La galassia di Madre - 79
Il centro di ricerche sulla pietra nella città di Shtoma, sul pianeta Agni, aveva accolto bene la notizia che il direttore Gemelos aveva autorizzato l’invio di un gruppo di studiosi su Madre, per collaborare allo studio della nuova pietra appena trovata. O almeno, teoricamente aveva accolto bene la notizia, a un livello piuttosto elevato e in parte iperuranico di accoglienza. Se però si scendeva a un livello più terreno e concreto, fatto di persone e personalità, quel potenziale lieto annuncio era diventato quasi subito una lotta tra fazioni, vecchi baroni e nuovi arrivati, gruppi di minoranza e maggioranza, ipotesi di moda e ipotesi al tramonto, uovo oggi o gallina domani, e insomma il centro studi nel suo complesso aveva improvvisato una interpretazione assai realistica e verosimile di un formicaio dopo che un bambino si è divertito a calpestarlo, giusto per vedere l’effetto che fa.
Niente di nuovo sotto il sole attorno a cui ruotava Agni, si potrebbe dire.
«È inevitabile che sia così,» aveva commentato Inna Rabbani. «Per la maggior parte dei presenti è la sola occasione che avranno mai di andare su Madre come ricercatori, invece che come turisti. Se non ci saranno rivoluzioni improvvise nella politica dell’Ufficio per la Colonizzazione terrestre, ok, ma io non le aspetterei trattenendo il fiato, sai com’è.»
Kemala Kexin sapeva, per esperienza diretta. O per stupidità diretta, a seconda dei punti di vista. In passato, ormai quasi due anni prima, aveva tentato lei stessa di infilarsi su Madre di nascosto, dopo che le era stato impedito di accedere regolarmente come archeologa. Non era andata a finire molto bene. «Il permesso è per una ventina, giusto?» chiese all’amica.
«Una ventina, sì,» rispose Inna. «E tutti vogliono essere in quella ventina o, nel peggiore dei casi, ci vogliono infilare il maggior numero possibile di membri del loro gruppo o della loro fazione. Amici e compagni di merende, insomma. Così si litiga.»
Kemala scrollò le spalle. In altre circostanze sarebbe stata anche lei nella mischia, a sgomitare e fare a pugni coi colleghi per guadagnarsi un biglietto per Madre e la nuova pietra. In quelle circostanze, dove sapeva che non sarebbe mai stata scelta perché comunque le era vietato l’accesso a Madre e la sua posizione nell’istituto di Shtoma era più o meno quella di oggetto scomodo, parcheggiato lì per tenerselo fuori dai piedi e per un gioco di favori incrociati tra accademie, Kemala poteva addirittura permettersi il lusso di fare l’osservatrice esterna e neutrale. Era squalificata, la gara riguardava solo altri e lei... guardava, già. E commentava. Più o meno come un pensionato attorno a un cantiere.
Inna Rabbani le faceva compagnia. Anche lei era esclusa a priori dalla selezione, come la direttrice Macawili aveva chiarito subito. Nel gruppo da inviare su Madre avrebbe inserito soltanto studiosi e personale del centro di ricerca che, in circostanze normali, avrebbero dovuto offrire sacrifici umani o quasi per guadagnarsi il visto di accesso al pianeta e alle rovine aliene. Il che significava chiunque non fosse di cittadinanza terrestre in tutto o in parte, secondo la politica attuale dell’Ufficio per la Colonizzazione che gestiva di fatto (e in parte anche de jure) la colonia madriana. Inna era terrestre, aveva già studiato su Madre per alcuni anni, prima di arrivare su Agni, e ci sarebbe potuta tornare in qualsiasi momento, finanze permettendo. Dunque, pure lei in tribuna a guardare.
Alle due non dispiaceva poi tanto. Era divertente osservare quello che sapevano inventarsi i colleghi per aumentare anche solo di una frazione di millesimo le probabilità di essere tra gli eletti. Curricula si gonfiavano di colpo, articoli e ricerche apparivano come per miracolo dal nulla per manifestarsi a grappoli sulle pagine di riviste locali e non, alleanze si formavano e si frantumavano, nuove cordate si costituivano per spingere i più meritevoli verso l’alto (o almeno quelli che erano riusciti, fra mille promesse e qualche scambio sottobanco, a farsi nominare come più meritevoli), e insomma l’intera sede del loro centro di ricerca era un bazar a cielo chiuso, perché il clima era mite, ok, ma pioveva e il vento dal lago non era proprio gradevole in certi giorni, quindi era meglio stare al coperto, in sale asciutte e debitamente profumate. C’era da ridere per non piangere.
Il professor Dmitrenko, in particolare, aveva superato se stesso, almeno secondo il modesto parere delle due osservatrici. In un discorso quasi commovente, tenuto al cospetto di tutti (o di un numero sufficientemente elevato da fare funzione di tutti per chi era di bocca buona), il famoso e famigerato leader spirituale della fazione che sosteneva l’origine naturale della pietra di Agni si era lanciato in una lunga, roboante e pomposa celebrazione del bene supremo della scienza e della conoscenza, che deve sempre mantenersi alta sopra le divisioni individuali, come un’aquila che si libra nel cielo e da posizione privilegiata e intoccabile osserva le piccole dispute personali tra singoli scienziati, a volte benevola e a volte paziente, come una madre saggia e buona che veglia sui propri figli e ne sopporta gli screzi, sempre pronta a correggere e aiutare, eccetera eccetera. Dopo un poco non si capiva più molto bene cosa volesse dire, o anche solo se stesse cercando di dire qualcosa, ma in fondo non era importante, perché suonava bene. Il punto era che, al centro di ricerca, erano tutti fratelli (e sorelle): si litigava, sì, si bisticciava, ma in fondo ci si voleva bene e si andava tutti nella stessa direzione.
Fazioni? Noi? Ma scherzavamo, giocavamo, era solo per passare il tempo. Non ci avrete mica presi sul serio, no? Suvvia, è ovvio che siamo tutti qui per il bene della scienza e non ci importa nulla del prestigio personale, si sa. Siamo scienziati, noi. Siamo ricercatori. Vogliamo conoscere la verità, la gloria non ci interessa. Potevi quasi credergli, se dimenticavi tutto ciò che era avvenuto nel centro in mesi e mesi di diatribe e liti, culminate nell’espulsione di Marijn Asanga, corredata di damnatio memoriae. E in un momento come quello, quando tutti volevano ripulire e lucidare il proprio profilo per guadagnare posizioni nell’ipotetica graduatoria di merito, dimenticare era facile. Era la norma.
Così, dopo il discorso di Dmitrenko, altri avevano parlato al pubblico lungo le stesse rotaie. Anche se siamo rimasti a lungo divisi dalle nostre opinioni personali, è tempo di accantonare i dissapori e pensare solamente allo studio della pietra, naturale o artificiale che sia. Anzi, delle pietre, la nostra e la nuova appena trovata su Madre. E sarà uno studio oggettivo, scientifico, neutrale; uno studio che scavi a fondo, in cerca della verità. Dobbiamo dimostrare tutto il nostro valore e l’importanza del nostro centro di ricerca, non solo davanti alla comunità di Madre, ma a tutta la galassia che, come noi e assieme a noi, si impegna quotidianamente per portare avanti la conoscenza e spingere un po’ più indietro le tenebre dell’ignoranza, in questo universo di cui sappiamo sempre troppo poco, ma a cui dobbiamo sempre, sempre e comunque guardare in faccia, in cerca di risposte. E blablabla.
«È tutta retorica e lo sappiamo, ma in questo momento un poco di retorica non può fare così male, è vero?» disse il professor Phan Thanh Chu durante la pausa pranzo, un periodo della giornata che lui prendeva sempre molto sul serio, nonché con forchetta e coltello. «Che poi, non si sa mai, no? Una sottile patina potrebbe anche restarci addosso e, chissà, magari anche convincerci a chiudere tutta la storia di fazioni e altro. In fondo, è evidente ormai che abbiamo ragione noi e la pietra è di origine artificiale, no? Neppure un cieco si ostinerebbe ad affermare il contrario, a questo punto.»
Kemala e Inna non si espressero. Maledette come sempre dalla presenza al tavolo del collega vorace e non più giovane da un pezzo, annuivano e sorridevano ogni volta che sembrava necessario farlo, a giudicare dall’andamento del monologo. Gli intrichi del centro di ricerca non le riguardavano, per il momento, e anche i richiami al più alto senso di fratellanza in nome della conoscenza apparivano ai loro occhi e alle loro orecchie come un recital di poco successo, che sarebbe finito nel dimenticatoio una volta annunciati i nomi dei vincitori. E poi... E poi sarebbe tornato tutto come sempre.
«Comunque, diciamolo pure, ormai è chiaro chi sarà selezionato, no?» continuava Phan Thanh Chu. «Ci possono essere sorprese nelle parti basse della lista, d’accordo, ma anche quelle sorprese non si potranno poi definire tanto sorprendenti, no? La direttrice vorrà accontentare tutti, o almeno tutti gli accademici di più alto livello. Qualche giovane, perché i giovani ci vogliono sempre, fanno sempre figura, la retorica della giovinezza come valore a prescindere non passa mai di moda ma, suvvia, la lista la potrei scrivere pure io, ormai. Non sarà una sorpresa. Non ci saranno sorprese.»
Ma sbagliava. Perché quando la direttrice Makawili annunciò i nomi dei selezionati, quei fortunati che sarebbero andati su Madre, una sorpresa ci fu. E grossa, almeno per alcuni. Per altri, invece, era chiaramente un errore. Doveva aver pescato il nome sbagliato, non c’erano dubbi, ma presto, molto molto presto, sarebbe arrivata l’errata corrige. Era ovvio. Logico. La sola spiegazione sensata. Per quale altro motivo avrebbe dovuto includere anche il nome di Marijn Asanga?
«Beh, beh, proprio uno scherzo direi di no, non arriverei a tanto,» commentò Phan Thanh Chu pochi giorni dopo, quando la lista fu ufficializzata e le discussioni si trasformarono in mugugni. Perché la direttrice aveva sprecato un prezioso, preziosissimo posto per selezionare quell’idiota incapace di Asanga? Il professor Dmitrenko era quello che ribolliva più di tutti, ma ribolliva in privato, separata sede, lontano da riflettori, dietro le quinte e così via. In pubblico, davanti a tutti, appariva sorridente e comprensivo: lo potevi quasi definire paterno, se da bambino avevi subito abusi in famiglia.
«Se non uno scherzo, allora, come lo dovremmo definire?» chiese Kemala, mentre Inna la guardava con disapprovazione. Sapeva che non era bello stuzzicare il venerabile Phan Thanh Chu, soprattutto mentre mangiava, ma resistere alla tentazione era difficile, specie se non ci provavi neppure.
«Beh, beh, direi che è una specie di... penitenza, ecco. Una penitenza, sì. Rivolta chiaramente alla fazione del professor Dmitrenko. Magari un modo per tenerlo a freno, anche. E poi, si, perché no? È un modo per dire “ecco, vedete? Sappiamo recuperare tutti, anche i più squinternati, quei ragazzi un poco problematici”. Ma non vi preoccupate, davvero. Lo terremo sotto controllo noi, non potrà fare grossi danni alla nostra immagine. È da solo, dopotutto.»
Perché anche Phan Thanh Chu sarebbe partito per Madre, assieme a Dmitrenko e alcuni altri vecchi senatori, e sorrideva beato nel suo pacifico trionfo, con la migliore espressione da “tutto secondo i miei piani”. Che ci fosse pure Marijn Asanga non era secondo i piani di nessuno, ma un inciampo ci poteva stare, una piccola buccia di banana sul marciapiede della vita. Bastava ignorarla e il mondo ti avrebbe sorriso. O almeno mostrato i denti, con frammenti di cibo incorporati nonché immolarati.
Inna Rabbani aveva elaborato una propria teoria sul perché avessero scelto anche Asanga, o meglio una ipotesi sul perché. Secondo lei, era una mossa della direttrice per offrire a lui una occasione di riscatto, dopo lo sciagurato discorso della mensa, e al tempo stesso riportare pace e serenità al resto del centro. Non essere selezionati per la spedizione su Madre e dover sopportare ogni giorno i nuovi deliri di Asanga sarebbe stato orribile, tortura concepita forse nei tempi antichi della inquisizione e dei campi di concentramento americani. Suddividere in parti quasi uguali premi e zavorre, invece, si poteva considerare un gesto moderno, più umano. «A loro il viaggio su Madre e il rompiballe, a noi la permanenza qui al centro ma senza rompiballe. Grossomodo equo, no?»
A Kemala non interessava granché, così si era dichiarata moderatamente d’accordo, senza una presa di posizione netta e forte. Non voleva sprecare tempo con gli scemi del villaggio: meglio procedere oltre, ad esempio verso il mezzo progetto che aveva elaborato assieme all’amica. «Allora sei sicura che potrai andarci in licenza questa estate, vero?» le aveva chiesto.
«Ma sì, ma sì, te l’ho già detto, me l’hai già chiesto mille volte. Tirando molto, ma molto, ma molto la cinghia e facendo economia più o meno su tutto, tranne l’aria che respiro, per l’estate avrò messo da parte a sufficienza per il viaggio. Non so poi come me la caverò là, ma immagino che qualcosa lo potrò ottenere dai miei ex colleghi. Magari un posto da assistente o schiavo, sai com’è. Non certo il massimo della vita, ma ci si deve pure arrangiare.»
«E avrai accesso anche alla pietra.»
«E avrò accesso anche alla pietra, probabilmente, o almeno a una parte delle rovine aliene, che tanto per te è la stessa cosa, no? Anzi, secondo me preferiresti le rovine.»
Kemala non aveva risposto a parole, ma l’espressione di avida voracità era stata più che sufficiente a trasmettere tutte le informazioni necessarie e magari anche qualcuna extra. «E ti porterai anche la copia della mia coscienza, giusto? O personalità, come si dice. Quello che è.»
Inna aveva sospirato. Avrebbe preferito evitare, perché temeva e sospettava che la idea di entrare su Madre come coscienza di contrabbando si sarebbe dimostrata una nuova kemalata, ossia una idea che a prima vista può anche sembrare funzionante, ma solo se ignori i circa cinquantasettemila modi in cui può andare male a seconda vista. Ma non poteva più fuggire e lo sapeva. «Si, porterò anche la tua copia, se ne farai una. Sicura di potertela permettere? Per quanto ne so costano uno sproposito.»
«Sai male: costano due spropositi. Mi sono già informata e ho trovato anche un posto abbastanza economico, per quanto possa essere economico un posto del genere. Mica tanto, insomma. A ogni modo, tagliando su tutte le spese incluse quelle per sopravvivere me lo posso permettere. Non sarà un anno molto allegro e forse non riuscirò a mangiare sempre, mentre voi sarete su Madre, ma non è importante. Io mi farò la copia, tu la porterai con te, guarderai tutto quello che c’è da guardare e alla fine la riporterai indietro e io ne recupererò tutte le esperienze. E così sarò stata anch’io su Madre, alla faccia dei divieti, hah! Ci sarò stata per procura, ok, ma è meglio di niente.»
Pazza, senza dubbio. Ma non antipatica e tutto sommato in buona fede, così Inna avrebbe fatto del proprio meglio per l’amica. Aveva discusso il progetto di una licenza su Madre, da turista e a spese proprie, e la direttrice si era dichiarata più che favorevole: le avrebbe concesso il congedo almeno per qualche mese e si era augurata che la vacanza sarebbe stata fruttifera, secondo le sue parole. Il sottinteso era che Inna sarebbe andata su Madre a studiare con mezzi propri e sfruttando sia i propri contatti sul posto, sia soprattutto il passaporto terrestre, e che alla fine ci avrebbe guadagnato il loro centro di studi, che poteva così inviare un ricercatore extra aggirando i limiti importi dall’Ufficio. Il solo problema era che di ricercatori extra ne sarebbero partiti due, non uno, ma era un dettaglio che non era stato sfiorato nel colloquio e tanto meglio per Inna. È illegale solo se ti scoprono, giusto?
Giusto o meno che fosse, così sarebbe stato e adesso a Inna restava solo di contattare almeno alcuni dei suoi vecchi colleghi su Madre, per assicurarsi (o cercare di) qualche aggancio e conferma prima di arrivarci. Sapere da subito che potevi contare su un posto dove stare e magari anche uno straccio di lavoro sarebbe stato ottimo. Meglio ancora, sarebbe stato forse vitale. Ma era ottimista.
Molto meno ottimista si sentiva Marijn Asanga, chiuso nel loculo che chiamava “casa”, quando non lo chiamava con termini assai meno affettuosi, specie dopo aver sbattuto dita dei piedi, gomiti, testa o altre parti di corpo in un tentativo di districarsi in fretta dagli spazi più angusti. Perché la direttrice lo aveva scelto? Perché lui aveva presentato richiesta, d’accordo, ma un buon ottanta per cento dei presenti lo aveva fatto, eppure soltanto in venti erano stati scelti. Venti incluso lui. Che non aveva appoggi. Non aveva sponsor. Non aveva amici, a parte Francis Tarchnishvili, l’unico che gli fosse rimasto accanto, e Francis possedeva il peso politico di una piuma di colibrì. Non aveva neppure un brandello di credibilità, non dopo la scemenza che aveva combinato in mensa.
Pure, la direttrice lo aveva scelto. Perché? Una montante paranoia gli suggeriva che sarebbe stato la vittima sacrificale, o che comunque gli sarebbe successo qualcosa di molto brutto. Insensato, ovvio, e totalmente antiscientifico, ma quando mai gli esemplari di homo sapiens agivano seguendo criteri rigorosamente scientifici? Pressoché mai, per quanto ne sapesse lui. E dunque.
«Vogliono offrirti una possibilità,» aveva detto Francis, complimentandosi per la selezione. «Sanno che stai cercando di rifarti una immagine e dimenticare il più possibile le assurde liti tra fazioni che infestano il centro. Non abbiamo ottenuto ancora molto, è vero, ma ci stiamo provando, a differenza di tutti gli altri. Vorranno premiarti per questo, come una specie di incoraggiamento, no? E poi il tuo programma di studi era dettagliato, preciso. Praticamente perfetto, no? Immagino che la direttrice voglia vedere cosa sarai in grado di fare. E tu farai un ottimo lavoro, ne sono sicuro.»
Buon per te che ne sei così sicuro, perché io... Ma Marijn non aveva detto niente allora e continuava anche adesso a tenere per sé le proprie opinioni in merito. In fondo, a cosa sarebbe servito parlarne? A niente. La decisione era stata presa, lui sarebbe partito per Madre, avrebbe studiato assieme agli altri la nuova pietra e poi... E poi si sarebbe visto. Poteva sperare in un lieto fine, forse non scoprire qualcosa di rivoluzionario, ma almeno aggiungere un altro paio di pezzi al puzzle, per avvicinare la soluzione. Magari un pezzo d’angolo, se proprio gli andava bene. Oltre? Meglio non guardare, non tentare la sorte (ma la sorte non esiste, il caso è solo conoscenza imperfetta, carenza di dati, con la maschera ridente della superstizione magica). Avrebbe lavorato, avrebbe fatto tutto il possibile, si sarebbe impegnato a fondo. Per studiare, per sapere. Al poi era meglio non pensare.
Anche perché si sarebbe già dovuto preoccupare a sufficienza di non farsi schiacciare troppo dagli altri. Non avrebbe avuto alleati, su Madre, neppure il suo fidato Francis, e tutti sarebbero stati suoi nemici, grossomodo. Nemici dell’intruso che aveva rubato il posto a X, dove X era una qualunque altra persona che loro ritenevano più meritevole, incognita il cui valore si modificava a seconda del parlante, ma rimanendo sempre un valore diverso da Marijn Asanga. Hah! Sarebbe stato più o meno come tornare alle scuole elementari, coi bulletti del cortile che lo spingevano a terra, gli rubavano la merenda e una volta lo avevano costretto a tornare a casa senza pantaloni e mutande, perché aveva gli occhiali, perché aveva il naso sporgente, perché qui e perché là.
Soprattutto, perché loro erano più grossi e lui non poteva farci niente. Come adesso, in fondo, anche se adesso gli risparmiavano almeno le violenze fisiche, e grazie per i piccoli favori, ammesso e non concesso che lo sia davvero. Perché i bulli di oggi gli rubavano i pantaloni virtuali, lasciandolo in mutande in mezzo alla comunità accademica, per ridere, ridere, ridere di lui, puntando il loro dito e scuotendo le loro teste. Ma guardalo! Lo avrebbero fatto anche su Madre, poco ma sicuro.
Pure, lui sarebbe partito. Era una occasione, come aveva detto Francis, e lui ne doveva approfittare. Qualunque fosse il motivo per cui la direttrice lo aveva scelto, restava sempre il fatto che lo aveva scelto. Era il genere di cosa che ti capita una volta nella vita, se sei fortunato, e non poteva sprecare il jolly che gli era finito tra le mani. O meglio sì, in teoria lo poteva sprecare, niente e nessuno glielo impediva, ma non lo doveva sprecare, ecco. Dovere, l’ausiliare giusto. Doveva ricavarne qualcosa e lo avrebbe ricavato, con le buone o... le buone, già, non poteva usare le cattive. Non avrebbe avuto senso usare le cattive. Cosa avrebbe dovuto fare, eh? Picchiare la pietra perché non parlava?
Ma stava delirando e lo sapeva. Doveva pensare al viaggio, prepararsi allo studio. Il resto non aveva importanza, il resto non contava. Per Marijn Asanga c’era soltanto Madre, con la sua nuova pietra, e c’era la possibilità (quasi certezza, ok, ma meglio andarci cauti) che fosse collegata all’altra pietra, quella vecchia, trovata lì su Agni. A prescindere dalla sua origine, naturale o artificiale che fosse. Pensare solo a quello e dimenticare tutto il resto. Difficile, ma era la via giusta. Probabilmente.
Quale fosse la via giusta se lo stava chiedendo anche Sonja D’Antona, vicegovernatore di Madre e capo responsabile degli scavi archeologici. Il gruppo di ricercatori inviato da Agni sarebbe arrivato, per collaborare allo studio della pietra: questo era un fatto. Il direttore Gemelos aveva autorizzato il loro accesso al pianeta, e questo era un altro fatto. Leonardi non li voleva e questo era il più fatto di tutti. Era così fatto che pareva plasmato a caldo con una mistura di allucinogeni naturali e sintetici, specie se osservavi il messaggio arrivato due giorni prima. Era una richiesta assurda, semplicemente assurda. Lo avrebbe capito chiunque. Ma era la richiesta di Leonardi, e dunque...
E dunque. Le conclusioni potevano aspettare. Anzi, potevano anche andare a prendere un caffè nella ridente località turistica di Quel Paese, popolazione stimata svariati miliardi, tutti invitati a visitarla e magari anche a viverci da amici, parenti, conoscenti e sconosciuti occasionali. Se poi anche quel vecchiaccio malefico si fosse unito a loro, magari in una bella villa con vista su quel che ti pare, per la galassia sarebbe stato meglio. Sonja D’Antona ne era convinta, ma a voce bassa e solo quando si trovava ad almeno dieci anni luce di distanza.
La pietra trovata durante gli scavi del nuovo museo (e chissà mai quando lo finiranno, adesso). Che sarebbe stato un problema, almeno per le politiche di Leonardi, Sonja lo aveva capito subito. Non ci voleva molto a capirlo, dopotutto, specie se eri archeologa tu stessa, da anni (decenni, a voler essere precisi, ma non era necessaria una precisione rigorosa quando si trattava dello scorrere del tempo, a suo modesto parere), e conoscevi molto bene l’altra pietra, quella trovata su Agni. Non identiche, non proprio, ma se accantonavi l’erosione e gli altri segni del tempo, ciò che ti restava poteva essere utilizzato per giocare a “trova le differenze”. E su Agni si era formata una intera comunità che tirava a campare studiando la pietra di quel pianeta. Quanto ci avrebbero messo prima di sciamare come le più voraci locuste anche su Madre, per confrontare, comparare, analizzare, osservare?
Molto, se Leonardi non fosse finito in ospedale. Perché lui non avrebbe mai autorizzato l’accesso ai curiosi esterni. Era fissato con Madre. Era fissato con Madre già ai tempi della seconda spedizione, quando era un cervello in scatola (per modo di dire: coscienza o personalità in scatola sarebbe stato più corretto, ma la prima immagine rendeva molto meglio l’idea, almeno secondo Sonja D’Antona), e gli anni avevano soltanto peggiorato la sua monomania, quasi a un livello patologico. Non che ci fosse molto di sano in generale, in un tizio come Leonardi. Brutta storia.
Ai tempi della seconda spedizione era stato più semplice. Sonja era solo assistente di Khaled Said, il capo archeologo, e Leonardi era una scatola portata in giro dal suo assistente, schiavo o quel che era al momento. Una scatoletta che non si vedeva quasi mai attorno agli scavi, e nessuno sentiva la sua mancanza, ma nemmeno per sbaglio. Girava attorno ai pozzi, pensava ai pozzi, sempre assieme al comandante Hass. Avevano anche combinato qualcosa nei pozzi, ma agli archeologi non interessava e in fondo erano fatti loro. Ognuno aveva diritto a un passatempo, no?
Poi il tempo era passato, i pozzi erano spariti, Khaled e molti altri erano tornati sulla Terra (avevano fatto bene, maledizione), ancora di più erano arrivati, coloni e aiutanti, lei era rimasta su Madre e da semplice assistente si era ritrovata a diventare il boss. Boss di un settore soltanto, beninteso, ma pur sempre boss. E con le responsabilità erano cominciati anche i problemi.
Leonardi e la sua ossessione per la chiusura, per esempio. Sonja D’Antona non avrebbe avuto nulla in contrario ad ammettere vagonate di ricercatori e archeologi già formati da altri pianeti: erano tutti braccia e teste extra, che potevano fare solo bene. Sì, d’accordo, colonia terrestre, priorità ai terrestri e così via, quello ci poteva stare, succedeva ovunque, ma priorità non significava esclusiva. Quale problema poteva mai esserci? Ma Leonardi non ci sentiva e Maureen Rossi, governatore di Madre, sentiva solo quello che voleva Leonardi. Dunque, accessi col contagocce e blocchi ovunque.
Poi il vecchione era finito in ospedale (di nuovo, ma mai che fosse la volta buona), nel cantiere del museo avevano trovato la pietra, da Agni erano arrivate richieste e il direttore Gemelos, che fino ad allora era stato soltanto il pupazzo sulla mano di Leonardi, aveva osato accettare le richieste. Aveva consentito l’accesso a un gruppo di ricercatori agniani, che si sarebbero uniti agli studiosi locali per fare qualunque cosa dovessero fare con la pietra. Sonja D’Antona ne era stata parecchio sorpresa. Il nostro Gemelos aveva optato per un suicidio spettacolare, opponendosi al vegliardo? Probabilmente ci aveva messo la mano l’allora comandante Hass, oggi ministro Hass e domani chissà a quale altro titolo si sarebbe dovuto abbinare il suo cognome. Fosse come fosse, lei non aveva nulla in contrario. Venissero pure a studiare la pietra! Erano ancora troppo pochi per occuparsi da soli di tutto ciò che il sottosuolo sputava a intervalli quasi regolari. Ogni aiuto era bene accetto.
Ma Leonardi era stato dimesso e aveva reagito... Difficile descrivere di preciso come avesse reagito. Non come si sarebbe aspettata lei, almeno all’inizio. Gemelos era ancora direttore, non c’erano stati altri terremoti o sommovimenti geopolitici nell’Ufficio, tutto appariva tranquillo e pacifico. Almeno in superficie. Il messaggio che le era arrivato, per esempio, raccontava una storia parecchio diversa e non piacevole. Decisamente non piacevole.
La parola del direttore è legge, recitava il messaggio. Sua è la decisione finale, sua la responsabilità, suoi i rischi, suoi anche i meriti, se e quando ce ne dovessero mai essere. E il direttore Gemelos, in uno spirito di collaborazione tra i popoli, fratellanza universale e palle varie galattiche, aveva deciso di accogliere la richiesta di Agni, o di un centro di studi locale, e autorizzato un gruppo di studiosi a recarsi su Madre e unirsi alle ricerche sulla nuova pietra. Lui, povero piccolo Leonardi, non poteva certo opporsi alla volontà del direttore (ma lo poteva, altroché se lo poteva, pensava Sonja), per cui tutto ciò che si sentiva di poter fare era di inviare alcuni suggerimenti, piccoli e trascurabili, nonché non obbligatori, alle autorità locali, nella speranza di poterle aiutare a svolgere al meglio il proprio lavoro. Eccetera eccetera. Seguiva lista dei consigli.
Sonja D’Antona li aveva letti. Poi li aveva riletti. Aveva chiuso gli occhi, nella vaga speranza che, al momento della riapertura, la realtà sarebbe stata diversa. Ma non era cambiata. Non cambiava mai la realtà, quando chiudevi gli occhi e lo desideravi con forza. Il solo modo per cambiare la realtà era aprire bene gli occhi e agire con forza: questo le aveva insegnato l’esperienza, corretto o meno che fosse. Certo, se la realtà non avesse incluso loschi figuri come Leonardi, sarebbe stato anche meglio e soprattutto più facile, ma non si può avere tutto dalla vita e di solito neppure gran parte, per cui le toccava decidere e arrangiarsi con ciò che aveva per le mani.
Ossia gli ordini di Leonardi e le proprie convinzioni personali. Se la si voleva presenta come un alto e nobile conflitto tra dovere e sentimento, coscienza e legami sociali, palle varie e frittata mista. Ma era stupido. Peggio, era romantico. Molto meglio farne una questione semplice e diretta: continuare a obbedire al vecchiaccio ultracentenario, ormai con piedi, mani e quasi tutto il corpo nella fossa, o cominciare a contemplare un mondo libero da lui? Anche perché, a volerla dire tutta, non è che pure lei stesse diventando giovane, anzi. Poter spendere gli ultimi anni della propria attività senza avere l’ombra del patriarca-padrone appollaiata sulle spalle sarebbe... Beh, probabilmente lo stesso tipo di impulso che aveva spinto il direttore Gemelos ad autorizzare l’arrivo degli studiosi di Agni. Segno di rivolta, affermazione del proprio io, della propria individualità, di fronte al grande vecchio che, in decenni passati, aveva non solo fondato l’Ufficio per la Colonizzazione, ma trainato quasi l’intero pianeta verso un futuro luminoso e pepperepè. Lo stesso grande vecchio che, adesso, non mollava l’osso neppure in vista dei centodieci anni.
Ma aveva ancora tempo, Sonja D’Antona, tempo per pensare e decidere. Il gruppo di Agni sarebbe arrivato tra un mese circa, secondo la loro ultima comunicazione, e in un mese hai tempo di fare più o meno di tutto, specie quando non si tratta di un fare fisico. Ne discusse con Rafael Thoreau, tanto per cominciare: di archeologia non sapeva neppure da che parte si guardasse, ma era un altro reduce della seconda spedizione e, come lei, non condivideva la politica di Leonardi. Si erano anche trovati a discuterne quando avevano scoperto quel fossile, oltre un anno prima, e alcuni archeologi avevano aiutato gli exologi a disseppellirlo e cercarne altri.
«Nel mio dipartimento ci sono parecchi che ti direbbero di fare finta di non avere mai ricevuto quel messaggio e fare di testa tua, possibilmente il contrario di quello che ti hanno ordinato,» le rispose Thoreau, con un sorriso smorto e occhi che non la guardavano mai in faccia. «Lo avrebbero voluto fare anche per il fossile, sai, ma alla fine, beh...»
«Alla fine hai obbedito a Leonardi.»
«E alla Rossi. E a quella testa quadra del generale Petkovic. Ma lo sai anche tu, non sono mai stato uno da prima linea, io. Non ho lo spirito dell’eroe, o del martire, che in questo caso mi sembra più appropriato che eroe. Io ho sempre preferito una vita tranquilla, nascosta. Non che questo mi abbia impedito di brontolare in privato e non essere d’accordo dentro, sai, ma...»
«Ma fuori sì, in superficie.» Sonja D’Antona annuì. Ricordava il Thoreau della seconda spedizione, anche se archeologi ed exologi non avevano mai avuto molto a che fare lontano dai pasti. Ricordava l’omino al seguito della donna monumentale, la professoressa Farrell, sempre in silenzio e sempre a trafficare con pesci deformi e malnutriti, o almeno con cose che sembravano pesci. Sempre calmo, in silenzio, mai una parola fuori posto, o anche solo una parola e basta, se lo poteva evitare. Dopo la seconda spedizione era rimasto anche lui su Madre e si era visto ancora di meno, se possibile. Poi la colonia si era formata, i primi arrivati erano stati spinti verso l’alto da movimenti tellurici dovuti in parte o in tutto a Leonardi e così l’archeologa capa, cioè lei, si era trovata a collaborare spesso con l’exologo capo, cioè lui, in divertentissime questioni amministrative e di bilancio. Fantastico. Ma la sua opinione di Thoreau non era cambiata in quei venticinque anni: ometto da poco, che di tanto in tanto abbaiava piano, ma non mordeva mai.
Non che lei avesse mai morso molto. Le rovine aliene erano la facciata pubblica di Madre e questo garantiva sia prestigio che risorse economiche al settore che lei presiedeva; l’avevano anche scelta come vice del governatore Rossi, giusto per sottolinearlo ancora un poco, nel caso ce ne fosse poi bisogno. Nessun archeologo avrebbe mai dovuto mendicare e i fondi non sarebbero mancati mai. Di cosa si sarebbe dovuta lamentare?
Dell’eccessivo controllo, per esempio. Dei militari ovunque. Del contagocce con cui arrivavano e si fermavano (ma più spesso non si fermavano) archeologi di altri pianeti. Eppure non si era lamentata davvero, non fino a oggi. Sarebbe stato ridicolo biasimare Thoreau per aver fatto la stessa cosa. Ma se lei avesse dato il buon esempio, oppure il cattivo esempio, a seconda dei punti di vista...
«Allora cosa vorresti fare? Disobbedire davvero?» le chiese Thoreau. «Se davvero vuoi disobbedire, ti consiglio di non farlo in modo troppo chiaro ed evidente, sai com’è.»
«So com’è e non sono scema, grazie,» gli rispose lei. «Non ho certo intenzione di fare una scenata o andare alla sede dell’Ufficio sulla Terra e urlargli che non obbedirò, figuriamoci. Non c’è neppure bisogno. Lui mi chiede di sorvegliarli, ostacolarli e buttarli fuori alla prima occasione? E io lascerò che rimangano finché vogliono. Controllati, d’accordo, ma in modo molto rilassato, niente militati a stargli col fiato sul collo tutto il giorno o stupidaggini di quel tipo. Li tratterò come qualunque altro gruppo di studiosi venuti dall’esterno a lavorare con noi, e le istruzioni speciali beh, sai com’è, deve esserci stato un qualche problema nelle comunicazioni e non ho ricevuto il testo competo.»
Rafael Thoreau sorrise. «Probabilmente dovrai fare a testate con la Rossi e probabilmente ti troverai tra i piedi Petkovic o uno dei suoi più spesso che no, ma in fondo tu sei il vicegovernatore e questo ti assicura almeno un peso maggiore. I titoli non sono tutto, d’accordo, ma contano. Leonardi finge che non sia così, soprattutto da quando ha lasciato la poltrona di direttore, ma...»
Ma non sempre il giochetto gli riesce, anche se non sempre lo si poteva definire un giochetto. Se poi c’era di mezzo Madre, di giocoso non aveva proprio nulla. Forse era il caso di essere più prudenti e, già che c’era, anche un poco paranoici. Disobbedire sì, ma con metodo. Un poco alla volta e sempre studiando le reazioni. Obbedire all’inizio, o quasi obbedire, e poi rilassarsi a poco a poco, lasciando passare sempre di più, una libertà extra oggi, un’altra la settimana prossima, fino a che gli ordini nel complesso non si fossero liquefatti. Difficile, non certo la sua specialità, ma si poteva fare. E intanto studiare da che parte tirassero i venti sulla Terra. Sempre per sicurezza.
C’erano fazioni, questo lo sapeva. C’erano sempre fazioni, ma quando si trattava di Madre le potevi raggruppare in due grandi categorie: con Leonardi e contro Leonardi. I primi erano sempre stati più forti, ma negli ultimi anni la bilancia aveva cominciato a raddrizzarsi prima e poi inclinarsi in senso contrario, mentre il diretto interessato perdeva colpi, invecchiava, si ammalava, invecchiava, vinto o quasi dal tempo se non dai nemici politici. Questo lo aveva incattivito, come succede quasi sempre. Molti oggi guardavano al ministro Hass, che una volta era sembrato il delfino di Leonardi, ma poi aveva cambiato sponda e ne era diventato il primo avversario. Dopo la morte della moglie, dicevano alcuni. Dopo la morte della moglie su Madre, aggiungevano altri, col corsivo ben in evidenza. Fosse come fosse, pareva uno di quegli scontri in cui tutti, presto o tardi, avrebbero dovuto prendere una posizione, se possibile quella vincente.
E Hass era favorevole all’ingresso anche massiccio di scienziati e ricercatori da altri pianeti. Rafael Thoreau ne era un sostenitore; mimetico e nascosto come pochi, è vero, ma aveva già preso la sua posizione e sembrava volerla mantenere, forse spinto e incalzato dalla sua assistente voluminosa, la Bapchuck. Forse era tempo che una posizione la prendesse anche lei e il messaggio di Leonardi, più ordine che messaggio a voler essere precisi, le suggeriva indirettamente da quale parte sarebbe stato meglio schierarsi. Con cautela, beninteso, che il governatore Rossi aveva probabilmente la faccia di Leonardi ricamata anche sulle mutande. Meglio non rischiare.
Sonja D’Antona sospirò. Non le erano mai piaciuti né interessati i giochi politici, ma adesso doveva partecipare anche lei, volente o nolente. Glielo imponeva la sua posizione, glielo richiedevano i suoi incarichi, nonché il considerevole stipendio che ne ricavava. Il vecchio Khaled Said aveva davvero fatto la scelta migliore, quando aveva abbandonato Madre alla fine della seconda spedizione e non ci era più tornato. Non gli piaceva il posto, aveva detto, e lei lo aveva sempre interpretato come uno scarso amore (comprensibile) per il pianeta brullo e desolato, dall’aria più polverosa di un attico. In seguito aveva cominciato a pensare che forse non si riferiva solo (o tanto) al posto fisico, ma anche all’incarico che vi avrebbe dovuto ricoprire. E che aveva scaricato sulle spalle della sua assistente Sonja, andandosene. Ahaha, che bello scherzetto. Adesso Khaled viveva sulla Terra, sovrintendente ai Beni Culturali della zona Mediterranea con vista ormai sulla pensione e tanti saluti all’universo.
Aveva fatto davvero la scelta vincente, maledetto lui.
Con un pensiero agli ordini di Leonardi e un altro al modo più efficace per disobbedire con cautela, Sonja D’Antona cominciò a preparare l’accoglienza per il gruppo di Agni.