Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 77

Seduto nel suo ufficio con vista sulla città, in un fantastico primo pomeriggio di pioggia per valori molto bassi di “fantastico”, il dottor Leonardi tamburellava le dita sulla scrivania e pensava. Trrrup, trrrup, trrrup. Ascoltò di nuovo il messaggio che aveva appena ricevuto da Madre, lo ascoltò per la terza volta, chiuse gli occhi e sorrise. Non troppo e con lenta cautela, perché a sforzare certi muscoli rischiava sempre di rompere o danneggiare qualcosa, ma le sue labbra si incurvarono un poco verso l’alto, il che suggeriva un sorriso. O un abbozzo di.

Catturato. Quel ragazzino che si era spacciato per Isolazionista, ma un Isolazionista molto minore, più uno scarafaggio che altro, alla fine si era fatto catturare. Come un fesso. Come un Isolazionista, del resto. E si era fatto catturare proprio mentre cercava di entrare in una base militare: e non voleva entrare di nascosto, no, ma bello come il sole, in piena luce, come se stesse andando al bar o a casa di un amico. Ma si poteva essere più stupidi? Sì, si poteva, e Leonardi conosceva parecchi esempi di azioni o persone più stupide. Retorica a parte, però, il ragazzino era stato stupido, che rendeva tutto migliore. Più giusto. Più corretto. Una vaga forma di selezione naturale: gli stupidi si estinguono da soli e così contribuiscono al miglioramento complessivo della specie. In teoria. Peccato solo che in pratica accadesse così di rado che ogni tanto bisognava stimolare attivamente il processo.

Ma il rapporto inviato dal generale Petkovic era soddisfacente e gli toglieva almeno un pensiero. Un piccolo pensiero, minore come pochi altri, ma un pensiero in meno era pur sempre un pensiero in meno, quindi meglio di un pensiero in più. Giusto? Leonardi la pensava così e questo contava. Ben più fastidioso era il fatto che quel ragazzino si fosse diretto verso la base del vecchio ascensore, per non parlare di tutte quelle domande che aveva fatto in precedenza su certi insetti che vivevano nella zona. E accenni ai pozzi, anche, almeno secondo la testimonianza del loro informatore. Ma nessuno parlava dei pozzi, su Madre, a parte quelli che li conoscevano, e loro erano pochi, poco disposti a chiacchierare. Dunque aveva ricevuto la notizia da altre parti. Dal capo Isolazionista ancora a piede libero, per esempio. Male. Ma gli uomini di Petkovic avrebbero sicuramente fatto parlare il ragazzo, in un modo o nell’altro, e raccolto tutte le informazioni raccoglibili. Era il loro lavoro, dopotutto.

Leonardi si rilassò un poco. Dopo tanto, tanto e tanto fastidio, finalmente poteva quasi chiudere una volta per tutte il capitolo Isolazionisti. Rimaneva soltanto il vecchio capo ancora in circolazione, lì sulla Terra, e poi sarebbero spariti. La fine si avvicinava e i danni che avevano causato erano stati a sorpresa ridotti, quasi nulli. Piccoli fastidi, non problemi veri e propri, niente che valesse la pena di perderci il sonno. Sì, forse li aveva sopravvalutati. Si era preoccupato troppo all’inizio, preoccupato per niente. Ma era quasi finita. Un pensiero in meno.

Ed era bene, perché di pensieri ne aveva da vendere al mercato, a prezzo di fabbrica. Svarga, tanto per cominciare. Quel verme di Gemelos aveva avviato la pratica contro di loro, contro la miserabile fondazione Chen-Cohimbra, e i primi vagiti di un processo si erano fatti sentire, alla fine, con tempi biblici come tutto ciò che riguardasse la giustizia interplanetaria. Peccato che l’inizio non fosse dei migliori. Quell’inetto di un direttore pagliaccio era riuscito nella mirabile impresa di sbrodolare persino la denuncia contro i ladri di idee e scoperte. Tempo di silurarlo, davvero: ormai il miserabile aveva superato la propria inutilità, il burattino non era più neppure divertente. E silurato lo avrebbe già da tempo, Leonardi, se quegli altri vermi del consiglio non avessero cominciato a mugugnare e contorcersi. Ed ecco servito un altro problema, ancora più fastidioso.

Il consiglio di amministrazione dell’Ufficio. Pura formalità un tempo, pura formalità restava anche adesso, in linea di massima. In linea di minima, però, qualche potere lo aveva. Oh, Leonardi aveva controllato che non ne accumulasse troppo, sempre pronto a limitare, ridurre, redistribuire, delegare, questo e quello, divide et impera, alea iacta est, per me lo stesso, grazie. Ma ne aveva accumulato un poco. Potere teorico, teoretico, formale più che reale, ma potere era e poteva essere esercitato. E adesso avevano cominciato a esercitarlo contro di lui. Il che non era bene. Non era bene per niente, soprattutto al momento, ma non lo sarebbe stato in qualunque altro momento.

Quando l’Ufficio per la Colonizzazione era nato oltre mezzo secolo prima, subito dopo la firma dei Trattati, Leonardi si era premurato di assicurarsene l’intero controllo, dietro il titolo di Direttore, un titolo allora prestigioso e posseduto da persone che sapessero davvero fare qualcosa, ossia lui. Che oggi fosse scaricato sule spalle di inetti come Gemelos era soltanto un segno del generale declino di tempi e costumi, entropia umana incarnata e con capigliatura sintetica. Diceva anche che Leonardi aveva deciso di abbandonare la forma del potere per conservarne la sostanza, ma erano dettagli del tutto secondari. Il punto era che, alla nascita dell’Ufficio, il direttore ne aveva posseduto ogni potere esecutivo (ma non solo), mentre gli altri suoi organi di alto livello erano stati giusto una discarica da riempire con vecchiame inutile, il cui potere era solo di chiacchierare.

Il consiglio di amministrazione ne era stato il supremo inveramento. Un manipolo di gente vecchia, raccattata da dipartimenti di ogni sorta, che avevano contribuito alla firma dei Trattati e per questo avevano ricevuto una pensione-premio nella forma di un ruolo carico di prestigio e remunerazione, ma senza alcun potere reale. Consiglieri, appunto. Potevano sedere tutto il giorno in uffici lussuosi, riunirsi in saloni eleganti, discutere e dibattere di questo e quello, distribuire consigli e suggerimenti come caramelle o noccioline mentre guardavano i lavori in corso con le mani dietro la schiena, e fare più o meno tutto quello che volevano, a parte contare qualcosa.

Aveva funzionato per anni. I consiglieri erano cambiati, per pura selezione naturale o, per metterla in altri termini, per sopraggiunta ma non intempestiva morte di vecchiaia, la galassia era cambiata, i ranghi periferici dell’Ufficio erano cambiati, ma Leonardi era rimasto Direttore, motore immobile al centro del creato, asse attorno a cui ogni azione ruotava. Fino alla seconda spedizione su Madre e ai cambiamenti che ne erano seguiti. Istituire il Teatro di Oklahoma, per reclutare coloni (e altre cose), era stato il meno: un divertissement, più che lavoro vero e proprio, ma anche lavoro vero e proprio, sebbene divertente. Perché dal Teatro dipendeva tutto. E siccome il tutto contava ben più del resto, Leonardi si era dovuto concentrare soprattutto sul tutto. Che però era un tutto velato, un tutto in incognito, e non se ne poteva occupare a dovere con un ruolo pubblico come era quello di Direttore dell’Ufficio. Così, alla fine, aveva dovuto passare la mano, sistemare un burattino sulla poltrona e fare un passo indietro, per farne allo stesso tempo dieci o venti in alto, ma su di un piano parecchio diverso. La direzione formale ad altri, a lui il controllo reale, mentre pensava al lavoro serio.

E qui erano nati i problemi.

Da gerontocomio con vista su cimitero di elefanti, il consiglio di amministrazione dell’Ufficio si era ammodernato, almeno a suo parere. L’età media era calata di quasi venti anni, nuovo sangue e linfa fresca erano affluiti a cervelli stantii e ammuffiti, nuove idee avevano cominciato a circolare e farsi largo, il tutto condito dalla palese incompetenza del nuovo direttore, che apriva spiragli di carriera e controllo a tutti gli aspiranti, almeno finché si mantenevano anche inspiranti ed espiranti. Leonardi, ora consigliere matusalemmicamente anziano, aveva brigato per limitare aspirazioni, inspirazioni ed espirazioni, ma era chiaro che il suo pensiero era altrove e non ci metteva più l’energia di un tempo. E poi era vecchio, il suo corpo collassava a poco a poco, e in fondo non sarebbe durato molto. Vero?

Il recente ricovero sembrava una conferma, sebbene una non voluta, almeno dal ricoverato. Perché i topi avevano ballato parecchio e con entusiasmo, mentre l’antico gatto era assente, e il gatto aveva forse trascurato troppo l’Ufficio negli ultimi anni, i suoi pensieri diretti altrove. Ma adesso il gatto era tornato e molte cose sarebbero cambiate. Dovevano cambiare. A cominciare dal direttore.

Leonardi sospirò. Quando aveva convocato il consiglio di amministrazione, perché decidessero del tutto spontaneamente di sollevare l’attuale direttore e sostituirlo con qualcuno di più competente e fidato, il consiglio non aveva raccolto quel suggerimento del tutto spontaneo. Anzi, si era dichiarato contrario al cambiamento, sostenendo che il direttore stesse svolgendo un ottimo lavoro, perché con la sua mente aperta sapeva scorgere le correnti della politica interplanetaria e pilotare l’Ufficio nei suoi meandri e gorghi, con mano ferma, voce sicura, palle varie e blablabla. Soltanto i postumi non ancora smaltiti dell’ultima operazione avevano trattenuto Leonardi dal ridere in faccia a quel branco di cerebrolesi. Pure, forse avrebbe dovuto ridere. Sarebbe stato interessante osservarne le reazioni.

Peggiore di tutti era stata la Elsey, Iscariota in gonna che non aveva esitato a pugnalare il principale benefattore, cane che aveva azzannato la mano del padrone. Proprio lei si era fatta paladina del pio direttore Gemelos, lei che come avvocato al soldo di Leonardi aveva sbranato e squartato più rifiuti umani di quanti una qualunque persona di buon senso avrebbe avuto voglia di contarne. Adesso che avrebbe dovuto attaccare Gemelos, per smontarlo come meritava, quella befana si rivoltava. Contro di lui, pure! Sfacciataggine incarnata. Contava di poter essere il nuovo direttore, magari dopo avere sbalzato Leonardi stesso di sella e parcheggiato Gemelos in pensione con tutti gli onori e generosi vitalizi? Contasse pure, se si divertiva, che contare era gratis. La realtà l’avrebbe smentita.

Tempo di riprendere il controllo e dimenticare, ma soprattutto far dimenticare, quella parentesi assai sgradevole del ricovero con assenza forzata dall’Ufficio. Avrebbe cominciato con Vihersalo, che si occupava a modo suo della causa contro la fondazione svarghiana. Se ne occupava male, quindi era doveroso raddrizzarlo. Con le buone o le cattive. Leonardi abbozzò un ghigno.

Quando Aaron Vihersalo, capo planetologo dell’Ufficio per la Colonizzazione, entrò nello studio di Leonardi, il temuto vecchione non ghignava più, ma fissava con espressione che, su una faccia non così artificiale, sarebbe stata probabilmente di preoccupazione seria e un poco arcigna. Sulla faccia più e più vole rimaneggiata del consigliere anziano, invece, ricordava un manichino affetto da gravi problemi emorroidali, resi ancora più gravi dalla improvvisa scoperta che persino un manichino ne poteva soffrire. Non era un bel segno. Non era neppure un segno del tutto malvagio, in realtà, così Vihersalo strinse i denti preparandosi a un cazziatone da gran premio, ma continuò anche a coltivare la speranza che tutto si sarebbe concluso in modo indolore. Moderatamente, almeno.

Che poi, perché il capo lo avesse convocato era ovvio. Serviva forse chiederlo? Certo che no! Così Vihersalo non lo chiese. La causa in corso contro la fondazione Chen-Cohimbra, per forza. Vero, ad avviarla era stato il direttore Gemelos, su richiesta sottintesa dell’allora ricoverato Leonardi, ma chi si sarebbe dovuto occupare di portarla avanti, seguendone ogni passo, era Vihersalo stesso, perché diretto interessato e primo accusatore. In teoria. Il primo accusatore sarebbe dovuto essere semmai il giovane Stratos, che si era visto fregare la scoperta da quel tizio di Svarga, ma Stratos era appunto un giovane, un planetologo dell’Ufficio, dunque sotto la diretta responsabilità di Vihersalo, il capo planetologo. Per una qualche proprietà transitiva non molto chiara, ma che probabilmente derivava da chissà quale precedente omerico o giù di lì, a gestire la causa doveva essere proprio Vihersalo, il capo del dipartimento-vittima, assieme agli avvocati dell’Ufficio.

Ed era sempre lui a doverne rispondere al cospetto di Leonardi.

La causa non stava andando bene. O meglio, non stava andando proprio. Ad assistere la fondazione Chen-Cohimbra era intervenuto Svarga stesso, sotto forma di una qualche agenzia governativa, e il loro gioco sembrava incentrato sul tirarla il più possibile per le lunghe e poi traccheggiare ancora un poco, tanto per stare sul sicuro. Vihersalo non capiva a cosa fosse dovuta quella strategia, ammesso e non concesso che ci fosse una qualche spiegazione logica, ma forse chissà, magari speravano che Leonardi sarebbe morto di vecchiaia, se avessero continuato a rinviare e ritardare. Oppure esisteva una qualche legge che li avrebbe messi al riparo da rappresaglie, scaduto un certo tempo. Possibile. Per quanto ne sapeva Vihersalo, quasi tutto era possibile. Aveva studiato da planetologo, lui, non da avvocato, giudice o altro! Tuttavia...

Tuttavia Leonardi lo aveva convocato e lo fissava con uno sguardo da tenia affamata. Era tempo di dire qualcosa. Giustificarsi. Spiegare. Delucidare. Pararsi preventivamente il culo, scaraventando se possibile qualcun altro nel vulcano ribollente, come sacrificio per propiziare il dio ostile. Per questo il prode Aaron Vihersalo cominciò a lamentarsi di tutto ciò che non aveva funzionato col processo, il messaggio iniziale del direttore Gemelos troppo vago e generico, privo di forza, e gli avvocati che se la prendevano calma, e Gemelos che non lo aveva appoggiato, e i problemi del dipartimento che gli sottraevano tempo ed energie, e Gemelos che non si trovava mai, e il giovane Stratos che si era dimenticato di lasciare una copia di tutto prima di partire per Svarga, e Gemelos che qui e là, e le macchie solari, e Gemelos che era tutta colpa sua. Leonardi ascoltava in silenzio, o almeno stava seduto e lo fissava, mentre lui parlava a ruota libera, dando la colpa al direttore per qualsiasi cosa, a parte forse la leggera insonnia di cui aveva sofferto nelle ultime due settimane.

Era una buona strategia, giusto? Vihersalo non ne era certo, ma sapeva che c’erano stati problemi di vario genere tra il grande capo e Gemelos, attriti e cornate, per cui dare la colpa a qualcuno che già si trovava sulla lista nera di Leonardi era la scelta più semplice e probabilmente avrebbe dirottato la possibile rabbia del vecchione, portandola su un altro bersaglio. Sfortunatamente non sembrava che stesse funzionando e Vihersalo perse a poco a poco la voce e finì a boccheggiare a secco, sempre sotto lo sguardo impassibile e impietoso del cosiddetto consigliere anziano.

«Tutto qui?» disse Leonardi, dopo un silenzio in cui nuovi imperi nacquero, prosperarono e caddero dimenticati dalla storia, lasciando solo rovine metafisiche e metaforiche.

«Er, sì, insomma, ecco. Già. Em.» La quiete totale dell’ufficio li avvolse come vomito di ubriaco. Se tendevi bene le orecchie, isolando il resto dell’universo, potevi quasi immaginare di sentire pian piano le gocce di pioggia che colpivano il marciapiede, metri e metri e ancora metri più in basso, là oltre i vetri della finestrona e le mura solide dell’edificio, libere, fuori. Vihersalo non lo sentiva, ma poteva identificarsi in una di quelle gocce, perduta nel niente, sospesa tra il niente e la solidità finale di un suolo dove si sarebbe infranta assieme a mille altre, dimenticata dal mondo, indifferente a tutti e a tutto. O qualcosa del genere, magari meno poetico: era un planetologo, lui, sebbene maturo e in disarmo, steso e arreso al cospetto del Grande Trisnonno Bianco.

Trrrup, trrrup, trrrup. Le dita di Leonardi tamburellavano sulla superficie della scrivania, finte dita su finto legno, per un vero suono snervante, nonché piuttosto fastidioso. Anzi, via il piuttosto: era fastidioso e basta. Vihersalo avrebbe desiderato che smettesse, ma avrebbe desiderato ancora di più di trovarsi da qualche altra parte, magari accanto a una piscina, circondato da massaggiatrici giovani e parecchio discinte, secondo il suo preferito sogno diurno. Si sarebbe tuttavia accontentato anche del salotto di casa e un bicchiere di un superalcolico a caso, ora come ora. L’importante era essere all’esterno di quell’ufficio, che stava diventando troppo caldo per i suoi gusti. Ma di un calore non fisico, bada bene, che su un piano prettamente fisico, invece, la temperatura era gradevole.

«Mi sarei aspettato di più da te,» disse infine Leonardi. «Dovresti conoscere e comprendere quanto sia per noi importante questa causa e invece la stai gestendo davvero male. Sembra quasi che non te ne freghi nulla di noi e dell’Ufficio. Ti facciamo davvero così schifo? O sbaglio?»

«Sbaglia!» si affrettò a rispondere Vihersalo. «Il problema è che io sono assistito male, anzi, peggio che male, capisce! Mi lasciano da solo, trascurano il lavoro, e questo e quello, e io sono soltanto un povero planetologo, non mi intendo di processi, non sono esperto di leggi interplanetarie, e chi lo è, chi mi dovrebbe aiutare e accompagnare, perde invece tempo, come se non ci fosse fretta, come se avessimo tutto il tempo dell’universo e potessimo attendere la fine entropica di tutto. E Svarga che ci mette bastoni tra le ruote, trabocchetti, ci sabota, aspetta, allunga, ci tende trappole, ci qui e ci là, ci su e ci giù. È una vita, guardi, una vita che io, non so, le dico, ma insomma, eh!»

Leonardi lo lasciò delirare e lagnare per più di quanto una persona di buon cuore avrebbe giudicato e valutato necessario, poi alzò la mano e bloccò la fiumana incomprensibile e sgrammaticata. «Non me ne importa niente! So bene che da gente come te non ci si può aspettare niente di buono. Siete il pinnacolo dell’inutilità incarnata. Ma il processo non va bene, anzi non va, non è ancora neppure cominciato, e noi lo dobbiamo vincere, schiacciare Svarga, riprenderci ciò che è nostro, tenere gli intrusi lontano da Madre. Che è nostra. È la nostra colonia e il nostro pianeta. Agli avvocati dirò io due cose, di loro non ti preoccupare. Ma la musica cambia, da oggi stesso. Abbandona tutto il resto, che non è rilevante. La sola cosa a cui dovrai pensare sarà schiacciare quel covo di ladri e lestofanti che ama farsi chiamare la fondazione e il pianeta di vampiri che li sostiene. Tutto il resto mettilo in pausa, gettalo via, dimenticatene, che tanto non hai mai combinato nulla di valido nella tua vita da pseudoscienziato. Il processo, niente altro che il processo. Fino a che non lo avremo vinto, ci sarà solo il processo. Dagli avvocati dell’Ufficio riceverai tutto il sostegno necessario e anche di più.»

Vihersalo non obiettò. Non ne aveva le forze o il coraggio. Annuì mite e meschino, si scusò, chinò il capo, si scusò ancora un poco, infine si ritirò alla prima occasione, sgattaiolando e strisciando quasi di corsa dall’ufficio. Brutta giornata, brutta giornata. E poteva solo peggiorare, ormai.

Dietro la scrivania, nella stanza adesso vuota, Leonardi si rilassò un poco. Il processo era questione di estrema importanza, ma quegli idioti lo stavano gestendo da cani. Avrebbe dovuto raddrizzare la schiena dello studio legale al servizio dell’Ufficio, il che era positivo. Masticare un avvocato o due lo metteva sempre di buon umore. Non si era mai fidato di quella gente, anche se era utile da usare, e se ne fidava ancora meno adesso, dopo lo scherzo che la Elsey gli aveva giocato, ammesso che di gioco si potesse parlare. Lui non ne parlava. Perché non c’era alcunché di giocoso o scherzoso, non al momento e probabilmente in nessun altro tempo.

Che Svarga la tirasse per le lunghe era prevedibile, ovvio, naturale. Avevano solo da guadagnarci, col loro bel gagà che se ne andava in giro di pianeta in pianeta a farsi pubblicità e raccogliere (anzi, rubare) onori e gloria. Dovevano mungere tutto il latte che si poteva dalla vacca, prima che venisse a prendersela il macellaio, assieme al processo. Non era previsto, però, che anche gli avvocati dello studio interno all’Ufficio si unissero alla perdita di tempo, invece di incalzarli. Con ogni probabilità c’era lo zampino e anche lo zampone della Elsey, che era stata avvocato in quello studio pure lei, il gran capo in persona, prima di entrare nel consiglio di amministrazione dell’Ufficio. Di certo tutti gli altri le ubbidivano ancora e di certo lei voleva metterlo in difficoltà, attaccarlo ovunque, sempre per quella stupida fissazione di fargli le scarpe, povera illusa, nonché delusa.

Tempo di attaccare. Leonardi si alzò, dondolò con una certa fatica e una incerta pesantezza fino alla finestra e guardò la distesa della città, scena sempre rilassante, almeno per lui. Pioveva. Ma il clima e le condizioni meteo non contavano, erano puro sfondo su cui lo spettacolo era proiettato. Adesso il nuovo spettacolo in programma era “Affonda il consiglio”, con lui stesso come protagonista unico e indiscusso, anche se il consiglio lo discuteva eccome, altroché se lo discuteva. Avevano preso tutti le parti di Gemelos, il loro direttore tascabile, sperando e confidando che il reale obiettivo, il peso massimo da stendere, fosse ancora debilitato dal recente ricovero e dall’età sempre più grave, più un corpo sempre più disfatto e rabberciato alla meglio. E più altre cose, forse. Leonardi sorrise.

Avevano sbagliato i conti. Sbagliavano sempre i conti, quelli che si mettevano contro di lui. Era una sorpresa che Hass non si fosse ancora fatto sentire, ma Leonardi non ammetteva mai la sorpresa. Se il ministro non si è fatto sentire, avrà avuto i suoi motivi. Preparava qualcosa di spiacevole, poco ma sicuro. Era ambizioso, Hass, e non era più in accordo col suo progetto, anche se un tempo lo era stato, altroché se lo era stato: negli abissi di Madre, quasi venticinque anni prima. Aveva sottoscritto anche lui il progetto che aveva portato al Teatro di Oklahoma, aveva obbedito all’allora Direttore e lo aveva servito, fiutando che quella era la strada giusta verso l’alto. Ma adesso che in alto ci era arrivato davvero, sulla poltrona del ministero della difesa, ecco che Hass dimenticava la gratitudine e si opponeva a lui. Voleva cambiare le cose. Il progetto del Teatro non gli piaceva più.

Prevedibile. Leonardi non se n’era preoccupato e avrebbe continuato a non preoccuparsene. Sapeva come agiva Hass, sapeva come pensava, sapeva cosa voleva ottenere. Il problema col consiglio di amministrazione dell’Ufficio lo avrebbe aiutato, certo, ma il ministro non lo avrebbe appoggiato, né osteggiato. Sarebbe rimasto a guardare. A prendere le misure. A testare le forze di Leonardi. Se poi le avesse scoperte non forze, ma debolezze... avrebbe agito, sì. Ma dopo. Al sicuro. Perché in fondo non era solo il potere a interessare a Hass. Non al momento, almeno. Sul lungo termine sì. Leonardi non ne dubitava, ma il lungo termine poteva aspettare. C’erano altre priorità.

Occupiamoci dunque del consiglio di amministrazione, adesso. E quando l’avvocato e consigliere Ellen Montgomery Elsey entrò nell’ufficio, convocata da Leonardi, il vecchione l’aspettava dietro il comodo riparo della scrivania, appollaiato come un airone mannaro nonché estremamente arcaico. Ma in fondo era proprio quello il tratto caratteristico dell’ex direttore, attuale consigliere anziano ed eterno (eterno?) controllore dell’Ufficio per la Colonizzazione. O almeno uno dei tratti caratteristici, il più facile da notare alla vista. Molti altri non li vedevi, ma li sentivi quando ti colpivano, spesso alle spalle e ancora più spesso per interposta persona. Nel corso della loro collaborazione, prima da avvocato e poi da consigliere, Ellen Elsey si era ritrovata spesso a fare la interposta persona, con un non disprezzabile entusiasmo. Adesso erano di fronte e di interposti non ce n’erano. In apparenza.

Cominciò con una serenità quasi apollinea. Da perfetti colleghi, collaboratori e conoscenti, per vari minuti discussero tranquilli del più e del meno, del per e del diviso, del coseno e dell’arcotangente e in breve di qualsiasi altra funzione sapessero immaginare, o improvvisare. Pacati, calmi, quieti, e un poco sorridenti. O, per essere più precisi, mostrando un poco di zanne. E come procede il lavoro nel reparto X, e i ritardi del reparto Y, e le discussioni sui processi da snellire e sveltire al reparto Z, e questo, e quello, e non ci sono più le mezze stagioni, eccetera eccetera. Al centro, ma aggirato con cura da entrambi, la questione del direttore Gemelos, che Leonardi voleva silurare e il consiglio di amministrazione aveva deciso di difendere, accampando giustificazioni puerili sull’ottimo lavoro e i dubbi sulla necessità di alterare lo status quo, in un momento di congiunture così delicate non solo per il benessere dell’Ufficio, ma anche per il suo futuro, pappappero.

Era una partita a tennis. Una partita a tennis tra mummie con le emorroidi, a giudicare dai ritmi e da quanto delicati andavano sulla palla, ma pur sempre partita di tennis. Si respingevano il problema e la responsabilità di fare la prima mossa, tic e tac, pic e pac, cominci lei, no prima lei, ma si figuri è il minimo che possa fare, ma guardi, insisto, non mi sognerei mai, ma davvero. E il tempo scorreva e Leonardi si innervosiva. Perché il tempo era contro di lui, figurativamente parlando.

Il suo fisico non era più quello di una gioventù lontana ormai quasi un secolo e i rattoppi per strada lo avevano aiutato, certo, gli avevano regalato estensioni, prolungamenti, avevano rinviato, diluito, procrastinato, spinto un poco più in là l’inevitabile, ma l’inevitabile era inevitabile proprio perché non lo potevi evitare, alla fine. L’ultimo ricovero glielo aveva dimostrato. In una lotta di resistenza, una lunga guerra di trincea, sarebbe stato lui a perdere. Un punto debole che Leonardi non aveva mai posseduto, in passato, ma lo possedeva adesso, gentile omaggio dell’invecchiamento. E quindi doveva tagliare, accorciare, spazzare via il castello di carte, abbattere i giochetti e passare al punto.

E scoprirsi. Quasi sicuramente scoprirsi.

Si piegò all’inevitabile quando un ottundimento generale dei sensi gli risalì i nervi sul lato sinistro, dalla caviglia fino al fianco, poi su lungo il torace, a solleticargli l’ascella. Aveva prolungato troppo l’incontro, era tempo della medicina. Ma non poteva, non così, non davanti allo squalo Elsey, quel divoratore di carogne che troppe volte aveva già ripulito i resti lasciati da Leonardi e che adesso, nel pieno delle proprie forze, si preparava alla sfida suprema e finale, spolpare il tirannosauro cadente in persona, magari prenderne il posto. Prenderne il posto! Sogna pure, maledetta. Leonardi strinse i denti metaforici e morse il proiettile. Per così dire. O almeno uno dei.

«Mi comunicano che i nostri legali, in apparenza, non starebbero conducendo la causa contro la fondazione Chen-Cohimbra nel migliore dei modi,» disse Leonardi, rilassandosi nervoso. «Pare che stiano lasciando che siano i legali della fondazione a dettare i ritmi, ritmi lenti, quasi addormentati, invece di imporre i nostri ritmi, ben più veloci e offensivi.»

«Ma bisogna considerare tutti i problemi del caso, naturalmente,» sorrise in risposta la Elsey. «Non è una causa semplice, che si possa risolvere mostrando i muscoli o sfidando, per così dire, all’arma bianca il nostro cosiddetto imputato. È una situazione delicata, delicata, e con pari delicatezza deve essere gestita, così da evitare contraccolpi, figurati colpi di fusta, per così dire. Come di certo lei sa anche meglio di me, il governo di Svarga ha accettato, anzi insistito, per essere coinvolto in questa diatriba che, almeno all’origine, doveva essere soltanto tra due istituti di ricerca, due titolati istituti di ricerca, celebri in tutta la galassia abitata dall’uomo, e l’intervento diretto di un elemento di peso come il governo stesso di un pianeta, come lei ben saprà, ci costringe a rivedere le nostre strategie di attacco, ponderare con cura ogni nostra mossa, al fine di evitare una possibile, deplorevole crisi e, chissà, magari anche qualcosa di peggio, tra i nostri pianeti. La galassia ci osserva, lo sa anche lei, e agli occhi della galassia dobbiamo dimostrare tutte le nostre capacità, unite naturalmente alla bontà dei nostri intenti. Rispettare, onorare, ma non piegarci, beninteso.»

Leonardi sbuffò dietro la maschera di una espressione di plastica. Fumo. Fumogeni. Inchiostro che il calamaro sputa, per nascondersi e fuggire gli attacchi. O forse non il calamaro ma altro mollusco con tentacoli, cosa importa, uno vale l’altro, sempre invertebrati sono, sempre senza spina dorsale. La Elsey preparava qualcosa, era ovvio, persino un celenterato morto lo avrebbe capito, ma restava nascosta, in agguato. Aspettava. Covava, forse. E non si sarebbe lasciata stanare. A ogni domanda la risposta sarebbe stata altro fumo. Come prendere a pugni la nebbia. In gioventù si sarebbe divertito, Leonardi, ma adesso non era più giovane e non si divertiva per niente. La trovava irritante, come un ronzio attorno alla testa in piena notte, una notte estiva, afosa, insonne e sudata. Molesta, ecco. Una persona molesta. E da schiacciare, se possibile, non appena possibile.

Sfortunatamente, era chiaro che non sarebbe stato quel giorno. Tentò altre domande, spostò il fulcro della discussione altrove, ora qui e ora là, cercando, sperando di sbilanciarla, aprire un varco dove colpire, indurla a scivolare, scoprirsi. Non ci riuscì. Il dolore al fianco non aiutava, anzi, era fonte di nervosismo sempre crescente, nuova debolezza che non si sarebbe potuto permettere. Pure, doveva sopportarla adesso. Male, male. E ogni tentativo di avvicinarsi a Gemelos, ogni mossa verso quella nullità di un direttore, era parata, respinta al mittente, rimbalzava come una pallina di gomma. Uno sputo contro il cielo, che torna sempre in faccia allo sputante. Non era così che doveva andare, ma era così che stava andando. Leonardi cedette, rabbiso.

Si salutarono, cortesi, con la promessa di rivedersi in seguito, per “discutere le altre faccende”, tanto per mantenerci al largo, a nuotare tra vuoti eufemismi. Quando Leonardi fu solo, in un ufficio che mai come quel tardo pomeriggio appariva gabbia di ospizio, il peso del declino fisico gli precipitò sulle spalle, quasi schiacciandolo. Debole! Ecco cos’era diventato: debole. Tutta colpa di quel corpo vecchio, vecchio, vecchio. E rattoppato, d’accordo, ma soprattutto vecchio. Un nemico che lui non poteva battere, come aveva battuto tutti gli altri nemici in settanta e più anni di contese dialettiche, e più o meno politiche. Perché quando sei a quota centodieci, ormai, devi contemplare anche ciò che non hai mai voluto contemplare. La medicina aveva limiti e lui, forse, li aveva raggiunti.

Ma non esisteva solo la medicina.

Quella sera, nel quieto silenzio del suo appartamento cittadino, Leonardi meditò su ciò che non era medicina, ma gli avrebbe offerto una via di uscita. Le copie della coscienza, o meglio ancora della personalità, erano la via più semplice, più battuta, collaudata. La legge era stretta, non gli lasciava ancora margini di manovra, pretendeva che le copie si usassero soltanto da vivi e per i vivi, come la versione più evoluta e in parte economica di un doppio, un sosia, da impiegare in situazioni di alto rischio o in cui era richiesta la presenza quasi fisica altrove, magari su altri pianeti, e non si voleva o non si poteva rinunciare alla presenza sul proprio pianeta. In ogni caso, la chiave era una: copie dei vivi, da usare mentre si è vivi. Copie da attivare alla propria morte, per continuare a esercitare una forma di potere anche dopo la cessazione biologica dell’esistenza, erano vietate, proibite, erano una pratica fuorilegge. E dunque utilizzata, ma di nascosto. Non in pubblico. Non in ruoli pubblici.

Leonardi aveva già realizzato copie in abbondanza, aggiornandole con regolarità. Ancora non aveva potuto usarle, vero, ma pronte erano pronte e un giorno, magari... Ma il problema era che Leonardi era personalità pubblica come poche altre e poi, ecco, come dire, copie della personalità, d’accordo, e la personalità era pur sempre la sua, certo, ma... Fidarsene? Fidarsi di qualcun altro, anche se quel qualcun altro era grossomodo lui stesso? Impossibile. Impensabile. Valevano come ultima risorsa, in caso di emergenza estrema, ma sempre sperando che una emergenza estrema non si sarebbe mai presentata. Era andato su Madre come copia, durante la seconda spedizione, ma quello era un caso molto particolare e comunque rientrava nella legge. Il Leonardi vero e vivo era rimasto sulla Terra, al sicuro, e si era ricongiunto con le esperienze della copia al ritorno della missione. Ma non poteva definirla come una esperienza piacevole, né soddisfacente. Serviva altro, soprattutto nell’eventualità che... Nell’eventualità che. Punto.

E l’unico altro possibile era Madre.

Funzionava, da un certo punto di vista. Chiedere ad Andrea Hass per i dettagli, ahaha. Ma quello a cui pensava Leonardi era piuttosto diverso. Ovviamente diverso. Perché diverse erano le premesse e dunque diversi sarebbero stati anche i risultati, giusto? Una funzione darà sempre lo stesso risultato se inserisci gli stessi dati, ma se inserisci dati diversi, allora anche il risultato sarà diverso. Giusto? E poi Madre non era una funzione. Decisamente non lo era. Peccato solo che neppure lui sapesse di preciso cosa fosse, o come definirlo, ammesso che un termine per definirlo esistesse già. Leonardi ne dubitava. Ma lui l’aveva accettato e adesso, forse, era tempo di riscuotere.

Solo che. Si era sentito moderatamente certo di poter rischiare senza problemi, prima. Adesso lo era un poco di meno, sia certo che moderato. Perché era emersa quella storia dei giganti gassosi, tanto per cominciare. A Leonardi non era arrivata come una sorpresa, non del tutto. A nessuno che fosse stato assieme a lui in quella seconda spedizione era probabilmente giunta come una sorpresa. Certo qualche sospetto lo dovevano avere coltivato e certo Hass aveva ettari ed ettari di campi coltivati a sospetti, tutti irrigati con cura e alcuni già fioriti in certezze. Ma sospetto rimaneva, fino a che non si fosse scoperto altro, e per scoprire altro serviva quel maledetto studio diretto che quel planetologo ragazzino continuava a chiedere. Leonardi lo aveva fatto parcheggiare in un comodo comitato, uno dei tanti in cui lasciava a stagionare gli elementi fastidiosi ma utili, tuttavia era forse il momento di toglierlo dal letargo e fargli fare qualcosa. Giusto per.

Perché erano tante le cose che Leonardi non sapeva su Madre ed erano tante quelle che sospettava si sarebbero dimostrate rapidi giochi di mano, trucchi per distogliere l’attenzione impiegati però da un pianeta invece che dal classico e ritrito ciarlatano da quattro applausi e una pernacchia. E prima di garantire a Madre ancora più potere, era opportuno indagare meglio. In ogni possibile direzione e in molte di quelle impossibili, già che si era nelle spese. A volte l’impossibile è solo qualcosa che non è ancora stato tentato, dicono alcuni amanti delle frasi fatte, e a volte è effettivamente così, almeno se non si tratta di impossibilità fisiche. E il dolore al lato sinistro del corpo si era attenuato, la testa gli volteggiava allegra e serena in un universo chimico di pace, l’incontro con la Elsey gli mordeva ancora parti non riferibili dell’anatomia figurata e insomma Leonardi era dell’umore adatto e giusto per fare qualcosa. Tante cose. Scuotere un poco di imbecilli, per cominciare.

Perché non farlo?

Il mattino seguente si presentò nel palazzo dell’Ufficio per la Colonizzazione con tutta la potenza di un uragano geriatrico e almeno una scheggia della sua virulenza. Tonitruante come mai ricordava di essersi sentito negli ultimi decenni, Leonardi convocò Vihersalo e gli ordinò di andare all’assalto su tutti i fronti nel processo contro gli svarghiani, dopodiché gli spiegò in dettaglio cosa intendesse per tutti i fronti, quali fossero tutti i fronti, come sarebbe dovuto andare all’attacco e insomma perse una buona fetta del brio iniziale, smorzato dallo sguardo perplesso e merluzzoso del capo planetologo, il tipo di persona che si perde in un bicchiere d’acqua con buone probabilità di affogarci, almeno se è senza un salvagente e una mappa. Contattò poi alcuni altri dipendenti, periferici al comitato in cui il giovane Stratos era in attesa di tempi migliori, e liberò alcuni fondi assieme a indicazioni molto, ma molto precise su come utilizzarli, e dove e quando. Concluse la mattinata fissando a breve un nuovo incontro con la Elsey, in qualità di rappresentante del consiglio di amministrazione, per discutere di un paio di punti su cui avrebbe richiesto l’approvazione alla prossima seduta.

Quasi in un ripensamento, redasse poi un messaggio per il generale Petkovic, che conteneva utili e inequivocabili suggerimenti su cosa fare col prigioniero, uniti ad alcune richieste di informazioni da fargli pervenire al più presto, meglio ancora subito, nonché cosa farci dopo. Sprecare risorse utili in altro campo non rientrava tra le abitudini di Leonardi e non avrebbero cominciato proprio adesso. E il prigioniero poteva essere risorsa utile, come minimo in qualità di materiale organico riciclabile e come massimo… Beh, per altre e divertenti applicazioni. Poteva bastare come inizio, almeno, e poi, da un certo punto di vista, quel ragazzino idiota avrebbe ottenuto ciò che voleva. Forse non come lo voleva, d’accordo, ma nella vita bisognava anche imparare ad accontentarsi.

Tutto risolto su quel fronte. C’era ancora qualcosa da fare, Leonardi lo sapeva, ma a sfuggirgli era il cosa e questo lo infastidiva come poco altro al mondo. O no, forse era esagerato, perché erano tante le cose che lo infastidivano nel mondo, ma non ricordare ciò che sentiva avrebbe dovuto fare era un fastidio estremamente fastidioso anche per uno come lui. Pure, per il momento doveva sopportare e guardare avanti. E di lato. E un poco anche indietro, perché non si sa mai.

Con un sorriso, Leonardi si rilassò nella sedia. Era ripartito, sì. E se tutto fosse andato bene, non ci sarebbero state più soste. Fino alla fine, almeno. Fino al traguardo.