Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 85

Quando Davide Kori aprì gli occhi, tutto ciò che vide attorno a sé fu buio. Buio completo, nero da un estremo all’altro e ritorno, un oceano di inchiostro in cui mai era comparsa la più piccola, timida scheggia di luce, universo grafico in cui i valori di rosso, verde e blu erano fissati tutti a zero, senza tracce di alfa o altro. Così Davide chiuse di nuovo gli occhi, perché tanto pareva che non facesse la minima differenza, ma soprattutto perché, con gli occhi chiusi, gli restava almeno la garanzia di non vedere cose che, a occhi aperti, lo avrebbero preoccupato o peggio.

Cose come quelle che ricordava a fatica dal periodo precedente il buio. Perché c’era stato un tempo in cui i colori che lo circondavano e avvolgevano avevano mostrato tinte diverse, non proprio e non necessariamente più allegre o rassicuranti, ma diverse. Il problema era che quel tempo era finito da un po’, per valori molti vaghi e nebulosi di “un po’”, e Davide non aveva ancora capito che cosa lo avesse sostituito, né quando lo avesse sostituito. In principio c’era la cella, poi erano arrivate altre e non gradevoli cose, infine... il buio. E col buio ogni altra esperienza finiva. Il buio era buio e in esso tutto il resto si perdeva, se mai un tutto il resto era davvero esistito. Davide a volte ne dubitava.

Ma adesso era disteso, disteso su qualcosa che sembrava una specie di moquette o tappeto, un poco morbido e non del tutto sgradevole al tatto. Neanche del tutto gradevole, d’accordo, ma di cose che non erano gradevoli ne aveva già a sufficienza e per il momento preferiva concentrarsi sugli aspetti più gradevoli della sua situazione. Lo aiutava il fatto che fossero pochi. Una superficie soffice sotto la schiena, nessun dolore immediato, nessuna persona nei paraggi, un odore strano e sconosciuto a riempirgli le narici: non disgustoso né gradevole, non proprio e non del tutto, ma solo strano. Forse lo aveva già sentito in passato, ma Davide ne dubitava. Non era il genere di profumo che si potesse dimenticare facilmente, almeno secondo lui, ma lo stato attuale del suo cervello non era abbastanza affidabile da giustificare affermazioni assolute e indubitabili, dunque era meglio un forse. Un forse era suo amico. Forse non lo aveva mai sentito prima.

C’era anche un caldo orrendo, in quel posto. Non lo aveva notato subito, quando si era svegliato o quando era riemerso dalla nebbia rosacea in cui aveva speso un intervallo di tempo che non avrebbe saputo calcolare, ma lo sentiva adesso e lo sentiva parecchio. Qualunque fosse il luogo in cui i suoi carcerieri lo avevano rinchiuso (perché i soldati che lo avevano preso, condotto nella base militare, interrogato eccetera erano carcerieri, per lui: in quale altro modo li avrebbe dovuti descrivere?), era di sicuro luogo in cui non sarebbe morto di freddo, polmonite o simili. Era un caldo umido, un poco usato, a cui si mischiavano zaffate come il respiro di un animale, un grosso animale. O qualcosa del genere, almeno. Non era un caldo da riscaldamento domestico o da camino, poco ma sicuro. Non lo sembrava, quantomeno. Se solo ci fosse stata una qualche luce...

Ma la luce non c’era: c’era lui, c’era il buio, c’era l’odore, c’era il caldo. Altro non lo percepiva, né lo coglieva con altri sensi, così Davide abbandonò l’inventario e rovesciò per un attimo i pensieri, in un tentativo che avvertiva già come velleitario di ricostruire cosa gli fosse accaduto e cosa lo avesse portato lì, dovunque fosse quel lì. Ma era come nuotare in una piscina di melassa. Pareva quasi che l’ultima fase della sua vita si fosse svolta nella nebbia, una nebbia color confetto e aromatizzata alla vaniglia e fragola, un abbinamento che Davide peraltro non gradiva molto. Ma frammenti c’erano, scene di eventi, dialoghi, sensazioni, e di quei frammenti si sarebbe accontentato, per adesso: forse a metterli assieme e ordinarli, pezzo dopo pezzo, qualcosa ne sarebbe uscito. Il puzzle del passato.

Al principio era stato l’arresto. Quella scena la ricordava bene. Erano arrivati da dietro, quando già i cancelli della base militare distavano un chilometro o poco più, o forse meno. Nessuna resistenza, è ovvio, perché solo un pazzo resisterebbe disarmato a un veicolo carico di soldati non solo armati, e parecchio, ma anche pronti a usare le suddette armi. Così lui e Olaf si erano arresi, braccia alzate e sguardo glassato, col sospetto che magari ci sarebbe stata anche una sculacciata oltre alla sgridata, perché le facce dei soldati potevano essere descritte come amichevoli solo in forma negativa, ma in fondo non avevano ancora fatto nulla di illegale o grave o, almeno, nulla di così illegale o grave, giusto? Quindi tutto sarebbe finito bene.

Ma li avevano condotti nella base. Davide si era visto sfilare sui lati edifici e ancora edifici, le cui funzioni non gli erano chiare, ma potevano essere magazzini, fabbriche o persino alloggi di livello molto, molto basso. Perché era una base militare, ma grande come una città, giusto? Così ci doveva essere tutto quello che trovi in una città. O qualcosa del genere. Olaf era rimasto zitto e a testa bassa e neppure lui aveva voglia di chiacchierare, così il silenzio li aveva avvolti e fasciati mentre i soldati li facevano entrare in un edificio, dalla facciata non molto diversa rispetto a tutti gli altri, e poi giù in processione lungo corridoi identici o quasi, in cui Davide aveva perso quasi subito l’orientamento e anche un poco di speranza. Forse non era solo una sculacciata. Poi li avevano separati e quello era stato il peggio: Olaf in una cella, lui giù per un altro corridoio, infine in una cella stretta. Solo.

Lo avevano interrogato. Poi lo avevano interrogato ancora un poco. Gli avevano portato anche da mangiare e bere, ma robaccia al cui confronto persino le loro mense sembravano alta cucina. Ma la fame non mancava e Davide aveva mangiato. Poi... poi era quasi convinto che fosse entrato un altro soldato, uno che doveva essere un ufficiale o roba simile, perché aveva una divisa diversa e simboli diversi sulle spalle, e magari si era anche presentato, ma era stato più o meno allora che la nebbia al sapore di vaniglia e fragola aveva cominciato a salire e confondere ogni cosa. Non era mai scesa del tutto, da allora, anche se ogni tanto si ritirava a sufficienza da lasciargli vedere il profilo di qualche cosa, situazione, faccia, pensiero, scorie di realtà. Era svanita adesso, ma adesso c’era solo buio.

Pure, gli avevano parlato e lui aveva risposto. Aveva anche fatto domande, di tanto in tanto. Come su suo padre, il famigerato Ercole Cori, poi Kori, che sarebbe stato militare ai tempi della seconda spedizione e avrebbe sorvegliato un pozzo proprio da quelle parti. O così aveva raccontato Zeke. Ed era vero, giusto? Quell’ufficiale sosteneva di no. L’ufficiale sosteneva che non ci fosse mai stato un Ercole Cori o Kori in servizio, né da loro né sulla Terra. «Ti hanno riempito la testa di bugie e tu ci hai creduto,» aveva detto, o qualcosa del genere. Il ricordo era confuso, per Davide. Ma aveva riso e la risata no, quella non era confusa. Era offensiva. E dolorosa.

Bugie. Le storie di Zeke erano solo bugie, secondo l’ufficiale. Suo padre Ercole non era mai stato né militare, né in missione su Madre. Non esistevano rapporti su incidenti nei pozzi come quelli che aveva raccontato Davide. E i pozzi? Esistevano rapporti dei pozzi, giusto? Ma l’ufficiale non aveva risposto, o forse aveva risposto e lui non lo ricordava. Era confusa, la memoria; era confuso tutto il periodo che aveva passato in cella, o nelle altre stanze, luoghi dove gli avevano fatto qualcosa, dove qualcosa era successo, ma mancavano i sostantivi, mancavano i dettagli, nomi, numeri di matricola, informazioni qualsiasi che lo aiutassero a ricostruire il puzzle. Doveva però essere trascorso molto tempo e in quel tempo c’era stato dolore. Non sempre e non solo, ma c’era stato. Questo almeno lo ricordava. O ne era convinto a sufficienza da trasformarlo in un ricordo?

Davide sospirò e riaprì gli occhi. Il mondo si ostinava a rimanere nero, in ogni direzione. Dovunque lo avessero spostato, era almeno certo di essere da solo. Una nuova cella, forse, in un sotterraneo di un qualche tipo, ma se cella era, beh, era abbastanza confortevole, con tanto di tappeto, moquette, o qualunque altra cosa fosse la superficie su cui era disteso. E non c’era più dolore, non c’era nebbia. Se soltanto avesse visto una qualche luce e se la sua memoria fosse stata qualcosa più di una rete da pesca tarmata, Davide avrebbe quasi potuto dire di sentirsi bene. Di sentirsi se stesso. Per sentirsi un po’ più se stesso decise di provare ad alzarsi. Ci riuscì.

Il buio restava buio, il caldo restava caldo, e l’odore non proprio sgradevole né gradevole restava un odore non proprio sgradevole né gradevole, ma adesso percepiva tutto questo da posizione eretta, la schiena non posava più su quella specie di tappeto o moquette, il soffitto era distante a sufficienza da non sbatterci la testa e poteva anche allargare le braccia senza incontrare alcuna parete, senza che qualcosa bloccasse il movimento. Poteva essere un buon segno. Poteva anche non esserlo, ma per il momento Davide preferiva tentare un poco di ottimismo, hai visto mai, magari poteva aiutare. Non che fosse facile pensarlo, ma da qualche punto doveva pure cominciare, se voleva capire cosa fosse successo e dove si fosse svegliato. Non nella vecchia cella, poco ma sicuro.

Aveva i piedi nudi. Il tatto gli confermò che indossava ancora i vestiti su tutto il resto del corpo, con ogni probabilità quella specie di incrocio tra un pigiama e una tunica da ricoverato (tunica? Era così che si chiamavano? Poco importava) che gli avevano fatto indossare in un qualche momento dopo il suo arresto, ma ai piedi non portava nulla, né scarpe, né ciabatte, né calze, niente di niente. Portava solo le scarpe che mamma gli fece e che non mutò mai da quel dì, come forse avrebbe detto Matteo, il presunto letterato di famiglia, ahaha. Ma il pensiero di Matteo era fastidioso e un poco doloroso, al momento, e Davide lo scacciò. Pensare a suo fratello significava pensare a casa, a quando erano una famiglia, la mamma era viva e tutto era non proprio bello e buono, perché non lo era mai stato, ma se ti impegnavi abbastanza potevi illuderti almeno che tutto funzionasse. Male, ma funzionava. Niente poteva invece funzionare quando ti avevano scaricato in chissà quale cella al buio, da solo, su un pianeta lontano trenta anni luce dal posto in cui eri nato.

Ma i suoi piedi erano nudi e poteva sentire una sottile peluria a contatto con la pelle. La sentiva tra le dita, ad accarezzarlo piano se si muoveva. Un tappeto, forse, anche se sembrava più di stare sulla pelliccia di un qualche animale morto. Il suolo era tiepido attraverso quegli strani peli. Seriamente, dove lo avevano buttato? Davide mosse pochi passi in avanti, braccia protese a intercettare ogni tipo di ostacolo che avrebbe potuto incontrare. Ma non ne incontrò e i passi furono pochi davvero: dopo il terzo la gamba destra cedette e lo scaraventò a terra senza tante cerimonie. Mani e tappeto (aveva deciso di considerarlo un tappeto, fino a prova contraria) ammortizzarono la caduta: come cadere su un materassino peloso. Un materassino caldo e peloso, un poco cedevole, un poco soffice.

Davide si rialzò a fatica, solo in parte. Gomiti e ginocchia al suolo, se di suolo si poteva parlare, per un poco stette a fissare il buio, gattoni o quasi. Meglio respirare a fondo e calmarsi, andare molto e ancora molto cauti. Meglio soprattutto girare la testa di lato e tenere il naso il più possibile lontano dal tappeto. Perché puzzava davvero di animale, quel tappeto. Era dunque una pelliccia? Possibile. Il problema (uno dei tanti) era che non riconosceva la puzza. Che non era poi così puzza, ma se sei da solo al buio, in un posto ignoto, anche un odore che non riconosci può diventare puzza, e assai sgradevole. Questione di nervi e fifa, più che ragionamento logico e raziocinante.

C’era anche la testa che gli girava un poco, giusto per peggiorare la situazione, se mai la si poteva davvero peggiorare. Non gli faceva male, non esattamente, e non la sentiva proprio confusa. Era più come se si fosse appena ripreso da una lunga e debilitante malattia, una di quelle che ti inchiodano a letto per giorni, forse anche settimane. Una di quelle da cui esci con una forma fisica che la potresti spalmare sul pane o su una fetta biscottata. Ma Davide non era stato malato, di recente, o almeno la memoria gli suggeriva che non lo era stato. Poteva fidarsi? Considerato quanto schifo avesse fatto la sua salute da quando era arrivato su Madre, poteva anche avere preso la lebbra cimurrale bubbonica e non essersene ancora accorto. Sospirò.

Riposò ancora un poco, poi si sollevò. Un attimo dopo ci ripensò e tornò a terra. Era al buio, era in un posto sconosciuto e le sue gambe non sembravano così solide e affidabili come lo erano state nei tempi felici prima dell’arresto. Perché rischiare? Meglio gattonare, con cautela, tastando bene ogni centimetro del suolo, fino a che non avesse incontrato una parete. A quel punto avrebbe potuto usare il suo sostegno per rialzarsi e magari proseguire l’esplorazione con almeno un punto fermo su cui si sarebbe potuto appoggiare. Sì, era la soluzione migliore. Cautela fino a che non avesse trovato una parete, poi si sarebbe alzato per seguire il perimetro della cella. Davide partì.

Trovò quasi subito una parete, ma anche quella sembrava ricoperta dal tappeto, che dal pavimento continuava come se non ci fosse una reale distinzione, un angolo retto tra le due superfici, ma solo una leggera curvatura che le univa. Strano, ma forse era una qualche strampalata scelta di design, o roba simile. In base alla pressoché nulla esperienza personale che ne aveva lui, corroborata da tanti e tanti “sentiti dire” di indubbia inaffidabilità, chi era pagato per fare roba più o meno artistica o che doveva sembrare artistica si impegnava sempre a inventare ogni stupidata per far credere che il suo apporto fosse davvero importante. Quindi sì, poteva essere una bizzarra scelta di design. Rafforzato dal ragionamento zoppicante, Davide si appoggiò alla parete pelosa e si tirò in piedi.

Il piano prevedeva adesso che lui avrebbe seguito il muro fino a incontrare il successivo, che certo doveva formare un angolo retto (o una curva, se i designer si erano scatenati) e chiudere la stanza, e seguire poi la nuova parete, sciacqua e ripeti fino a tornare al punto di partenza. È vero, non aveva lasciato alcunché a segnare quale fosse il punto di partenza, ma questo era un problema secondario e comunque doveva per forza essere una stanza quadrangolare, come ogni altra cella, per cui prima o poi avrebbe completato il giro, in un modo o nell’altro.

Un ragionamento impeccabile, almeno per la condizione in cui si trovava la mente di Davide, che di fatto non era poi così buona come il suo proprietario avrebbe voluto pensare. Costeggiò il muro per un periodo più lungo di quanto avrebbe trovato rassicurante, sotto le dita di mani e piedi sempre la sensazione non del tutto sgradevole di quel pelo caldo e sottile, forse un paio di centimetri, forse un poco di meno. Anche la parete sembrava leggermente cedevole, come il suolo, ed era calda, un poco animale nell’odore che emanava. Quando ormai aveva camminato anche troppo per i suoi gusti e la gamba destra gli ebbe ricordato di non essere ancora così stabile, col ginocchio che traballava e la caviglia che non sempre rispondeva agli impulsi del cervello, Davide fu costretto a fermarsi, il fiato corto e pesante, e considerare l’inconsiderabile. Forse non era in una cella. Forse non si trovava in un’area circoscritta e delimitata da pareti. Dove si trovava, allora?

In un luogo buio. In un luogo caldo. In un luogo dall’odore un poco animale e molto sconosciuto, e silenzioso, e vuoto, e insensatamente coperto di pelliccia. E solo. Dovunque fosse, Davide era solo.

«C’è nessuno?» chiamò, sentendosi immediatamente stupido per l’orrendo cliché che aveva usato, il cui essere del tutto inutile non aiutava. Inutile perché niente e nessuno gli aveva risposto, neppure il più vago degli echi. Provò di nuovo e di nuovo ottenne solo di rompere per un attimo il silenzio, che poi tornò a riempire l’aria attorno a lui. C’è nessuno? No, non c’era nessuno, o almeno nessuno gli rispondeva, niente si muoveva, nulla accadeva. Dovunque fosse, per l’appunto, era solo.

Riposò ancora un poco appoggiato alla parete. Sollevò un braccio per scoprire se ci fosse un soffitto sopra di lui, ma le sue dita non trovarono resistenza. Aria, aria calda, aria dall’odore ignoto. Davide sentiva di trovarsi in un qualche posto chiuso, o almeno lo immaginava con forza, perché soltanto in luoghi chiusi poteva esserci così buio, un nero non scalfito neppure dalla traccia più sottile di luce, e il mondo esterno non funziona così, c’è sempre una qualche luce fuori, per quanto tenue e fioca. E il silenzio totale era un altro indizio che suggeriva artificio, azione umana, perché nella natura ci sono sempre rumori. Per quanto ne sapeva lui, almeno. Quindi...

Quindi un altro pensiero sbocciò: che artificiale non era necessariamente sinonimo di umano. Certo, lo poteva sembrare, e sulla Terra di solito lo era, ma adesso non si trovava sulla Terra. Adesso lui si trovava su Madre (salvo imprevisti estremi, perlomeno) e su Madre non c’erano stati solo gli umani a produrre cose che potessero risultare artificiali, giusto? Lo ripetevano tutti che su Madre c’erano stati gli alieni, tre o quattro milioni di anni prima o giù di lì. Potevano dunque averlo chiuso in una qualche struttura di origine aliena? Nonostante il caldo, Davide rabbrividì.

Ma non durò molto, perché un altro pensiero diede di gomito al precedente. Perché mai i militari lo avrebbero dovuto rinchiudere in una struttura aliena? Non aveva senso. Non è che le prigioni della zona Mediterranea, sulla Terra, si trovassero dentro le Piramidi, o sotto il Colosseo, o in un qualche altro reperto archeologico. Sarebbe stato stupido. E poi non aveva ancora trovato niente che fosse di pietra, sassi o quell’altra roba che usano nelle rovine. Quindi doveva essere qualcos’altro. È ovvio.

Davide ringraziò il pensiero. Non aveva migliorato granché la sua situazione, perché era ancora nel buio di un posto sconosciuto, da solo e con un corpo che sembrava piuttosto distante da una decente forma fisica, ma almeno le aveva impedito di peggiorare. Se la guardava dalla giusta prospettiva. Il luogo in cui lo avevano lasciato non era un rovina aliena: era solo un posto ignoto e misterioso.

Non sapendo che altro fare, riprese a camminare con la mano destra sempre appoggiata alla parete, le dita che scorrevano sulla superficie coperta di pelo e tiepida. Di tanto in tanto chiamava nel buio, ma nessun suono gli rispondeva, neppure quello che produceva lui stesso. Continuò per un tempo che non avrebbe saputo misurare, sempre attendendo e sperando che qualcosa accadesse, magari se possibile non qualcosa di brutto o doloroso, grazie, fino a che le sue dita non trovarono una novità, un cambiamento: la parete curvava, quasi ad angolo retto. Curvava verso destra. Dopo un attimo di riflessione e un profondo respiro, Davide svoltò con estrema cautela.

E vide la luce. Ne vide un puntino, almeno, ma anche un puntino pareva un sole nel nero completo attraverso cui si era mosso fino ad allora. Una scheggia lucente, fioca, che sembrava sospesa quasi nel nulla, ma non era sospesa nel nulla, era posata sul... muro, per mancanza di termini migliori con cui descriverlo. Davide si avvicinò con tutta la lentezza di chi adotta, per scelta o necessità, regimi alimentari molto poveri di fibre. Il puntino luminoso non si muoveva. Era posato sulla superficie facente funzione di muro, che nel misero bagliore appariva in effetti ricoperta di peluria, uno strato di filamenti cheratinosi scuri, un mantello, un vello, una pelliccia, un quel cavolo che ti pare. Era un muro ed era peloso, questo è il punto. Davide ne fu alquanto schifato.

Fu ancora più schifato quando si fu avvicinato a sufficienza alla fonte di luce e la riconobbe, in una scarica di dissenteria mentale che non sarebbe rimasta tra i momenti migliori della sua esistenza. La cosa appoggiata alla parete pelosa era simile, orribilmente simile, alla specie di bruco con cui aveva condiviso un ributtante tête-a-tête nelle fogne di Oklahoma City, appena prima del ricovero, prima della vacanza, prima di tutto. Ritrovarlo lì, dovunque fosse quel lì, gli arrivò come un calcio forte e ben mirato nelle gonadi: fu quasi eroico non vomitare.

Lo avevano rinchiuso nelle fogne? I militari lo avevano gettato in, chessò, una specie di fogna sotto la loro base? Era il modo in cui si liberavano degli intrusi impiccioni? Ma soprattutto, quale senso aveva? Perché tanto dolore? Non che al momento ce ne fosse molto di dolore, almeno su un piano fisico, ma era certo che da qualche parte il dolore ci fosse stato, prima, e comunque anche adesso lui stava soffrendo. Soffriva dentro. Soffriva soprattutto da solo, al buio, in quel luogo ributtante.

Pure, non sembrava una fogna. Per quanto grandi potessero essere i condotti sotto la città, Davide si trovava adesso in un luogo che sembrava molto più grande e spazioso, quasi una città sotterranea, la versione febbricitante e malata di una metropolitana, ma senza rotaie, senza veicoli, soltanto tunnel e tunnel nelle viscere della città. O di qualsiasi altra cosa fosse.

Il pensiero quasi lo fece cadere, tanto improvviso gli era arrivato. Sottoterra! Un tunnel sottoterra, o forse una rete di tunnel. Ecco cosa poteva essere quel posto. Spiegava tutto. No, non spiegava tutto, d’accordo, ma spiegava molto e molto può anche essere meglio di tutto, quando fino a pochi minuti prima avevi solo niente. Restavano da spiegare l’odore, il pelo, il caldo, la morbida cedevolezza del suolo, preoccupante e stramba come poco altro, ma almeno era un inizio. Sì. Poteva partire da lì. Gli uomini alla base militare lo avevano interrogato, gli avevano fatto altre cose, e alla fine lo avevano gettato in... un dungeon, ecco. Suonava molto fantasy, ma per adesso si sarebbe accontentato.

Usando quel puntino di luce come riferimento, Davide camminò verso l’ipotetica parete opposta di quel nuovo passaggio e la trovò, rafforzando così l’ipotesi di essere in un tunnel. O in più tunnel, un intrico di tunnel, un intestino tenue di tunnel. Respirò a fondo. Situazione brutta, forse disperata, ma almeno adesso era una situazione comprensibile, da un certo punto di vista: l’ignoto aveva perso per adesso il suo primo strato, mostrandogli parte del suo profilo. Poteva guardarlo in faccia. Lo poteva almeno riconoscere come qualcosa in possesso di una faccia da poter guardare. Adesso gli restava solo da fare tutto il resto, ma aveva un punto di partenza. E partiamo, allora.

La prima mossa di Davide fu di procedere lungo il nuovo tunnel. Non appoggiato alla parete, per lo meno nel primo tratto, perché vicino a quelle schifezze luminose non ci voleva più stare: ne ritrovò il contatto un poco più a valle (o a monte), dopo essersi accertato a sufficienza che quel millepiedi, bruco o quel che era non lo avrebbe seguito. Erano lenti, per quanto ne sapeva lui, e poteva usarlo al posto di una tacca sul muro, come segno che era passato di lì. Così non si sarebbe perso, ottimo!

Ne trovò altri, più avanti. Uno strisciava adagio sul soffitto, che doveva essere ad almeno due metri e mezzo dal suolo, secondo una rapida stima a occhio e croce che Davide improvvisò. Non più alto del soffitto in una normale stanza, forse un poco più basso, forse una via di mezzo. Il suo corpo non reagiva ancora molto bene, gli sembrava sempre di essersi appena ripreso da una malattia, ma era la sua mente a essere migliorata. Aveva uno scopo, seppure labile e in gran parte immaginato, e questo lo spingeva avanti, lo incoraggiava, lo sosteneva. E la luce poteva molto sulla psiche umana, anche quando era una vaga fosforescenza che proveniva da bruchi vomitevoli.

Ancora più avanti gli insetti segnavano altre diramazioni, decisamente troppe per i gusti di Davide. Pareva di camminare in un formicaio o in ciò che un umano potrebbe visualizzare come formicaio: gallerie ovunque, sottoterra, nel buio, e tutte uguali, quasi impossibili da navigare senza una mappa. Lui di mappe non ne aveva, non aveva neppure qualcosa con cui marchiare le pareti e i passaggi: la sua unica guida erano i bruchi luminosi e persino una stella lontana trentamila anni luce gli avrebbe dato più luce di quelli. Forse. Secondo la vaga concezione astronomica di chi non ha mai studiato la disciplina in tutta la propria vita, né mai la studierà. Ma il punto era che non ci si vedeva un tubo e i bruchi aiutavano, d’accordo, ma cosa avrebbe dato per una sana torcia!

Studiò per almeno un paio di minuti la struttura del posto, raccogliendo vari riferimenti a casaccio o quasi; quando si fu convinto a sufficienza di avere memorizzato a dovere la strada per la quale era arrivato, nel caso ci fosse stato bisogno di tornare indietro, scelse la diramazione in cui gli insetti gli sembravano più numerosi e ripartì. Da qualche parte doveva pure finire quel posto, giusto? Di tanto in tanto chiamò ancora, gettando qui e là la propria voce nel nulla, senza molte speranze che potesse servire a qualcosa. Ma i bruchi non parevano infastiditi dal suono e male non ne poteva fare, per cui continuò, a intervalli il più possibile regolari.

Smise di colpo quando ricevette una risposta.

«Io!» Una voce umana, almeno in apparenza, e maschile. Forse anche vecchia, ma era difficile dirlo con certezza, soprattutto per uno come Davide, che considerava vecchi tutti quelli oltre i quaranta e vetusti chi passava i cinquanta, forte dei suoi vent’anni ancora da compiere. Era una voce di adulto, sembrava di adulto, ma altro non poteva dire. Quella semplice parola, poi, quel pronome personale gettato come il raglio di un asino (così lo avrebbe descritto la mamma, quando era in giornata, cioè quasi mai), aiutava come una scala di marzapane bagnato.

Davide chiamò di nuovo, più cauto, e di nuovo gli arrivò quel pronome in risposta. Io, io. E suonava più vicino, adesso. Non molto, doveva essere ancora a venti, trenta metri (stima buttata a caso), ma era una voce, sembrava umana e si stava avvicinando. Per qualche motivo non ne fu rassicurato. Era come entrare di notte in una casa abbandonata, chiedere «C’è nessuno?» e sentirsi rispondere «No». Come reagisci? Davide non lo sapeva, ma lo avrebbe dovuto decidere a breve, altrimenti sarebbero state le cose a decidere per lui e a quel punto il suo parere non avrebbe più contato.

Furono le cose a decidere per lui. Mentre era ancora immobile a fissare il vuoto, perso in chissà che crisi esistenziale o di mezza gioventù, una sagoma si disegnò a poco a poco nel buio di fronte. Una sagoma umana, non alta, non larga, dalle spalle incurvate e l’andatura di chi ha abbandonato tutto e potrebbe tranquillamente abbracciare un albero e lasciarsi morire. Ricordava un poco il modo in cui Matteo camminava per casa, quando era periodo di interrogazioni o compiti in classe. Ma non era di certo Matteo, purtroppo. Davide si morse un labbro, aspettando che il misero lucore dei bruchi sulle pareti illuminasse il nuovo arrivato. Quel tanto che bastava per vedere chi o cosa fosse, almeno.

Avvenne un attimo dopo e ciò che apparve fu... Deludente, sì. E anche un poco schifoso, sebbene di uno schifo molto diverso da quello dei bruchi. Era un uomo ed era nudo. Non un buon inizio, ma il continuo prometteva di essere peggiore, perché il tizio dimostrava almeno settant’anni, andante per i tremila, e se non era un eremita, doveva esserne la migliore imitazione in commercio. Barba lunga e bianca, capelli lunghi e bianchi, scarmigliati e luridi come se non avessero mai conosciuto pettini o shampoo, e il resto... Davide storse il naso. Non un odore misterioso, stavolta, ma un odore molto ben definito e riconoscibile. Ne avrebbe fatto volentieri a meno, grazie tante. A completamento del quadro sconfortante, gli occhi dello sconosciuto parevano rossastri, anche nella luce miserabile dei bruchi sulle pareti. Non una compagnia rassicurante, lì sotto al buio.

«Io,» ripeté il nuovo arrivato, fermandosi a qualche passo di distanza e fissandolo. «Io.»

Come reagire? Davide non lo sapeva, ma provò con un sorriso e un poco di cortesia. Funzionavano sempre, giusto? O così si diceva, anche se chi lo diceva di solito non si trovava da solo al buio in un luogo misterioso, in compagnia del cugino pazzo di Jack lo Squartatore o qualcosa del genere.

«Buongiorno. O buonasera, non so che ore siano da queste parti,» cominciò. «Non so neanche dove sia questa parte, in effetti. Comunque mi chiamo Davide Kori e, beh, e sono qui. Non so...»

«Lo so io,» lo interruppe lo sconosciuto. «Non c’è molta gente vestita da queste parti e chi c’è, non c’è per molto.» Sospirò. «Non li incontro spesso. Non mi avvisano mai...»

Chiarissimo. Se solo ci fossero stati anche i sottotitoli o se almeno qualcuno avesse fornito a Davide un breve riassunto delle puntate precedenti, allora magari avrebbe anche capito cosa stesse dicendo quel tizio. Ammesso e non concesso che stesse dicendo davvero qualcosa e non fossero solo i deliri di uno squilibrato. Non aveva un’aria molto sana, il vecchio, e il misero bagliore emesso dai bruchi non migliorava proprio l’effetto, anzi. Visti da vicino, poi, i suoi occhi sembravano davvero rossi. E il suo odore era un dettaglio su cui nessuna forma di vita dotata di olfatto avrebbe desiderato dovere indugiare per più tempo del necessario. Più di tre secondi, per esempio.

«Non so quando verrà a prelevarti, ma di solito non ci vuole molto,» continuò la specie di eremita. «Possiamo parlare un poco, nel frattempo. Non mi capita spesso di parlare con qualcuno di vero, di recente. Neanche di meno recente, forse, ma cosa è il tempo qui sotto?» Alzò le spalle.

Chiacchierare con quel tizio. Non qualcosa che Davide avrebbe desiderato in circostanze normali, ma le sue non potevano proprio essere descritte come circostanze normali e poi non aveva ancora trovato altre forme di vita a parte i bruchi, e i bruchi non erano di grande compagnia, ma soprattutto non potevano rispondere a molte domande. Quel vecchio, magari... E poi era vecchio. Sicuramente pazzo, forse anche pericoloso, ma pur sempre vecchio. Anche nelle condizioni di forma non proprio fantastiche in cui si trovava adesso, Davide era sicuro che non avrebbe avuto problemi a difendersi, nel caso che. Cosa aveva da temere da quello stecchino barbuto e fetido?

«Parliamo pure,» disse. «C’è qualche posto un po’ più, ehm, normale di questo? Perché non è che io mi senta molto a mio agio, qui. Voglio dire, galleria fantastica, bella calda, accogliente, comfort di ogni tipo, però non è proprio, ecco...»

Il vecchio alzò di nuovo le spalle, gesto molto eloquente per un corpo che pareva composto solo di ossa e peli superflui. «Andiamo. Seguimi.» Davide andò e lo seguì.

Camminarono a lungo, probabilmente, o questa fu la sensazione che ebbe. Prima lungo la galleria in cui si erano incontrati, poi svoltando in un nuovo tunnel a destra, poi un altro a sinistra, di nuovo un cambio di direzione verso destra e in un attimo Davide era così perso che non lo avrebbero trovato neppure agli oggetti smarriti. Non che prima avesse in testa una chiara mappa del posto e sapesse di preciso quale fosse la sua posizione nel tutto, ma almeno coltivava con cura e tanto fertilizzate una vaga illusione di orientamento. Seguire il vecchio la ridusse a brandelli. Non sarebbe mai riuscito a tornare indietro da solo, neanche se avesse avuto davvero un indietro dove tornare: tutto ciò che ora poteva fare era proseguire e sperare. Prima o poi sarebbero giunti da qualche parte, giusto?

C’erano bruchi più o meno ovunque nei nuovi tunnel, sparpagliati sulle pareti e di tanto in tanto sul soffitto. Non che emanassero poi molta luce, ma funzionavano almeno come punti di riferimento ed erano una specie di guardrail vivente, che indicava grossomodo i confini del posto. E disegnavano il profilo del vecchio nel nero dell’aria. Basso, magro e da dietro ancora più scarmigliato e misero di quanto fosse serbato da davanti. Chi era? Cosa era? Davide si ripromise di chiederglielo alla prima occasione, anche se dubitava di ricevere una qualche risposta sensata. Le premesse non erano state molto incoraggianti, coi suoi deliri di fantomatiche terze persone plurali, che sono da sempre segno inequivocabile di demenza o pazzia avanzata. O entrambe le cose, se era per questo. Pure, non è che avesse molte alternative, al momento.

In due occasioni cercò di attaccare discorso, ma entrambi i tentativi furono rispediti al mittente con la busta ancora sigillata. Davide scrollò le spalle e procedette dietro la figura patetica che gli faceva strada. In altre due occasioni chiese una breve pausa per riposare una gamba destra che continuava a non collaborare; il vecchio gliele concesse, sempre in silenzio. Alla fine raggiunsero un tratto in cui la galleria sembrò smettere di essere una galleria, per allargarsi in qualcosa di... più largo, già. Era il massimo che si potesse dire, quando le uniche luci erano insetti che strisciavano sulle pareti.

Il vecchio si girò. «Qui va bene,» disse, sedendo a terra. Sempre sprovvisto di alternative migliori o anche solo neutre, Davide lo imitò, ma a una certa distanza di sicurezza.

Dove era finito? Sempre sottoterra, se erano davvero sottoterra, e sempre in un punto delle gallerie, se erano davvero gallerie. Altro non lo avrebbe saputo dire. Studiando il modo in cui erano sparsi i bruchi, la loro distanza, l’intensità della luce prodotta (che già chiamarla luce... ma vabbè), poteva ipotizzare di essere in una specie di snodo, crocevia, un tratto più largo e forse tondeggiante in cui vari passaggi si incontravano. Il suolo era sempre peloso e soffice, le pareti parevano sempre pelose, l’aria sempre calda, tutto sempre silenzioso. Non un grande cambiamento, a parte il tizio seduto di fronte a lui. Oh beh, dopotutto era un’avventura, come avrebbe detto Sebastian.

Ma che male ripensare agli amici! Potendo tornare indietro, col cazzo che avrebbe deciso di nuovo di farsi quella stupida spedizione verso il vecchio ascensore! Ok, il viaggio con Olaf era stato anche piacevole, avevano chiacchierato e si erano grossomodo divertiti, ma tutto il resto era vantaggioso come un investimento ad alto rischio proposto dalla tua banca di sfiducia. Bisognava essere davvero stupidi per accettarlo e infatti lui era stato davvero stupido, aha, bel guadagno che ne aveva ricavato dall’acquisto delle azioni della famigerata Truffaldini s.f.i.! Chissà che fine aveva fatto Olaf. Anche lui disperso in un posto del genere? E gli altri? Tornati sani e salvi in città, certo, ma poi? Li stavano cercando? E dove? E come?

La voce del vecchio lo riportò al presente. «Mi chiamo Laurent Karlsson, io. O così mi chiamavano, prima. Adesso... non che abbia importanza. Adesso non vedo più nessuno. Nessun umano.»

Davide lo guardò. «È... anche lei un prigioniero?» chiese. Una idea terribile era che quella fosse sul serio una specie di prigione sotterranea, in cui gettare persone da dimenticare. Sembrava una storia da drammone medievale, di quelli coi re e altra feccia aristocratica, gente che parlava strano e roba simile, ma lì sotto, in quel preciso momento, sembrava anche orribilmente plausibile. Ma no, non lo poteva essere. Non così. Non in quell’epoca.

Laurent Karlsson scrollò di nuovo le spalle, gesto che pareva piacergli parecchio. «Prigioniero non proprio, non esattamente, ma più o meno sì. Prigioniero: puoi metterla così, sì. Sono qui sotto dalla spedizione. Non sono più risalito. Non me lo hanno più permesso. Intermediario, mi capisci?» Rise, o almeno emise un suono gracchiante che poteva essere interpretato come una risata malriuscita, se si era di buon cuore e soprattutto bocca buona. «Ambasciatore, mi chiamano.»

Davide non lo capiva, ma decise di mordere il proiettile. «E, qui sotto, dove sarebbe, scusi?»

«Qui sotto. Dentro il pianeta. In fondo ai pozzi. Li conosci i pozzi, giusto?» Altra scollata di spalle. «Ti hanno gettato via. Ti gettano sempre via, quando non servi più. A volte ne incontro qualcuno, a volte no. È grande qui sotto e non sempre è il mio pozzo. A volte parliamo, a volte non riescono più a parlare. A volte... così. Ma alla fine li viene sempre a prendere tutti.»

Ci fu un momento di silenzio, che proseguì per molti altri momenti. Alla fine Davide ritrovò la voce e una scheggia di cervello, forse non del tutto funzionante ma capace di rispondere «Presente!» alla conta. «In fondo a un pozzo?»

«In fondo a un pozzo, sì.»

«Dentro Madre?»

«Madre, sì. L’hanno chiamata così, credo.»

«E... chi viene a prendere tutti?»

Laurent Karlsson allargò le braccia, non migliorando le qualità olfattive dell’aria. «Madre. Sempre e solo Madre, come la chiamano. Ci sei dentro. Ci siamo dentro. Le appartieni, ora. Buona fortuna.»