. Ovvio, di imprevisti potevano essercene a milioni e non valeva nemmeno la pena di elencarli tutti, ma di qualcuno si doveva pur fidare e si sarebbe fidato di Andrea, sperando in bene. Ciò che sarebbe accaduto dopo l’ingresso, invece, era un altro paio di maniche. Sapeva quale fosse il terminale non collegato alla rete, quello su cui era custodita una copia criptata del materiale riservato, ma sapeva come accedere? E sotto quale nome fosse salvato ciò che interessava a lui? E la chiave con cui era criptato? E questo e quello? Chakra riteneva di conoscere alcune risposte, o almeno di sospettarle, e in piccola parte si era potuto preparare in anticipo, ma il grosso lo avrebbe scoperto e saputo soltanto sul posto, guardando in faccia il problema. Poco rassicurante, vero, ma sufficiente per la dose industriale di autostima e fiducia in sé che lui possedeva.
Ma una cosa alla volta e la prima cosa era entrare. Le gente per strada rimaneva abbondante, troppo per i suoi gusti, ma il tempo non abbondava, il tempo cominciava a scarseggiare, quindi basta seghe mentali e sotto con un poco di sana azione, o magari di insana azione, punti di vista, sempre e solo punti di vista. Sana per lui, insana per il resto del pianeta, o giù di lì. Ma agire doveva agire e agire avrebbe agito. In un modo o nell’altro.
Controllò di nuovo l’orario, osservò con divina indifferenza lo scorrere della gente attorno a sé, si sistemò meglio il cappello e si avviò con disinvolta disinvoltura verso il palazzo. Rallentava di tanto in tanto davanti a una vetrina interessante, o interessante per il tipo di personaggio che si era creato, e salutò con un cenno e un sorriso tutti quelli che incrociava. Si sentiva bene. Si sentiva molto bene, pure troppo per i suoi gusti. Come quando da bambino scendeva di notte in cucina, a rubare dolci e dolciumi vari, per poi nascondere briciole e cartacce nella stanza di suo fratello minore. E non lo faceva mai perché aveva voglia di mangiare dolci, che non gli piacevano neppure tanto: lo faceva solo per il brivido, il gusto del proibito, dell’infrazione. Nessun bambino responsabile avrebbe agito così, glielo insegnavano i genitori, la scuola, la società. Ma lui lo faceva lo stesso; lo faceva proprio perché tutti pretendevano che non lo facesse. Normale azione da bambino, dopotutto.
Su Lakshmi era stato semplice. La pressione sociale era forte, tutti si aspettavano che tu agissi come tutti gli altri, ligio al dovere, responsabile, onesto, corretto, uno per tutti tutti per uno, mi è venuto abbondante, che faccio, lascio? Una pressione ormai assimilata e metabolizzata, al punto che non ti servivano più cani da guardia, i vecchi trichechi che oggi servivano solo per fare un poco di scena coi forestieri: i lakshmiti stessi erano cani da guardia gli uni degli altri, pecore che si sorvegliavano a vicenda. Rimaneva un certo spazio per le teste matte, perché una valvola di sfogo serve sempre, qualcosa che scarichi la pressione, e questo gli aveva permesso di cavarsela, anche se amava ballare sul confine tra responsabile e irresponsabile. Lui e altri come lui, un perenne carnevale di Lakshmi, che equilibrava e supportava la società, che in cambio li sopportava.
Laozi era diverso. Non c’erano bisogno di valvole di sfogo, perché i suoi abitanti erano progettati per non aver bisogno di valvole di sfogo. Come pesci abissali, si erano adattati alla pressione ed era la pressione ormai a mantenerli interi. Forse. Secondo alcune scuole di pensiero. Secondo altre era una miscela che avrebbe fatto boom da un momento all’altro. Chakra si manteneva agnostico, ma la società non gli piaceva, equilibrata o meno che fosse. Non gli piaceva e non se ne fidava. Perché sì, forse non c’era bisogno di valvole di sfogo all’interno, ma il caso Arunachalam suggeriva che fosse un poco diverso quando nella miscela si inserivano persone venute da fuori. Come tutto cambiasse di preciso lo avrebbe saputo soltanto dopo avere ottenuto i documenti: li avevano secretati proprio per questo, giusto? Chakra sospettava di sì.
Con la gioia di un bambino dispettoso raggiunse il portone del palazzo, non si guardò attorno ma si identificò come se tutto fosse normale, come se avesse ogni ragione al mondo per trovarsi lì proprio a quell’ora, e il portone si aprì. Andrea aveva mantenuto la sua parte di accordo, almeno per adesso: i suoi codici di accesso funzionavano ancora, invece di essere disattivati per la sera. Quello che poi lo avrebbe atteso dopo, una volta in ufficio, rimaneva ancora da verificare, ma al poi è sempre bene pensare poi; se ci pensi prima fai solo danni. Secondo il suo modesto parere.
Anche la porta dello studio si aprì, accogliendolo nel silenzioso tepore artificiale di un luogo che non si aspetta visitatori umani, almeno nell’immediato. Tepore e oscurità, purtroppo. Ma le finestre erano disattivate e avrebbe potuto accendere facilmente la luce, nessuno da fuori lo avrebbe visto. E se anche lo avessero visto? Lui aveva ogni diritto di trovarsi lì, giusto? Ok, non proprio giusto, ma il punto era agire come se fosse giusto: spesso bastava a convincere anche gli altri, se tu per primo ci credevi davvero. Ma il tempo scorreva e pensare e basta non avrebbe aiutato. Doveva cercare quei maledetti documenti e poi filarsela, prima che sopraggiungesse qualche problema.
Con un occhio sempre puntato all’orario, Chakra cominciò a cercare.
Matteo si era già sistemato in stazione ad attendere, seduto sui pochi bagagli che portava. Di tempo ne mancava ancora parecchio e soprattutto mancava ancora il compagno di viaggio, ma presentarsi sempre e comunque in anticipo era una sua caratteristica fondamentale, quasi iniettata alla nascita nel suo genoma, o qualcosa del genere. O almeno era una sua caratteristica fondamentale quando si trattava di occasioni normali. Quando invece si trattava di occasioni assai anormali, anticipo spesso diventava un eufemismo: sapeva prepararsi in anticipo di anni luce. Una sera in cui sarebbe dovuto fuggire in fretta da un pianeta straniero, assieme a quel demente del suo amico, era quanto di meno normale Matteo sapesse improvvisare con la sua immaginazione. Con un poco di preavviso avrebbe saputo immaginare di peggio, ma al momento si accontentava. La sera era tiepida, tranquilla, nella stazione altri viaggiatori passavano sorridenti e lui si preoccupava. E attendeva.
Non c’era un motivo preciso per preoccuparsi. Chakra gli aveva ripetuto che non si sarebbe dovuto preoccupare. Pure, lui si preoccupava. Non lo poteva evitare. Era come provare un vago bisogno di andare in bagno dopo aver visto l’acqua scorrere da un rubinetto. Una forma di magia simpatetica assai rudimentale e primitiva, ma sempre efficace sulla psiche umana, nonché su altre parti della sua anatomia che, di solito, non sono associate alla tua psiche. Se non in alcune forme di esclamazione offensiva, d’accordo, ma il punto era che in circostanze normali non le associavi alla testa. Quindi non si sarebbe dovuto preoccupare. Ma si preoccupava.
Si preoccupò un poco di più quando vide avvicinarsi a lui una faccia nota, in mezzo alla fiumana di facce ignote ma sorridenti e cortesi. Ok, forse non una fiumana, forse una torrentana, o magari una ruscellana, ma quella sera sembrava esserci troppa gente in giro, come se qualcuno avesse liberato in città una mandria di turisti educati, e la folla improvvisa (improvvisa secondo lui, beninteso) lo stava innervosendo molto più di quanto fosse bene per la sua salute mentale, nonché psichica. E una paranoia strisciante e insensata continuava a bisbigliargli che era colpa di Chakra, solo colpa sua, e tutti erano lì per lui. Chiunque fossero quei tutti.
Ma una faccia nota si avvicinava e aveva la faccia di Andrea Fartswell, ammesso e non concesso che una faccia possa avere una faccia, oltre a esserla. Pelle abbronzata, capelli scuri, espressione da maestra delle elementari non troppo odiosa: sì, sembrava rispondere alle specifiche. Ma cosa faceva lì? E cosa faceva con bagagli al seguito? Matteo aveva un sospetto, collegato in un qualche modo al fatto che pure lui si trovasse in stazione con bagagli al seguito e pure lui fosse coinvolto nell’ultima follia di Chakra. Il che suggeriva una causa comune. E una reazione comune a quella causa. Dunque ci poteva essere anche una fuga comune, una fuga a tre una volta che il colpevole fosse arrivato. O qualcosa del genere. Rassicurante da una certa prospettiva, preoccupante dall’altra.
«In attesa di quel delinquente del tuo socio?» gli chiese Andrea, parlando in un dialetto terrestre con pesante accento, anche se Matteo non aveva idea di che tipo di accento fosse. Ma era pesante e non rendeva molto semplice capire cosa stesse dicendo. Inoltre, suonava un poco come Maelle Prsic, la rompiscatole del centro culturale terrestre a Varshi, che non era proprio un bel ricordo.
«Sto aspettando Chakra, sì,» le rispose Matteo nello stesso dialetto, anche se molto meno accentato, almeno a suo parere. Non aveva idea del perché avesse scelto di parlare in quella lingua, invece del più generico dialetto coloniale, ma probabilmente doveva avere i suoi motivi, no? «Abbiamo deciso che potrebbe essere interessante vedere qualche altro angolo di galassia, già che ci siamo.»
«Sì, anch’io penso che potrebbe essere una buona idea, finché possiamo, e come vedi non siete stati gli unici a deciderlo. Credo che un po’ di vacanza fuori città potrebbe farmi bene.» Accennò con la mano ai bagagli. «E poi è una buona sera per viaggiare, no? Calda, serena, tranquilla...»
Matteo era quasi certo che vi fossero sottintesi nel suo discorso, ma era ancora più certo di non aver capito bene quali fossero e perché dovessero essere sottintesi, invece che espliciti. «Sì, beh, anche se noi andremo un poco più lontano, penso. Voglio dire, è un viaggio... viaggio, ecco.»
Andrea lo fissò in silenzio per un periodo che Matteo trovò troppo lungo per i propri gusti, nonché per lo svolgersi di una normale conversazione tra conoscenti. «Ho detto qualcosa di sbagliato?» le chiese, quando il silenzio aveva ormai abbandonato i lieti liti del disagio per navigare nell’oceano in tempesta dell’imbarazzo indomito e rosseggiante.
«No, di sbagliato no, ma il tuo collega aveva proprio ragione. Non sai leggere la situazione neppure se te la scrivono in corpo novanta a un metro dal tuo naso. Che Chakra possa avere ragione è fattore inquietante come pochi, specie per chi crede nell’esistenza di un senso in questa galassia.» Sospirò. «Sto facendo quello che fate voi e lo faccio proprio perché lo fate voi. Credo che saremo compagni di viaggio, almeno per un pezzo. Per il pezzo successivo... si vedrà all’arrivo del primo pezzo.»
Matteo si illuminò, in senso figurato. «Ah, anche tu all’ascensore, dunque! Così alla fine hai deciso che la vita qui non era proprio adatta a te, eh? Già, capisco. In effetti è un po’...» ma lo sguardo con cui Andrea Fartswell lo stava fissando gli drenò ogni residuo entusiasmo.
«Non solo non sai leggere la situazione, ma sei anche una di quelle persone a cui non dovrebbe mai essere permesso di uscire senza un essere umano di sostegno, sempre come diceva Chakra. A ogni modo sì, viaggerò per un poco con voi, ma sarebbe utile cambiare argomento, o fare proprio a meno di un qualsiasi tipo di argomento. Sì, è decisamente meglio nessun argomento, direi.» e accennò col capo alla stazione dietro di lei, dove il brusio della vita rimaneva costante.
Gente del posto continuava a muoversi avanti e indietro, alcuni verso i veicoli in partenza, altri che si dirigevano verso la città non in partenza, altri ancora fermi e raggruppati in piccoli crocchi, forse a salutarsi, forse a chiacchierare, forse a farsi i fatti propri. Folla, sì. Non come quella che potevi vedere per le strade di Varshi nella bella stagione, o la stagione più calda come l’avrebbe descritta Matteo, ma erano comunque parecchi, soprattutto agli occhi di un osservatore un poco paranoico, e con ragioni valide per esserlo. La concentrazione attorno a loro era aumentata? Probabilmente no, o sicuramente no, ma... Ah! La lampadina si accese nel cranio di Matteo. Forse non era quella giusta, ma proiettava un poco di luce e nelle circostanze poteva essere sufficiente.
«Ah, sì, dici che è meglio non... Già già, capisco,» borbottò.
«Sì, dico che è meglio non. Sorprendente, davvero, vedere come il tuo collega ti conosca bene. Ed è ancora più sorprendente vederti ancora vivo e a piede libero, nonostante tutto. Devi avere avuto una vita parecchio tranquilla, finora. Buon per te, direi. Su Varuna non so come te la saresti cavata. Anzi lo so, in effetti: non te la saresti cavata.»
«Deve essere proprio un posto stupendo questo Varuna, da come ne parlate tutti. Credo proprio che non mi piacerebbe visitarlo. Spero che non mi capiterà mai di visitarlo, anzi.»
«Hai conosciuto molta gente di Varuna?»
«Due. Che non è molto, d’accordo, ma da come ne hanno parlato, beh, non sembra proprio un posto molto bello, ecco. Quando ci siamo fermati su Rudra un mio collega di lavoro mi si era, come dire, un po’ attaccato addosso e mi parlava spesso di Varuna, sai. Diceva di essere dovuto scappare da lì, perché proprio non c’era, beh, era una società chiusa, qualcosa del genere, non ricordo molto. Non era una persona molto interessante da ascoltare, sai com’è.»
«Ah, anche lui un insegnante?»
«Beh, no. Non ero proprio insegnante. Comunque mi parlava di Varuna e ne parlava male, e pure tu adesso parli di Varuna e ne parli male, così penso che sia meglio girarne alla larga, no? Voglio dire, due non valgono come prova, ma sono un indizio. Un suggerimento, ecco.»
Andrea Fartswell scrollò le spalle. «È un posto complicato. Può piacere, può non piacere. A me non è piaciuto e probabilmente non è piaciuto neppure a quel tuo amico. Altri magari potrebbero essersi divertiti, chi lo sa. La galassia è piena di gente strana, no?»
Matteo controllò l’orario. Mancava ancora un quarto d’ora circa all’ora X, che era poi l’ora in cui il loro viaggio sarebbe dovuto partire. Chakra gli aveva detto di salire in ogni caso, sia che lui ci fosse sia che non ci fosse, ma di aspettarlo comunque fino all’ultimo, o almeno di rimanere visibile. Così non ci perderemo, sai, e potrò raggiungerti subito, anche se mi dovesse capitare di arrivare di corsa all’ultimo secondo, non si sa mai. Ci aveva quasi riso, mentre l’amico gli parlava così, ma adesso si sentiva molto lontano dalle risate. Più o meno sull’emisfero opposto, o nei dintorni. Un frammento di preoccupazione, però, gli era scivolato dalla schiena, adesso che non era più solo. Nel peggiore dei casi, sarebbe fuggito con Andrea fino all’ascensore, che era sempre meglio di fuggire da solo, in fondo. Avrebbe avuto qualcuno con cui parlare, quantomeno. Per distrarsi.
Poi Matteo ci ripensò e si accorse che esistevano casi peggiori dei peggiori casi a cui avesse fino ad allora pensato. Tipo che Andrea Fartswell poteva essere una traditrice, ma traditrice totale, eh? Tipo che prima non solo non aiuta Chakra, ma gli tende una qualche trappola per farlo catturare mentre si infila in ufficio, e poi viene lì per bloccare anche lui, prima che possa fuggire. Quella si che poteva essere la peggiore delle ipotesi, almeno per il momento, ma si sentiva sicuro di poterne inventare di peggiori, con un poco di tempo in più a disposizione. Lui era più o meno una specie di studente di letteratura, no? Quindi da qualche parte doveva essere creativo, o avere letto a sufficienza da poter simulare la creatività, in piccole dosi e per brevi periodi. Quindi...
«Ti sei perso in un qualche magico mondo all’interno del tuo cranio, vero? Il tuo collega raccontava pure questo su di te. Ti ha fatto davvero una bella pubblicità, niente da dire, ma a quanto pare non si è inventato nulla.» Andrea Fartswell sorrideva, più che mai simile a una maestra delle elementari.
«No, è che stavo pensando, ero un po’ preoccupato, sai, l’orario,» balbettò Matteo. «Voglio dire, si sta facendo un po’ tardi, cioè, non tardi tardi, non proprio, ma...»
«Ma credo che non avrai di che preoccuparti. Il tuo amico è là che zampetta tutto allegro, o almeno zampetta con la sua solita faccia. Dovremmo esserci tutti, no? Manca solo il mezzo di trasporto.»
Matteo si girò. E Chakra era davvero là, non proprio zampettante ma camminante sì, e con la solita faccia da schiaffi che si portava in giro per la galassia. Procedeva a una velocità che avrebbe irritato chiunque, il passo di pensionato pigro con gravi problemi di emorroidi, che rimbalza senza scopo da un cantiere all’altro. Come se avesse tutto il tempo dell’universo. Come non avesse combinato nulla e non ci fossero problemi. Come se.
Ma non aveva tutto il tempo dell’universo, maledetto lui e il continente che lo aveva generato! E di reati ne aveva combinati parecchi, se davvero aveva concluso la missione che si era assegnato e che di sicuro non era per conto di alcun dio, sempre che ce ne fossero. Matteo lo avrebbe preso a pugni e schiaffi, ma in fondo anche quello era Chakra, no? Non proprio strafottente, o almeno non sempre, ma convinto per qualche oscura ragione che la galassia ruotasse attorno a lui e che in fondo tutti, se ci pensavano bene ed erano onesti con se stessi, amavano quel simpatico furfante che voleva cercare di far credere di essere. O roba simile. Chakra.
Dopotutto era bello rivederlo, no? Matteo non lo avrebbe mai ammesso neppure di fronte a se stesso nel buio di una cella di isolamento, ma l’amico lo aveva fatto preoccupare e scoprire adesso che non c’era davvero stato nulla di cui preoccuparsi era... beh, era positivo. Grossomodo. Perché non c’era davvero nulla di cui preoccuparsi, giusto?
Il compagno li raggiunse, salutando una ultima coppia di laoziti che si erano spostati per lasciarlo passare, cortesi come sempre, sorridenti come sempre. «Bene, vedo che ci siamo tutti. Manca giusto quel piccolo dettaglio del veicolo, ma dovrebbe arrivare a momenti, no? Credo di essere un poco in anticipo, ma ho concluso tutto prima del previsto. Meglio così, non vi pare?»
«Hai concluso tutto?» chiese Andrea. «Dimenticato qualcosa?»
Chakra sorrise nel suo pizzetto. «Ce l’ho qui la brioche,» disse, battendosi una mano sulla tasca dei pantaloni, che a Matteo non sembrava più gonfia del solito, ma qualcosa doveva contenere, anche se probabilmente non era una pasta friabile da colazione. Anche se con quel tizio non si sapeva mai.
«Scusa, ma questa non l’ho proprio capita. Cosa significa?»
«Mio caro Matteo, quando sarai grande capirai,» gli rispose Chakra. «O forse continuerai ancora a non capire, ma in fondo non importa. Direi piuttosto che è tempo di salutare l’allegra compagnia e partire per quella vacanza che abbiamo progettato, no?»
Matteo scelse saggiamente di non aggiungere altri commenti, aiutato anche dal silenzioso consiglio che Andrea Fartswell gli inviò con uno sguardo e che poteva tradursi in un “taci che è meglio, per lo meno finché non saremo partiti dal pianeta”. Così aspettarono, mentre Chakra parlava con la ormai ex collega di lavoro di argomenti poco impegnativi, funzioni fatiche per riempire l’aria. Attorno a loro la gente continuava a scorrere, lenta, e Matteo si sentiva osservato, ma non vi badò. Si sentiva sempre osservato, quando usciva, perché in effetti gli abitanti del posto osservavano sempre, quasi a farne uno sport nazionale. Osservavano e salutavano, cordiali e gentili. Pianeta strano, già, ma non un pianeta malvagio, dopotutto. Partire al più presto non gli sarebbe comunque dispiaciuto.
Qualche minuto dopo partirono davvero, bagagli caricati in fretta e posti a sedere vicino alle uscite, su esplicita richiesta di Chakra. Perché non si sa mai, prevenire è meglio che curare, così e cosà, ma in fondo un posto valeva l’altro e Matteo non obiettò, anche se avrebbe preferito una posizione più centrale. Preferiva sempre posizioni centrali sui mezzi di trasporto, quando poteva: si sentiva sicuro e protetto, in mezzo, anche se non avrebbe saputo spiegare sicuro e protetto da cosa. Protezione e sicurezza generiche, con ogni probabilità, o qualcosa del genere. Poi la città di Shun Yao svanì alle loro spalle e il viaggio cominciò, senza scossoni, senza quasi notarlo.
Si lasciarono trasportare in silenzio, all’inizio. Qualche ora li separava dall’arrivo all’ascensore, poi avrebbero dovuto attendere il proprio turno per salire, quindi tutte le pratiche per l’imbarco e infine, ma infine davvero, la partenza dal pianeta. In teoria. Salvo imprevisti. Ma non ci sarebbe stato alcun imprevisto. Matteo ne era sicuro. Ne era così sicuro che il suo continuo stringere e rilassare i pugni era soltanto una specie di esercizio ginnico, no? Per mantenere attive le giunture, rafforzare tendini, cose così. E non fissava con occhio da tonno morto il paesaggio fuori del finestrino, una scacchiera di luci artificiali e buio naturale, sbiadito forse dal troppo uso, solo perché i laoziti seduti attorno lo mettevano a disagio, ovvio. Fissava perché era amante delle vedute artistiche e la scena del pianeta di notte, o almeno quella piccola scheggia di pianeta attorno alla città di Shun Yao, era una veduta artistica, già. Volendo. Per un dato valore di arte. E comunque non c’era nemmeno un osso nervoso in lui. Tutto era tranquillo. Tutto era a posto. Tutto era bene, anche, sperando che sarebbe poi finito bene. Perché sarebbe finito bene, giusto?
«Ti stai preparando a picchiare qualcuno?»
La voce di Chakra lo raggiunse nel suo sanatorio mentale di preoccupazioni che non erano davvero preoccupazioni. «Come?» chiese Matteo, scollando gli occhi dal finestrino.
«Dicevo, ti stai preparando a picchiare qualcuno? O fai ginnastica alle mani?»
«Stavo... per rilassarmi, già. È una specie di antistress, sai.»
«E come funzionerebbe, scusa? Distribuisci lo stress tra i compagni di viaggio, per rimuoverlo da te stesso? Che poi, cos’hai da essere stressato? Non hai fatto niente tutto il giorno, tu.»
«È che sono sempre un po’ nervoso, sai. Quando ci sono viaggi, coincidenze, tempi da rispettare...»
Fughe da completare, anche, ma quel particolare restò sospeso nell’aria, tra le cose non dette, limbo in cui si perde e si decompone una gran parte delle comunicazioni tra gli esseri cosiddetti umani. In fondo non è che ci fosse bisogno di esplicitare l’implicito. Matteo lo poteva leggere sulla faccia di Andrea Fartswell, ma qualche traccia la potevi scorgere anche nel sorrisetto sghembo di Chakra, se guardavi bene, mimetizzato con cura dal pizzetto sempre curato. Perché c’era qualcosa nell’aria e non erano solo le zaffate di anidride carbonica e a volte metano prodotte da questa o quella persona. Era più una vaga sensazione di sbagliato, di fuori posto, di stonato.
O forse era soltanto immaginazione, unita all’ora tarda. Che non era proprio così tarda, in effetti, ma la giornata era cominciata presto e prometteva di non finire mai. Viaggio in notturna, un viaggio dal nero al nero, o più precisamente dal grigio scuro al grigio scuro, perché di nero reale se ne vede ben poco nelle notti antropizzate di un pianeta evoluto. Non all’esterno, almeno. Se vuoi trovare il nero più nero, lo devi cercare all’interno delle case, sigillato tra pareti e finestre accecate. Fuori, sotto il cielo, c’è soltanto il buio sciatto e stinto delle notti troppo illuminate.
Sì, meglio concentrarsi su quello. Meglio filosofeggiare sul significato della oscurità nelle comunità umane e il modo in cui la sua conquista progressiva segnava il progresso della società, almeno per un dato valore di progresso e di società. Pensa alle notti addomesticate. Pensa al buio al guinzaglio, portato a spasso tra i lampioni dall’homo sapiens. Pensa alle reti neurali di luce, che percorrono la superficie dei pianeti abitati, lunghi dendriti che uniscono i gangli delle città. Pensa a qualsiasi cosa, a quel cavolo che ti pare e piace, ma non pensare ai tuoi compagni di viaggio, a quelli che non sono proprio compagni ma solo coabitanti di viaggio, la moltitudine anonima di laoziti che affollano lo scompartimento in cui ti trovi, seduti davanti, dietro, ai lati. Ovunque. Non pensare a loro, al modo in cui ti fissano in silenzio, mentre fuggite dal pianeta con la refurtiva in tasca di Chakra, se davvero ha qualcosa in tasca. Ma ha davvero qualcosa in tasca, lo sai, quindi non pensarci. Perché non si sa mai. Non si può mai dire. Se non ci pensi troppo forte, magari non succederà niente.
Così Matteo non ci pensava, pensandoci in continuazione, mentre accanto a lui Chakra e Andrea si perdevano in una palude di chiacchiere senza senso, prodotte soltanto per riempire l’aria col senso di normalità più vago che si potesse immaginare. Com’è Lakshmi, tutto bene a casa, e cosa ha fatto durante le ultime vacanze, e mi ricordo all’università, e quella volta che, ma poi è venuto a piovere, secondo me si dovrebbe, però non so se tutti, qualcuno non è mai d’accordo, e se ci pensi è logico, voglio dire per forza, no? Ma è proprio vero, cara la mia signora.
Intanto i laoziti, il grosso dei viaggiatori, sedevano tranquilli, parlavano tranquilli, a volte fissavano tranquilli. Ma di sfuggita, adesso, con la coda dell’occhio, anche se Matteo di occhi con la coda non ne ha mai visti, ma vede occhi che sgusciano, scattano, strisciano, dentro e fuori le loro tane tonde, come marmotte sotto amfetamine, guardano e girano, girano e guardano, colgono, forse scrutano. O forse no, forse non succede niente, forse è solo nervosismo, senso di colpa, quel famoso peso che si inculca religiosamente negli umani per controllarli al meglio e controllarli meglio, una zavorra con cui tenerli accanto al piede, cani obbedienti, a cuccia. O quello che è.
Perché non succederà nulla, vero? Matteo vorrebbe pensarlo, ma non ci riesce. Perché il viaggio è ancora lungo e i laoziti tanti, e ai laoziti non piace chi infastidisce l’alveare. E alle api piace chi si intrufola a rubare il miele? Non so, ma le api ci pensano bene prima di pungere, perché se pungono muoiono. Le vespe, invece... Speriamo che arrivi presto l’ascensore.
Ma la città con l’ascensore non arrivava e alle fermate lungo il percorso erano più i viaggiatori che salivano di quelli che scendevano. E le loro facce erano attente, le espressioni intente, non feroci ma calme, calme, di una calma che ti esaspera. E a Matteo non piacevano, ma non era una novità: non ne aveva ancora viste di cose che gli piacessero, almeno da quando avevano lasciato Shun Yao. Da quando erano fuggiti da Shun Yao, a voler essere più precisi. A voler essere onesti. Perché di tanto in tanto ti capita pure di doverlo essere, anche nelle migliori famiglie.
Questa è l’ultima che mi combini, Chakra, si disse, mentre il viaggio proseguiva verso l’equatore. E c’era solo da augurarsi che la parola “ultima” fosse da intendersi in senso positivo, non negativo. O almeno neutrale, in mancanza di meglio. Mentre i laoziti attorno a loro li fissavano in silenzio, ora non più così sorridenti, o forse no, forse ancora sorridenti come sempre, ma Matteo non lo sapeva, a lui non sembrava. Lui li vedeva guardare, fissare seri, e non era bello. Non era rassicurante.
E l’ascensore a poco a poco si avvicinava. Se soltanto si fosse avvicinato più in fretta! E scivolando pian piano di paranoia in paranoia, mentre i due compagni di viaggio chiacchieravano, pacifici o quasi, Matteo desiderava soltanto essere fuori da quel pianeta, via, lontano, a casa. Su Lakshmi. Che nel sottoscala del suo cervello aveva ormai cominciato a fare funzione di casa.