La galassia di Madre - 83
Di nuovo a Varshi. Era trascorsa più di una settimana da quando erano rientrati dalla spedizione a Gayat e nulla era cambiato nella loro vita quotidiana. Nulla o quasi, e almeno in superficie. Matteo si era rassegnato al rientro nella sua vita locale di Sharma, Indira e al resto del gruppo studentesco, e tutta la distanza che lui aveva costruito in precedenza, o meglio ancora aveva lasciato formarsi, era svanita molto in fretta. Il litigio con Sharma era un fatto del passato, nessuno vi accennava e quasi poteva essere un evento mai accaduto, almeno a galla. Lo stato di cose del primo anno pareva essere ormai ristabilito quasi del tutto, con spiccata infelicità del tentato evasore, il quale però non si era opposto in forma esplicita, ma aveva lasciato di nuovo che tutto accadesse, come da sua abitudine. La vita proseguiva, trasportando con sé i relitti umani che la ricoprivano.
Il discorso cambiava un poco se si esaminavano le correnti di profondità. Là sotto, negli abissi dove la razionalità arriva di rado e il pensiero logico fugge schifato, la notizia che Matteo aveva ricevuto a Gayat dal funzionario dell’ambasciata terrestre aveva messo radici, si era ancorata con forza e di tanto in tanto sembrava emettere sospette bolle di dubbio o di altre sostanze gassose, quasi di sicuro maleodoranti e insalubri. Perché, mentre lui viveva in modo più o meno tranquillo e pacifico la sua vita su Lakshmi, suo fratello Davide era in apparenza scomparso (ma non disperso, aha) su Madre.
Una parte di lui gli diceva che era suo fratello, l’ultimo membro rimasto della famiglia, e avrebbe dovuto fare qualcosa per trovarlo, o almeno saperne di più, così da potersi guardare allo specchio, in futuro, e dire «Ok, ci ho provato, ho fatto il possibile, peccato che non sia servito», e così via. Era il minimo che ci si potesse aspettare dal fratello maggiore, giusto? Ma un’altra parte, che deteneva al momento la maggioranza assoluta nel parlamento del suo cranio, scuoteva invece la testa, dava una pacca sulle spalle della parte in minoranza, assumeva il corretto atteggiamento filosofico, con occhi semichiusi e capo leggermente inclinato verso l’alto, e ripeteva che sì, ok, belle idee, idee corrette, in linea di principio, ma, suvvia, quando proprio si andava al dunque, cosa mai si aspettava di poter combinare uno come lui? Credeva seriamente che una eventuale spedizione su Madre avrebbe mai cambiato le cose per Davide? Che le avrebbe migliorate o, chessò, che lo avrebbe persino salvato? Credeva seriamente di poter fare una qualche differenza, lui?
Matteo Kori non lo credeva. Non una differenza in positivo, almeno. Sapeva che sarebbe stato tutto inutile, su un piano razionale. Sapeva tuttavia che si sentiva anche un verme a pensarla così, il che non gli piaceva. Rovinava i pochi residui di immagine positiva di sé che aveva costruito a fatica in anni e anni di duro lavoro e dura fuga dalla realtà. Sapeva infine che, se avesse aspettato abbastanza a lungo e lasciato scorrere abbastanza tempo, il problema si sarebbe risolto da sé, senza bisogno che lui prendesse una qualche decisione, se non la pura e semplice decisione di non decidere. Un’arte in cui era maestro, dopotutto, e amava praticare in ogni occasione utile e in molte di quelle in cui utile non lo sarebbe stato. Non sempre con successo, è vero, e il caso di Sharma lo dimostrava, ma era un terreno su cui si sentiva sicuro. Aspetta, non agire, e lascia che provveda l’entropia.
Ma Davide era sempre disperso e lui si sentiva un verme. Così, in un tentativo di fuga più profonda dalla realtà, si rifugiò nel posto più irreale che conoscesse, che già tante soddisfazioni non gli aveva dato in precedenza e che certo si sarebbe ripetuto anche adesso. Con un passo di stracchino scaduto e quasi del tutto sciolto, Matteo saliva a testa bassa i pochi gradini del cento culturale terrestre, certo che il più immutabile dei magazzini dimenticati dall’uomo e maledetti dagli dei lo avrebbe accolto a braccia aperte, nel suo torpore supremo da lotofagi impenitenti.
E nulla appariva cambiato, a prima vista. Dopo un anno di assenza, era come se non se ne fosse mai andato: i manifesti vecchio stile erano gli stessi, l’aria di quieta dimenticanza era la stessa, perfino il sottile strato di polvere negli angoli era probabilmente lo stesso, custodito e conservato con cura, da tramandare alle prossime generazioni, che le prossime generazioni lo volessero o meno. E le facce? Immutate, come se neppure il tempo potesse attraversare la porta e lasciare il proprio marchio sulla blanda, divina indifferenza degli occupanti. Anche il fantomatico dott. I. Brünnel era là, assiso come una statua scolpita nel cerume, e un profondo senso di nostalgia colse Matteo, strizzandogli un poco il cuoricino. Come il primo giorno in cui lui era entrato, sì, ormai tre anni prima. E come quel primo giorno, ancora lui non sapeva per cosa stesse la i puntata nel nome del funzionario. Commovente.
Ma il tempo ritornò con tutto il proprio peso a infrangere la pia illusione, quando Matteo entrò nella specie di bar attaccato al centro culturale e la realtà si riassestò di colpo, gridando che sì, in linea di massima nulla cambiava mai lì dentro, ma i dettagli umani, gli scarti studenteschi cambiavano e il passato era passato, definitivamente. Perché seduti a un tavolino c’erano sì i due immutabili Roger Snyder e Maelle Prsic, sempre allo stesso posto e sempre impegnati forse a parlare delle stesse cose, ma Steve Dingledine non era più, laureato e partito per Madre, e nuove facce si erano aggiunte alla tragicommedia umana, facce che Matteo non conosceva e non aveva molta voglia di conoscere, per dirla tutta. Ma conoscere le avrebbe dovute, perché già i soliti noti lo avevano visto e accennavano a lui. A spalle curve e col cuore in tasca, Matteo li raggiunse.
Fu una riunione strappalacrime, ma anche no. Maelle e Roger lo accolsero subito con una scarica di battute di pessimo gusto e commenti perfino peggiori, proprio come Matteo li ricordava e come non li avrebbe desiderati ritrovare. Stoicamente sopportò. Procedettero poi col presentargli i due nuovi acquisti del centro culturale, studenti terrestri al primo anno, appena arrivati dalla Terra e ancora in parte entusiasti di conoscere altri veterani, che così a lungo avevano vissuto su un altro pianeta. Ma il loro entusiasmo non sarebbe durato molto, specie se si ostinavano a frequentare quel luogo: già ne potevi leggere i segni sulle facce, nella curva della bocca, nel taglio degli occhi. O almeno li potevi leggere se eri semianalfabeta, ma dotato di buona fantasia. I nomi dei due poveracci attraversarono il cranio di Matteo come meteore, senza lasciare tracce del proprio passaggio, ma sorrise e strinse le mani, per dovere di firma e perché era il modo più rapido per chiudere la faccenda.
Sedette. Il prossimo atto della commedia sociale prevedeva chiacchiere inutili sull’anno trascorso, i fatti avvenuto su Lakshmi e le cose che Matteo aveva combinato altrove. A nessuno interessava, ma le convenzioni sono convenzioni, le regole non scritte sono regole non scritte e pappappero, così un profluvio di minuti morì agonizzante tra formalità scialbe e racconti ancora più insapori. E questo, e quello, e quell’altro ancora. E ma dai, e davvero, e sì, e no. E qui, e là. Ma pensa! E certo che. Ma è vero? Che roba! I due novellini li osservavano con facce glassate e occhi increduli, o forse facce incredule e occhi glassati, incapaci di accettare che tanta noia potesse nascondersi anche ad anni e anni luce dalla Terra. Benvenuti nella galassia.
Quando il torrente si fu ridotto a un rigagnolo e anche quel rigagnolo agonizzava ormai nel deserto del nulla, dove ogni parola strisciava su terreni aridi e disperati, su cui mai aveva affondato le radici una qualche forma di vita intelligente, piovve dal cielo ma soprattutto dalla bocca di Maelle un vago cenno a Steve, latitante Steve, che aveva lasciato la brutta compagnia e probabilmente non ne aveva mai avvertito la mancanza. Per Matteo il cielo cambiò colore, soprattutto perché si trovavano in una stanza chiusa e il cielo non si vedeva proprio.
«Ci è arrivato un suo messaggio, qualche tempo fa, sai. Se n’è andato su Madre a giocare con le sue mosche, ricordi? È contento come un, guarda, non te lo immagini proprio. Dice che gli fanno fare i lavori più schifosi che trovano e lui non ne può più, davvero. Hah, così impara a fare il furbo! Te lo ricordi cosa diceva, eh? Ohoho, io me ne vado su Madre a specializzarmi, mi hanno scelto loro, sarò importante, vedrete, diventerò famoso. Hah, famoso proprio, sì.»
Matteo non ricordava che Steve avesse mai detto niente di tutto ciò, ma non gli pareva il caso di far presente la propria mancanza di memoria a Maelle, che tanto non lo avrebbe ascoltato, se gli andava bene. Se non gli andava bene, lo avrebbe deriso e alla fine sarebbe stata colpa sua, a prescindere e in fiducia. «Su Madre?» chiese invece.
«Cos’è, non te lo ricordi? Hai perso la memoria ad andartene in giro a fare la bella vita con quel tuo compagno di bevute? Madre, sì. Per le sue ricerche sulle mosche o quello che erano. Te lo ricordi il tuo amico Steve, eh? Almeno lui, voglio dire. O hai affogato anche quello nell’alcool, eh?»
Non è che Steve fosse proprio suo amico, semmai conoscente, ma Matteo soprassedette. Quando eri costretto a parlare con una come Maelle Prsic, soprassedere era una delle tue armi migliori, almeno finché non potevi alzarti e fuggire via. Ricordava Steve, già, ma al momento aveva dimenticato che fosse andato su Madre a specializzarsi. Era trascorso più di un anno, che cavolo, e con tutto quello che era successo nel mezzo una piccola dimenticanza gli pareva più che giustificabile. «Che cosa ha detto su Madre? Ci sono novità? È un bel posto? È successo qualcosa mentre era là?»
Maelle sbuffò. «È una topaia, dice. Così primitivo che guarda, è già tanto che non ci sono i gabinetti all’aperto, davvero. Prima lo hanno messo a lavorare con una specie di scarafaggi, poi gli è toccato strisciare nelle fogne o in altri condotti sotterranei, non lo ha spiegato molto bene, per cercare nuovi esemplari di un qualche insetto, roba simile. Divertente come una gastrite, sai. Ma così impara, lui e le sue mosche. Ma ti ricordi tutte le arie che si dava, eh? Quando c’era stata la quarantena su Madre, per quella storia di mosche che morivano, eh? Adesso gli sarà passata la voglia di fare lo spiritoso, il signor So-Tutto-Io, hah! Nelle fogne a strisciare.»
Ok, di informazioni non ne avrebbe ottenute. Matteo tentò di nuovo di riportare la discussione verso lidi che gli potessero tornare utili, ma fu soltanto per puro dovere di forma, senza convinzione, tanto per, hai visto mai. Non servì. Ma Steve Dingledine era su Madre, giusto, e di certo non poteva avere incontrato Davide, ovvio che no, i coloni erano comunque qualche milione e le probabilità che quei due si fossero conosciuti, o anche solo visti di sfuggita, erano molto prossime allo zero in qualsiasi cosa non fosse una storia di Dickens, eppure... Poteva valere la pena di inviargli un messaggio, per salutarlo, sapere come se la stesse passando, cose così, e magari, chissà, magari buttarci un accenno a, ahaha, voci secondo cui qualche colono era scomparso, sono sciocchezze, lo so, ma magari, sai, è capitato anche a te di sentirle, ovvio, sono esagerazioni, chiaro, tuttavia.
Non lo avrebbe fatto. Non avrebbe inviato alcun messaggio, non avrebbe chiesto alcuna notizia, se ne sarebbe rimasto seduto su una poltrona lakshmita, ad aspettare che anche il ricordo di Davide si perdesse nel nulla, come si era perso il suo corpo (che era scomparso ma non disperso, giusto, tante grazie per la precisazione, caro il mio funzionario). Avrebbe fatto così. Ossia non avrebbe fatto. Era la sua seconda natura, non fare; era la sua vocazione. Nullafacente, alla lettera. Matteo sospirò.
Quella sera in mensa si ritrovò anche Sharma e Indira al loro tavolo, il primo col suo solito sorriso placido, la seconda con un mezzo ghigno da “voglio proprio vedere come strisci via da noi, adesso: lo voglio proprio vedere”. Ma Matteo non strisciò via. Aveva tentato di lasciar decomporre i legami col gruppo, ma gli eventi avevano in apparenza complottato contro di lui. Ritentare sarebbe stata troppa fatica. Meglio lasciarsi portare dalla corrente e rassegnarsi. Giusto. Come un cadavere. Così sedette accanto a Chakra, che si ingozzava allegro, e salutò come se niente fosse. E niente era, da un certo punto di vista: un punto forse non troppo aporetico, nel caso specifico.
«Pensi di esserti reinserito finalmente nei ritmi?» chiese Sharma. «Mi sembra di vederti ancora un poco sperduto, ma forse non è una questione di disabitudine, con le notizie che ti sono arrivate e che hai dovuto metabolizzare. Mi sembra del tutto normale avvertire una certa confusione.»
Matteo mugugnò una risposta poco impegnativa sul tema del tutto bene. Sharma gli domandò se ci fossero novità dall’ambasciata. Matteo mugugnò una risposta poco impegnativa sul tema del non ce ne sono. Sharma gli chiese se avrebbe proseguito coi suoi studi regolarmente o se avrebbe apportato una qualche modifica al piano di lavoro. Matteo mugugnò una risposta poco impegnativa sul tema del ci devo ancora pensare. Sharma gli domandò se ci fosse qualche altro problema. Matte mugugnò una risposta poco impegnativa sul tema del tutto bene.
«Sai anche comunicare come una persona normale, oppure ti dobbiamo vivisezionare per estrarti un qualche tipo di risposta che non sia un mugugno menefreghista?» chiese Indira. «Giusto per sapere, sai com’è. Nel caso andrò subito a procurarmi il bisturi.»
«Un trinciapollo potrebbe funzionare meglio ed è più appropriato all’ambiente,» le disse Chakra. «Comunque lo dovresti sapere anche tu che è sempre così. Sospetto che la parte migliore di lui sia scesa lungo il canale sbagliato, in fase di concepimento. O questo, oppure è caduto troppe volte di testa dal seggiolone.»
«Sempre simpatico tu, eh?»
«Come sai mi impegno a fondo, caro il mio Matteo, ma non riuscirò mai a raggiungere i tuoi livelli. Dal viaggio a Gayat esprimi costantemente tutta la simpatia di un ratto che ti è venuto a morire nel retto e ci è rimasto incastrato. A volte mi domando se non sia successo davvero. Non che mi freghi granché di quello che combini, beninteso: il materiale che mi sono portato da Laozi mi terrà ancora impegnato per un bel pezzo. Posso solo augurarmi che alla fine ne sarà valsa la pena.»
Matteo mugugnò una risposta poco impegnativa sul tema del non me ne frega niente.
«Oh, lo so, lo so,» disse Chakra. «Hai il muso lungo perché pensi a quel tuo fratello scemo, che si è andato a perdere in una cloaca o qualcosa del genere, oppure è fuggito col suo amante.»
«Non è un fratello scemo e poi...»
«Oh, allora sei tu il fratello scemo? Lo sospettavo, ma fa sempre piacere riceverne una conferma dal diretto interessato. Grazie. A ogni modo, come ti ho già detto è meglio che lasci perdere tutto e te ne freghi. Ma lasciare perdere davvero, dico, non fingere che non ti interessi e poi andartene in giro col muso da moribondo stitico e il lamento perenne.»
Matteo stava per replicare che no, non se ne andava in giro col muso da moribondo e non aveva il lamento perenne o quello che era, ma le occhiate che gli rivolgevano i commensali lo convinsero di quanto la sua difesa sarebbe stata debole. Perché era vero. Dare ragione a Chakra era peggio di una gastroscopia a pancia piena, ma in quel caso specifico gli toccava ammettere a malincuore e male in tutto il resto che l’amico aveva ragione. In parte. Da un certo punto di vista. Limitatamente a certi aspetti della questione.
«Non riesco a fare finta di niente,» rispose infine. «So che probabilmente sarebbe davvero meglio e so che comunque non otterrò niente ma, cioè, ecco...» E lì si fermò, incapace di continuare. Perché è chiaro che una spiegazione c’era, ma una spiegazione bella, sensata, forte, una che avrebbe azzittito pure Chakra, ammesso che fosse davvero possibile azzittirlo senza ricorrere a una forma estrema di ultraviolenza, magari canticchiando “Singing in the rain”, ma lui non la sapeva trovare. Non adesso e forse mai, se proprio doveva dire la verità. Non sapeva neppure dove cominciare a cercarla, quella spiegazione definitiva. Ma il punto non era quello. Era un altro.
Peccato che ancora non avesse trovato neppure il punto. O una virgola, in mancanza di meglio.
«Matteo, ormai dovresti avere capito anche tu che Chakra ama esagerare, anche solo per provocare i suoi ascoltatori, ed è una persona poco responsabile, nel complesso. Non prestare troppa attenzione a quello che ti dice. È comprensibile che tu sia preoccupato per tuo fratello ed è anche giusto. Se il tuo amico non lo capisce o non lo prende sul serio, il limite è suo, non tuo.»
Chakra agitava una forchetta in aria, a sottolineare ogni parola di Sharma. «Il mio cuoricino è pieno di gioia nel sapermi così bene compreso e soprattutto così stimato da chi mi conosce,» disse poi. «A proposito, mio caro Sharma, non è che avresti intenzione di riprenderti questa piattola terrestre? Coi suoi sospiri incrementa spaventosamente il tasso di umidità della stanza.»
Matteo scagliò un tappo contro Chakra, colpendolo in fronte. Indira scosse la testa. «Se ancora non ve ne siete accorti, almeno su un piano del tutto teorico sareste entrambi studenti universitari, anche se non mi pare che stiate studiando molto al momento, né vi si vede spesso in università. Sarebbe un piccolo progresso se almeno cercaste, di tanto in tanto, di comportarvi da persone che hanno passato i vent’anni, invece che da bambini dell’asilo.»
«Va bene signora maestra, ma ha cominciato lui,» rispose Chakra, poi si raddrizzò sulla sedia, tolse il tappo e si schiarì la gola. «Facciamo le persone serie, d’accordo. Da persona seria, dunque, vi dirò che il nostro collega Matteo Kori dovrebbe dimenticarsi del fratello, scemo o non scemo che sia. Gli ho anche già spiegato i motivi, ma lui sembra non avere ascoltato, o forse non ha capito, cazzi suoi. A ogni modo, le scelte che ha sono due, al momento: proseguire la propria vita qui, concentrandosi su quello che deve fare qui, studio o altro che sia, oppure andarsene su Madre e cercare il fratello, o sue notizie, o quello che è. Messa in altri termini, può fregarsene o non fregarsene di lui. Io voto per il fregarsene. È la soluzione più rapida e produttiva, a lungo termine.»
«Non è proprio così semplice,» cominciò a rispondere Matteo.
«Sì che lo è e lo sai anche tu. E sai anche perché faresti meglio a fregartene. Ma se non mi credi, se pensi che il brutto Chakra cattivo stia dicendo balle, racconta tutta la storia anche agli altri due e poi sentiremo un loro parere informato, invece dei soliti luoghi comuni su famiglia e palle varie.»
«Quale sarebbe questa storia?» chiese Indira. «C’è qualche extra nella vicenda di tuo fratello?»
Matteo la guardò, poi si girò verso Sharma, che distolse lo sguardo, infine si fermò su Chakra, che sorrideva con la sua solita faccia da schiaffi. Lottò per un poco con se stesso, poi si arrese. Segreti lì su Lakshmi? Come se ne esistessero davvero! Sperare di poter tenere qualcosa solo per sé era forse un retaggio culturale dei tempi in cui privacy era qualcosa più di una parola arcaica sui vocabolari; su un pianeta come quello, poi, aveva senso quanto una pirofila di ghiaccio, una mannaia di gomma o qualche altra demenzialità analoga. Meglio dimenticarsene, prima di diventare scemi.
Così Matteo raccontò anche agli altri il suo primo incontro coi funzionari dell’ambasciata terrestre, al tempo del soggiorno a Nuova Kalighat. Sharma probabilmente lo sapeva già, con la sua abitudine di sorvegliare e spiare per il bene altrui, ma la sorpresa di Indira sembrò reale a sufficienza da poter essere autentica. Fosse come fosse, non aveva poi importanza, ormai. Matteo raccontò e buona notte al secchio, nonché a tutto il resto dell’attrezzatura. Non fu una storia lunga.
Alla fine Indira chiuse gli occhi e si strofinò la fronte. «Fammi capire,» disse. «Tuo fratello prima si mette nei guai sulla Terra, mischiandosi a un qualche gruppo di pseudoterroristi o quello che è, poi si stanca e fugge su Madre sotto falso nome, ma è così incapace che lo scoprono subito e persino dei funzionari dell’ambasciata terrestre qui su Lakshmi lo sanno e ti vengono addirittura a cercare per informarti, infine si perde mentre è in vacanza, giusto perché ancora non era soddisfatto del lavoro. Fin qui ci siamo? Il riassunto è corretto?»
«Beh, ecco, non dovresti metterla proprio in questi termini,» rispose Matteo. «Così la fai sembrare quasi una storia comica invece, voglio dire, è una cosa seria, cioè.»
«La deficienza scorre nel sangue, come puoi capire,» disse Chakra.
Indira sospirò. «Comincio a sospettare che tu abbia davvero ragione, guarda. Comunque, tu adesso pensi che tuo fratello, questo Davide, abbia trovato un qualche compagno terrorista o quello che è, il collega di lavoro assieme a cui è sparito, e temi anche che siano spariti entrambi mentre si stavano preparando a combinare qualcosa, magari un attentato o quello che è, non ne ho idea e non lo voglio sapere, guarda, e nonostante tutto tu sei preoccupato e lo vuoi andare a cercare?»
«Se non puzza una storia come questa, non so proprio cosa dovrebbe puzzare. È perfino peggio del bagno dopo che c’è stato il nostro amico terrestre,» commentò Chakra, sempre sorridente.
«Risparmiami i dettagli sul bagno, grazie. Comunque no, non andarci. È stupido.»
«Stiamo comunque parlando di mio fratello e vorrei almeno saperne qualcosa, non proprio trovarlo o, chessò, immischiarmi nei suoi affari, ma trovare qualche informazione, per mettermi il cuore in pace, come si dice. Tutto qui, ecco. Non mi pare molto,» obiettò Matteo, o almeno tentò di.
«La storia è in effetti parecchio strana, ma la tua richiesta mi pare legittima,» disse Sharma. «Vuoi dare a tutta la faccenda una chiusura, in un modo o nell’altro, invece di lasciarla a svolazzare. Farti un giro su Madre, magari parlare con qualcuno dei suoi amici o colleghi sul posto, vedere i luoghi in cui ha vissuto, farti una idea di cosa sia stato il periodo che ha trascorso là. Alla fine, poi, tornare qui e riprendere la vita normale, magari con un poco di ritardo, ma almeno dopo averci messo sopra una pietra, giusto? Dare una conclusione alla storia di tuo fratello, trovare una risposta che soddisfi, seppellirlo nel passato e poi ricominciare. Giusto?»
Vaghi residui di superstizioni ancestrali volevano spingere Matteo a compiere adesso svariati gesti di scongiuro, ma il diretto interessato resistette. Ok che Davide era irreperibile, al momento, e non si poteva escludere che sarebbe rimasto irreperibile a tempo indeterminato, ma darlo già per morto e preoccuparsi di sepolture virtuali... «Beh, sì, possiamo dire qualcosa del genere, ecco. So che non servirà a nulla sul piano concreto e mi farà solo perdere tempo, ma insomma, cioè, mi aiuterebbe un poco a non pensarci più. Credo. Forse. O qualcosa del genere. Ci devo pensare.»
Indira e Chakra si scambiarono uno sguardo. Ci doveva pensare, sì. Se prima avesse accettato anche di sottoporsi a un trapianto di cervello, forse i suoi pensamenti sarebbero andati anche meglio, ma ci si doveva pure accontentare, nella vita.
«Se deciderai di andare, sappi che noi saremo pronti ad accompagnarti. Non ti lasceremo da solo in queste circostanze, anche in considerazione di ciò che ci hai appena raccontato. Puoi contare sempre su di noi,» concluse Sharma. Uno, due, tre, quattro, cinque, non aggiunse Indira.
«Beh, il pasto e finito e direi che è il caso di aggiornarci, eh? E ci penseremo tutti quanti,» disse poi Chakra, alzandosi per primo. «Allora? Andiamo o ci avete messo le radici qui, eh?»
Andarono. La sera primaverile di Varshi era tiepida, appena ventilata, e profumava un poco di fiori, nonché di altre sostanze più indefinibili, almeno alle narici di Matteo. Gli insetti ronzavano già che era un piacere, ma ancora non pungevano, risparmiando le forze per la stagione più calda, quando i pishacha e altre specie perfino meno gradevoli si sarebbero scatenate sulla pelle degli incauti umani e, in alcuni casi, anche sulla pelle di quelli più cauti. Ma forse Matteo non ci sarebbe stato. Forse si sarebbe risparmiato un’altra estate lakshmita, la sua seconda consecutiva. Forse. O forse no, era da vedere. Ci doveva ancora pensare, per l’appunto.
«Non cercherò più di convincerti né in un senso né nell’altro,» gli disse Chakra quella sera, nel loro alloggio, «e neppure tenterò di farti sentire la voce della ragione, visto che sembri avere parecchie e ancora parecchie difficoltà a intenderla. Ti ricordo soltanto che, se davvero te ne vuoi andare su quel tuo cesso di pianeta primitivo, ci dovrai andare con Sharma e il suo gruppo. Io non partirò. Ho altro da fare e di tuo fratello non me ne può fregare di meno. Chiaro?»
Chiaro. Nei giorni seguenti Matteo si presentò a qualche lezione dei corsi che erano nel suo piano di studi, seguendole con l’interesse di chi non aspetta più nulla, se non l’ora della propria esecuzione. I tempi in cui la letteratura dei mondi coloniali aveva occupato una posizione di rilievo nelle magiche e inesplorate pianure dei suoi interessi parevano passati, forse per sempre, e gli argomenti erano il blando, monotono ronzio di un drone, che entrava da un orecchio e usciva dall’altro, trovando lungo la strada il nulla più completo. A Matteo non dispiaceva. Né gli piaceva, in effetti, ma era l’apatia a trionfare, al momento. Apatia e disinteresse. Era un corpo, che occupava uno spazio, scaldava una parte di arredamento, consumava una quota di ossigeno, producendo anidride carbonica. E basta.
E cercava di decidere cosa fare. Cercava di ricordare come si facesse a decidere, ammesso che in un qualche periodo avesse mai conosciuto davvero la nobile arte. Contattò il funzionario di ambasciata, domandandogli tra le altre cose se, secondo lui, sarebbe stato utile visitare di persona Madre, giusto nel caso la sua presenza sul posto, per così dire, gli avrebbe permesso di ottenere maggiori notizie. Il funzionario rispose che sì, magari chi si occupava del caso avrebbe accettato di dire qualcosa in più a un parente stretto, qualora si fossero trovati di fronte, ma dubitava che ci fosse molto altro da dire e comunque andare o meno non avrebbe cambiato granché in fatto di ricerche. Matteo ringraziò e chiuse, non soddisfatto, non sorpreso, semplicemente rassegnato.
Seguendo un altro consiglio di Chakra, nel caso avesse davvero deciso di andare su Madre, contattò pure Andrea Fartswell, che si trovava ancora a Mathurnath, parte in vacanza e parte incerta sulla sua prossima mossa, adesso che aveva forzatamente tagliato con Laozi. Lei manifestò un certo interesse per gli sviluppi del caso di Davide e ripeté grossomodo i suggerimenti che già aveva dato Chakra: il viaggio su Madre sarebbe stata una perdita di tempo, almeno se davvero si illudeva di poter trovare il fratello, e non era del tutto da escludere che dietro (o sotto) ci fosse qualcosa che era meglio non portare in superficie, non senza avere fondamenta molto solide su cui poggiare. «Nel complesso, le probabilità che tuo fratello abbia davvero combinato una scemenza, e che per questo qualcuno abbia deciso di rimuoverlo temporaneamente o definitivamente dalla circolazione, mi sembrano parecchio elevate. Non dico che stiano cercando di attirarti, questo mi pare eccessivo, ma dico che non caverai un bel niente dal tuo viaggio, se non forse punture di insetti e qualche malattia locale.» Di nuovo e con entusiasmo ancora minore Matteo ringraziò e chiuse.
La decisione venne a pranzo in mensa, dopo una lezione noiosa come poche, almeno secondo il suo modesto parere e il suo ancora più modesto sentire attuale. Discuteva di come si fosse evoluta negli ultimi due secoli la poetica della nostalgia in un settore molto preciso del romanzo svarghiano, con brevi parentesi su ipotesi e proiezioni che ne delineavano gli sviluppi futuri, probabili anzi certi, se seguite con attenzione l’andamento che ha tenuto negli ultimi tre decenni è inevitabile attendersi un prolungamento in questa direzione. A Matteo non pareva poi così evidente, ma chi era lui per dirlo? E comunque che andasse pure dove gli pareva, la poetica della nostalgia su Svarga.
Dicevamo della decisione. Venne a pranzo in mensa, davanti a una specie di risotto dal colore che a nessun terrestre sarebbe mai sembrato naturale, ma che su Lakshmi lo era, in apparenza. Aveva più spezie di un mercante e il suo sapore non soltanto si attardava in bocca, ma conficcava spilloni in ogni ricettacolo della lingua e anestetizzava quanto rimaneva del tuo senso del gusto, una eutanasia culinaria per cui Matteo era solo grato. Venne mentre Indira sedeva davanti a lui, assieme alla solita sua amica Mei qualcosa, che aveva come sempre l’aria di un animale sorpreso dai fanali in mezzo a una strada. Venne mentre le due parlottavano tra loro di una conferenza che si sarebbe svolta in un futuro abbastanza prossimo lì a Varshi, alla sala convegni dell’università, e che sarebbe stata tenuta da un professore di Svarga, quello famoso. Quello che aveva scoperto le strutture organiche nei due giganti gassosi di Madre, hai presente?
Di Madre. Il resto era sfuggito alle orecchie di Matteo, mai molto interessate alle conversazioni di quelle due, ma il nome no, il nome si era fermato, impigliato nel filtro, pepita rimasta nel setaccio, o forse feccia sedimentata sul fondo della botte. Madre. Ricordava anche la storia dei giganti gassosi e delle strutture organiche, ma la conferenza a cui gli era capitato di assistere mentre si trovava su Rudra era stata una palla mostruosa, per dirla con un termine tecnico, e così l’aveva depositata nella sezione più profonda e ragnatelata del proprio ripostiglio mentale. Risorgeva adesso, morto vivente rianimato, meglio noto come zombie, in quel caso anche coperto di polvere e un poco ammuffito.
Ma i giganti gassosi non contavano. Contava Madre, nome che ancora e ancora e ancora precipitava negli eventi della sua vita, come un ritornello stonato. Era chiaramente un segno. Qualcosa gli stava dicendo che doveva andare su Madre, che là si sarebbe compiuto il suo destino, che questo e quello, decorate la fantasticheria a vostro piacimento. Non era vero, ovviamente, ma non era importante, se lo guardavi dalla giusta prospettiva. Ogni cosa è un segno, se così decidi, ed è sempre un segno che segna quello che più ti fa comodo. Nel caso specifico, a Matteo non faceva esattamente comodo, ma lo aiutava a decidere, lo spingeva in una direzione, e dunque? E dunque poteva bastare.
«Comunque stavo parlando con te. Potresti anche fare finta di ascoltarmi, ogni tanto.»
Matteo sollevò lo sguardo, che si era smarrito negli abissi del risotto semimangiato, e lo ricondusse a connettersi col resto del mondo. Indira lo stava fissando con una certa impazienza. Era successo qualcosa? E cosa? Matteo lo chiese.
«È successo che ti ho fatto una domanda e stavo aspettando una risposta, se questo non è di troppo disturbo al brutto addormentato in mensa,» rispose Indira.
«Ehm, credo di non aver sentito la domanda. Scusa.»
«Ma non mi dire! Stavamo parlando del professor Chang e della sua conferenza. Chakra mi ha detto che tu sei andato ad assistere, quando eravate su Rudra. Come ti è sembrata? Perché la nostra idea è di andare, quando verrà qui a Varshi, e sarebbe utile avere qualche anteprima di cosa aspettarci.»
Matteo fissò l’abisso, ma l’abisso non lo fissò in risposta. Come era stata la conferenza? Era passato tanto e tanto era avvenuto nel mezzo... Ok, magari non così tanto, ciò che era avvenuto davvero lo si poteva semmai descrivere come sequenza amorfa di giorni tutti uguali e intercambiabili, ma a non cambiare era il fatto che lui non si ricordava più quasi niente dell’evento. Così inventò.
«Beh, un poco tecnico, sì, non è proprio una versione per tutti, cioè, non la definirei proprio una, sì, una conferenza divulgativa, ma beh, nel complesso si riesce a seguire, anche se sì, forse, oltre a vari modelli sarebbe stata utile anche, no, qualche spiegazione in più, meno tecnica e più umana, come, voglio dire, non era proprio un tono da lezione universitaria, ma più come un...»
«Te lo stai inventando, vero?» lo interruppe Indira. «Hai dormito tutto il tempo e adesso inventi.»
«Non ho dormito. È che stavo pensando ad altro. Ho deciso. Devo andare.»
«Buon viaggio. Dove? Se è il bagno, non ti trattengo: meglio che non te la fai addosso in mensa.»
«Parlo sul serio. Ho deciso. Devo andare su Madre.»
Una espressione in cui si mischiavano in parti uguali incredulità e compatimento apparve sul viso di Indira, probabilmente col benestare della proprietaria del suddetto viso. «Hai mangiato qualcosa di avariato, vero? O ti sei bevuto anche l’ultimo frammento residuo di cervello?»
«Ti ho detto che sono serio. Devo andare. Per metterci una pietra sopra e non pensarci più.»
«Metterci una pietra sopra o strisciare di nuovo a nasconderti sotto una pietra? Comunque parlane con Sharma, è lui che ti vuole accompagnare. Sempre che tu non ti stia inventando una nuova balla per sparire come è tua abitudine, quando qualcosa ti va male o metti il muso. Non ne sarei sorpresa, visti i tuoi precedenti. Allora?»
Mei Saddhatissa, meglio nota a Matteo come Mei qualcosa, li fissava con placida incomprensione e in silenzio. Forse qualcuno le avrebbe spiegato di cosa si stesse parlando, o forse no. Di solito no, a meno che non fosse Indira ad assumersi l’incarico. Per adesso, la conferenza sembrava dimenticata ed era probabile che non ne avrebbe mai saputo altro. Pazienza.
«Allora sì, ne parlerò con Sharma, va bene, e se proprio vuole seguirmi me lo porterò, anche se non capisco perché dovrei avere accompagnatori ovunque,» brontolò Matteo.
«Perché sei affidabile come il sedere di un neonato,» rispose Indira. «Ma ci penseremo, tanto non è che partirai subito, no? No, non uno come te. Ci metterai una stagione anche solo a organizzarti, se nessuno ci pensa al tuo posto. Sei davvero una piaga sotto un piede, tu.»
«Grazie, fa sempre bene alla mia autostima sentire l’opinione che hanno gli altri di me. Comunque non so quando, ma spero al più presto. È per togliermelo, capisci? Prima la finisco e meglio è, direi. Non che mi aspetti molto, ma è appunto per mettermi il cuore in pace, come si dice. Se faccio finta di niente, come dite tu e Chakra, so che continuerò a pensarci e non concluderò nulla. Meglio finirla e non pensarci più. Credo.»
«Sospetto che tu non concluderai nulla in ogni caso, ma lasciamo perdere. Poi ti spiego,» aggiunse Indira, girandosi verso Mei. «È l’ultima novità del nostro terrestre, che trova sempre modi originali per mettersi nei guai, anche per interposta persona. Adesso vuole andare su Madre.»
«Non è che voglio voglio, ma penso di doverci andare. È diverso,» mugugnò Matteo.
«Quello che è. Come ti ho detto, discutine con Sharma e poi ci penseremo. E adesso mangiamo.»
Mangiarono. Matteo discusse con Sharma quella sera stessa e fu spiacevole quanto pensava e forse un poco di più, per la vaga (ma non troppo vaga, a dire il vero) sensazione che l’altro sapesse già in anticipo ogni cosa, probabilmente per averla osservata a distanza. O per avere spiato, come Matteo avrebbe sempre concepito l’assurdo sistema di autosorveglianza lakshmita. Fosse come fosse, tutto si risolse in fretta, il che fu almeno una piccola consolazione.
Sarebbero partiti per Madre, sì. Nessun lakshima si fidava a lasciarlo andare da solo, in apparenza, e per motivi che Matteo non avrebbe mai capito, ma almeno gli tolsero il problema di dover preparare il viaggio e occuparsi di quegli aspetti di politica ed economia locale che ancora non aveva avuto il modo di apprendere. Si pagavano i viaggi su altri sistemi solari? E come, se Lakshmi non utilizzava alcun tipo di moneta? Matteo se lo era chiesto prima di partire con Chakra ma non aveva ottenuto la minima risposta. Stavolta non se lo chiese neppure, scaricando tutto a Sharma. Se proprio si doveva portare dietro quel peso, almeno che il compagno si rendesse utile: non era una grande consolazione e neppure una piccola, in effetti, perché non gli avrebbe mai perdonato davvero gli spionaggi “per il suo bene”, ma subappaltare i problemi ad altri era pur sempre meglio di niente.
«Io comunque non verrò, sia chiaro,» ripeté Chakra, quando Matteo espose la sua decisione finale e irrevocabile di partire per Madre. «Ho documenti da decrittare ed è un lavoro molto più importante e utile che correre in giro per la galassia dietro a un deficiente di fratello minore e minorato. È pure un lavoro che mi porterà a qualcosa, invece di sprecare tempo come ami fare tu.» Su questa ultima affermazione Chakra si sbagliava alla grande, ma non lo avrebbe scoperto ancora per molto.
«Non è un problema, ci arrangeremo,» rispose Matteo. E si sarebbero arrangiati, di questo era più che sicuro, anche in assenza di qualsiasi ragione sensata per esserlo. Sarebbe andato su Madre e là, in un qualche modo ancora da definire, avrebbe chiuso la storia della scomparsa di Davide. Chiusa con se stesso, se non in termini oggettivi e fenomenici. E poi... Ma al poi avrebbe pensato poi.
Il che di solito non avveniva mai, perché c’era sempre un altro poi a cui rinviarlo, ma quello era un altro discorso. Per adesso, Madre li attendeva.