La galassia di Madre - 86
In fondo a un pozzo. Dentro Madre. Le appartieni. Così aveva detto il vecchio e Davide Kori rimase in silenzio per un poco, lasciando che le informazioni andassero a sedimentarsi in quella porzione di cervello in cui le informazioni amano andarsi a sedimentare. Attorno a loro il buio restava buio, col bagliore di alcuni bruchi a spezzarlo giusto il minimo sindacale per scorgere qualche vaga sagoma, e il caldo pareva ancora più caldo pur senza essere cambiato di un grado. Ma la temperatura non era il problema e Davide lo sapeva. Erano le frasi del vecchio, semmai. Le frasi e qualunque altra cosa poi potessero significare di preciso.
La prima affermazione era accettabile: strana, ma accettabile. Che su Madre ci fossero pozzi faceva parte del dogma che Zeke gli aveva trasmesso, durante i mesi con gli Isolazionisti; lui stesso aveva poi deciso di andare verso il vecchio ascensore proprio per cercarli. La seconda affermazione, se si presupponeva la verità della prima, era non solo accettabile, ma logica. Se lo avevano buttato in fondo a un pozzo, era inevitabilmente all’interno del pianeta. Vero, l’intonazione del vecchio faceva pensare che ci fosse qualcosa di più in quel “dentro Madre”, ma per il momento i dettagli potevano aspettare. Restava la terza affermazione e quella era insensata, limitrofa al folle.
Ma in fondo il vecchio stesso appariva insensato, limitrofo al folle. Appariva anche lurido, e oltre ad apparirlo lo odorava anche, ma i dettagli igienici potevano aspettare. Prima era importante cercare di stabilire una comunicazione sensata con quel tizio. Ammesso e non concesso che si potesse.
«Cosa significa che le appartengo?» chiese infine, sforzandosi di suonare calmo e razionale.
Il vecchio sospirò ancora. «Non c’è bisogno che te lo spieghi. Lo vedrai da solo, quando verranno a prenderti. Saranno meglio di qualunque spiegazione, davvero.»
«Che risposta del cazzo. Non solo non mi dici niente, ma ci butti dentro anche una manciata di loro, giusto per fare casino. Cos’è, la settimana della paranoia?»
«Tu non hai idea di dove sia o cosa sia questo posto, quindi non capiresti nulla di quello che potrei dirti, ma in fondo non ha importanza che tu capisca o meno. Non ha più importanza, una volta che ti hanno mandato qui. Ci sono cose più interessanti di cui parlare, finché possiamo parlare.»
«Ci saranno per te, magari, ma per me è molto più importante quello che non mi vuoi dire. Sono in fondo a un pozzo? Ok, bene, ma non sembra molto un pozzo, questo. Ci sono gallerie nei pozzi? O in qualunque altra cosa ci sia in fondo ai pozzi. Cosa sono questi pozzi? Come sono, perché ci sono, chi li ha fatti, a cosa servono? Perché ci hanno buttato me? Perché ci sei tu? Perché sono coperti di pelliccia, moquette, quello che è? Ma soprattutto, come si esce?»
«Ne hai tante di domande.»
«Ne ho ancora di più, se vuoi, ma queste sarebbero già un buon inizio. Vuoi chiacchierare? Va bene, chiacchieriamo di questo. Di argomenti te ne ho dati, no? Da quale preferisci cominciare?»
Stavolta fu il vecchio a restare in silenzio per un poco. O per molto, forse: stimare il passaggio del tempo era parecchio difficile, in un ambiente in cui l’unico riferimento affidabile eri tu stesso e tutto il resto era soltanto buio, oppure immobile. «Non so rispondere a tutte le tue domande,» disse poi.
«Fa lo stesso, comincia almeno a rispondere a qualcuna, che sarà meglio di niente. Tu hai detto che sei... ehm... com’è che ti chiamavi, scusa? L’ho dimenticato.»
«Laurent Karlsson.»
«Laurent Karlsson, già, grazie. E perché sei qui sotto? Da quanto sei qui sotto?»
Ennesimo sospiro. «Da quanto non lo so. Non ho mezzi per misurare il tempo, se non i cambiamenti del mio corpo, e anche quelli sono piuttosto difficili da vedere, qui al buio. Da molto, credo. Anni, suppongo. Se sai dirmi l’ultima data che ricordi, magari potrei calcolare quanto è passato.»
Davide Kori gliela disse, con qualche esitazione. La sua memoria non sembrava funzionare molto bene, proprio come il suo corpo non aveva funzionato molto bene dopo il risveglio. O il qualunque cosa fosse. Dubitava che il periodo di nulla tra la cattura e il buio delle gallerie fosse sonno, o anche solo qualcosa di simile al sonno. Era stato troppo sgradevole e per nulla riposante.
«Allora dovrebbero essere all’incirca venticinque anni da quando mi hanno sistemato qui,» rispose il vecchio, o Laurent Karlsson per chi preferiva il nome proprio. Davide trovava più semplice usare il sostantivo “vecchio” per descriverlo, magari aggettivandolo davanti a “eremita”.
«Venticinque anni? Ma venticinque anni fa, cioè, voglio dire.» Pausa per contare sulle dita, seguita da breve e insoddisfacente riflessione sulla cronologia e quel poco che sapeva di storia locale. «Era ai tempi in cui hanno cominciato la colonizzazione, no? O giù di lì.»
«Era al tempo della seconda spedizione. Ho partecipato alla seconda spedizione. Bella ricompensa che ne ho avuto, davvero. Venticinque anni sepolto qui sotto, come ambasciatore.» Ci avresti potuto sistemare abbastanza esche avvelenate per sterminare un impero di animali infestanti col sentimento che gocciolava da quell’ultima parola.
«Hai partecipato alla seconda spedizione? Quella... quella che ha trovato i pozzi.»
«La seconda spedizione, sì, assieme a Leonardi, Hass e tutti gli altri. E no, non quella che ha trovato i pozzi. I pozzi li ha trovati la prima spedizione, che non è più tornata. Noi dovevamo scoprire cosa fosse successo alla prima spedizione. Lo abbiamo scoperto, da un certo punto di vista. Li abbiamo anche ritrovati, se si può dire così. Hah!»
Per la prima volta dopo tanto tempo Davide si scoprì interessato a qualcosa di diverso da se stesso. Si scoprì anche interessato a quel vecchio, nonostante la puzza e un aspetto che avrebbe terrorizzato generazioni di bambini, se lo avessero immaginato dentro l’armadio in piena notte. Una persona che aveva partecipato alla famosa seconda spedizione: lì di fronte a lui. Nonché al buio di qualche posto misterioso in fondo ai pozzi, giusto per aggiungere una nota ancora più surreale all’evento. Poteva essere pazzo e mitomane, d’accordo, ma... non lo sembrava. Suonava convincente, reale. Almeno in un contesto molto preciso e delimitato, ossia la sua partecipazione alla spedizione; per tutto il resto, invece, poteva anche essere più matto di un cavallo da corsa e probabilmente lo era.
«Mi potrebbe raccontare quella storia?» chiese, scivolando d’istinto in una rispettosa terza persona.
«La spedizione? Se vuoi. Sarà un modo per passare il tempo e ti insegnerà cosa aspettarti. Solo, non penso che ti piacerà, ma sono fatti tuoi.» E con un sospiro Laurent Karlsson cominciò a raccontare.
La prima spedizione è storia vecchia. Era già storia vecchia quando ci preparavamo a partire noi, il che significa più di venticinque anni fa, a quanto mi dici, ma sarà meglio partire da quella, perché è da lì che comincia tutto, no? Primi umani a raggiungere la potenziale nuova colonia terrestre, primi a posarvi piede, eccetera eccetera. Primi anche a non tornare, hah, ma ci arriveremo dopo.
Aveva svegliato anche l’opinione pubblica, però, anche se l’opinione pubblica aveva ricevuto solo il minimo indispensabile, quello che il Direttore Leonardi aveva ritenuto opportuno far uscire. Serviva a sbloccare nuovi fondi e preparare la seconda spedizione, no?, e cosa poteva funzionare meglio del racconto della prima civiltà aliena mai scoperta? Che poi fosse anche ormai estinta, meglio così: per il pubblico c’era solo il fascino dell’ignoto e nessun pericolo di invasioni o altro. Gli archeologi poi erano praticamente impazziti a sentire di antichissime rovine aliene da disseppellire, la loro storia da ricostruire e tutto il resto. Sì, è vero, l’equipaggio della prima spedizione era scomparso, terribile tragedia, una perdita incalcolabile e anche questo era stata pubblicità, allora. Ti sembrerò cinico, lo immagino, ma tu non c’eri e non sai come fosse l’ambiente, nell’Ufficio e fuori.
Avevano anche trovato i pozzi e nei pozzi sembravano essere spariti, ma quella notizia non uscì mai da un settore molto ristretto dell’Ufficio. Perché le rovine erano comprensibili, erano pubblicità, ma i pozzi erano un enigma e al Direttore Leonardi gli enigmi non piacevano. Gli enigmi li dovevi per prima cosa risolvere e poi, se necessario, ne potevi parlare. Sarà così anche adesso, immagino, se il vecchiaccio è ancora vivo. Probabilmente è ancora vivo. L’erba grama non muore mai. Ma i pozzi li teneva segreti e soltanto in pochi ricevettero tutte le informazioni disponibili, tutte quelle che erano state inviate dalla prima spedizione, o almeno dalla loro nave. Io ero uno di quei pochi. Mi avevano scelto per unirmi alla nuova spedizione ed esplorare uno dei pozzi, capisci? Speleologo, se sai cosa significa la parola. No? Specialista nel frugare sottoterra e nelle caverne, mettila così.
Non mi avevano detto tutto, ma lo avrei scoperto solo sul posto. Come vedi, l’ho scoperto fin troppo bene. Comunque la nostra seconda missione avrebbe avuto due obiettivi: esaminare le rovine aliene e cercare tracce della prima spedizione. Questo il programma ufficiale. Il programma non ufficiale, poi, aggiungeva un altro e più importante obiettivo: i pozzi. Ma quelli erano riservati al Direttore e a un piccolo gruppo da lui selezionato. Ufficialmente non c’erano pozzi sul pianeta, ricordi? Neppure il più piccolo buco, hah! Le poche immagini in cui comparivano non sono mai uscite dall’Ufficio, o almeno credo. Mai uscite mentre c’ero io, ma dubito che sarà cambiato qualcosa da allora.
Secondo il Direttore doveva esserci un qualche pericolo nei pozzi, ma lui sosteneva di attribuirvi al massimo solo cause naturali: fughe di gas, cedimenti improvvisi di suolo, pareti o soffitto, incidenti vari ed eventuali. Per questo avrebbero avuto bisogno di specialisti per l’esplorazione. Stupidi erano stati quelli della prima spedizione, che si erano lanciati alla cieca. Stupidità comprensibile, fascino e sorpresa della scoperta, voglia di entrare nella storia, curiosità, confidenza eccessiva, aggiungi pure quel che ti pare e piace, ma il risultato era sempre lo stesso: stupida azione compiuta da stupidi. Noi non avremmo ripetuto l’errore, perché stavolta non ci sarebbe stato un militare a guidare il gruppo, come il comandante Sarah Salo che aveva chiaramente provocato un disastro. Stavolta alla guida ci sarebbe stato lui stesso, il Direttore in persona.
O quasi persona. Nessuno si aspettava davvero che un ultraottantenne sarebbe partito per esplorare un pianeta quasi ignoto e forse pericoloso, e infatti il Direttore non è partito con noi. Il suo corpo se n’è rimasto a casa, a letto, in poltrona, dove gli pare. Con noi partì una copia della sua coscienza, o della personalità, quello che è. Un dispositivo trasportato in una valigetta da un suo dipendente, una specie di dottore o qualcosa del genere, non ricordo bene. Sono passati anni e li ho spesi quasi tutti qui sotto da solo, al buio. Non fa molto bene alla salute della tua testa, sai? Comunque ci guidava un tipo di scatoletta, trasportata da un impiegato. Ma in quella scatoletta c’era tutto ciò che serviva del Direttore e, te lo assicuro, era fin troppo. Insopportabile, arrogante, villano: pensa al peggio che sai immaginare e aggiungi ancora qualche difetto. Ci arriverai vicino. Non eravamo ancora a metà del viaggio e già chiunque lo avrebbe sparato volentieri nello spazio dal più vicino portello.
A me è andata abbastanza bene, perché a nessuno interessava di me e il Direttore lo sentivo poco. Il mio lavoro sarebbe servito molto più tardi, una volta scesi nei pozzi, e prima di scendere nei pozzi c’erano montagne di altre cose da fare. Gli archeologi erano le stelle della missione, almeno per il pubblico, e cominciare i lavori alle rovine era una specie di priorità ufficiale. Io non ho mai parlato molto con loro, non avevamo granché in comune e non so che fine abbiano fatto: qualcuno sarà qui a continuare i lavori, se ci sono lavori da continuare, altri saranno ripartiti. Affari loro. Il poco che io so del mondo di superficie mi arriva da qualche disperato spedito qui sotto come te, se mi capita di trovarli per primo e se sono ancora in condizione di parlare. Il resto è nulla.
Ma torniamo alla seconda spedizione, giusto. Saltiamo pure tutti i pezzi che non interessano, come i lavori per installare l’ascensore spaziale, già, quello che tu chiamo il vecchio ascensore, credo. Non era vecchio quando i tecnici lo hanno montato, hah, ma ormai lo sarà diventato, se non lo hanno poi rimpiazzato con qualcosa di meglio. Era una struttura provvisoria, quella che abbiamo usato noi, più una impalcatura che altro. L’avrebbero migliorata e rafforzata prima dell’inizio della colonizzazione reale, dicevano, e immagino che lo avranno fatto. Non che me ne freghi qualcosa.
I pozzi c’erano. Facevano impressione a vederli già mentre scendevamo, ma ti assicuro che lo erano molto di più quando li guardavi da vicino, non proprio dal bordo ma quasi, perché nessuno era così pazzo da fermarsi sul bordo. Non che i militari lo permettessero, sia chiaro. Erano scesi per primi, e dico scesi sul pianeta, non nei pozzi, e il comandante Hass, il tizio che guidava la missione assieme al Direttore, aveva dichiarato subito che erano da considerarsi zona militare o quello che era e i suoi uomini li avrebbero protetti. Protetti in generale, non so da cosa o come: il comandante aveva più informazioni di me e adesso, con tutto ciò che ho visto e so, suppongo che il suo obiettivo fosse di proteggere noi dai pozzi, forse. L’ho rivisto qualche tempo fa, Hass, o forse era molto tempo fa. Mi ha fatto un po’ pena, nonostante tutto, specie quando se n’è tornato di sopra. Mi ha anche chiesto scusa, pensa. Sembrava un’altra persona. Ma dicevo dei pozzi, giusto.
Il comunicato ufficiale parlava di un diametro di circa un chilometro e sì, probabilmente era corretto o abbastanza vicino da non fare molta differenza. Erano enormi, quasi perfettamente circolari, e ce n’erano nove. Non distribuiti secondo un qualche ordine o schema, non formavano una qualche figura geometrica, un simbolo o altro, o almeno nulla che noi potessimo riconoscere. Se li guardavi da vicino, se guardavi in quegli abissi che sembravano gli scarichi di un lavandino, ti sentivi quasi risucchiato, come se potessero davvero sciacquarti giù in una qualche fogna. Con me lo hanno fatto, da un certo punto di vista, anche se non sono stati i pozzi a risucchiarmi: sono stagli gli umani. Ma ci arriveremo poi, davvero. Il punto è che non mi sono piaciuti, quando li ho visti per la prima volta dal vivo. Superstizione, forse, o quello che è. Ma non mi sono piaciuti.
Erano profondi circa mille chilometri, o giù di lì. Non un numero preciso, ma arrotondiamolo pure, per comodità. Non fa alcuna differenza, che io sappia. Lo erano e lo sono ancora, suppongo: non ho ragione di credere diversamente, specie perché venticinque anni sono niente, almeno per un pianeta. Per una persona sono parecchi, invece, e passarli qui sotto al buio... Ma lasciamo perdere.
Nove pozzi, dico. Puoi immaginarli? Larghi buchi di niente, neri, distribuiti forse a caso o forse no su una pianura brulla, sassosa, ospitale con un dito in un occhio. È quello che abbiamo trovato alla fine della nostra discesa. Poco più lontano, da una parte, posata su un punto appena rialzato, più una lieve sporgenza che una collina, ecco la nave della prima spedizione. Ma non l’equipaggio: quello era sparito. Giù nel pozzo, secondo l’ultimo messaggio inviato. In uno dei pozzi, dovremmo dire, se vogliamo essere precisi. Quello più vicino, attorno a cui i militari si erano subito distribuiti.
Ti dirò, l’idea di scenderci non mi attirava. Era stata interessante sulla Terra, quando l’avevo sentita per la prima volta. Chi non l’avrebbe trovata interessante? Ma adesso che eravamo lì, adesso che in un certo senso potevo guardare in faccia il mostro... Beh, sarei tornato indietro volentieri. Non che lo avrei potuto fare, ovvio, ma sì, sarei tornato indietro volentieri. All’inizio. Poi cominciammo pian piano a sistemare il campo base, gli archeologi raggiunsero il punto dove la prima spedizione aveva localizzato le rovine, avviarono i primi scavi, i due exologi che avevamo andarono in cerca di forme di vita locali, ammesso che ce ne fosse qualcuna, e insomma a poco a poco tutto era diventato più o meno normale, tutto tranquillo, capisci? Era un po’ come essere a casa.
Ma nessuno si avvicinava ai pozzi.
Ci avremmo pensato, ma dopo. Così diceva il Direttore. Erano i pozzi a contare davvero, e mica li potevi sprecare, no? Prima avremmo raccolto tutte le informazioni che potevamo trovare, quindi le avremmo analizzate, studiate, confrontate, questo e quello, solita roba. Alla fine, ma solo quando fossimo stati ragionevolmente sicuri di cosa aspettarci, saremmo scesi. Aveva già stabilito il gruppo che doveva esplorare un pozzo, quello in cui era sparita l’altra spedizione. Ci sarei stato io, ovvio, ma ci sarebbe stato anche Leonardi, assieme al portatore della scatoletta in cui la sua personalità era conservata, più il comandante Hass e almeno un altro paio di soldati. Forse pochi, se già una intera spedizione vi era sparita, ma così voleva il Direttore e la sua parola era legge, sempre, comunque e dovunque. Il comandante non sembrava molto convinto, ma alla fine accettò anche lui.
Ti interessa sapere come ho passato quel periodo, mentre gli archeologi scavavano, gli exologi se ne andavano a caccia di pesci, i militari sorvegliavano i pozzi e il gruppo del Direttore si era chiuso nel veicolo lasciato dalla spedizione scomparsa, a interrogare il computer di bordo? Perché era davvero un interrogatorio, sai? Quel computer era un membro dell’equipaggio, a modo suo. Era la coscienza o la personalità del navigatore designato, che aveva avuto la sfortuna di farsi uccidere poco prima di partire, in un attentato organizzato da un gruppo di terroristi. Com’è che si facevano chiamare? Gli isolati, o qualcosa del genere. Facevano parecchio casino, a quei tempi, poi li hanno spazzati via tutti. Dubito che qualcuno ne sentirà la mancanza.
Ti interessano? Non ne so molto, ho sempre cercato di ignorare il più possibile la politica e quella roba lì. Ce l’avevano col governo per la firma dei Trattati, li chiamavano “servi degli Altri”, o nomi del genere. Solita storia, no? Ogni tanto facevano esplodere qualcosa e in una di quelle esplosioni è morto il navigatore scelto e addestrato per la spedizione. Non c’era tempo per sostituirlo, dicevano, e così hanno copiato l’ultimo salvataggio della sua personalità nel computer di bordo della nave. Ma dopo anni da solo sul pianeta, con tutti i suoi compagni spariti, era diventato matto o giù di lì, così il Direttore e i suoi assistenti stavano lavorando per ripararlo. E io aspettavo.
Non avevo molto da fare e per sicurezza non facevo nulla. Il Direttore cercava sempre qualcuno con cui prendersela e la cosa più igienica da fare era non ricordargli che esistevi anche tu, se solo potevi evitarlo. Che si sfogasse su altri, no? Io non gliela ricordavo. Ogni tanto facevo due passi fuori, ma non è che ci fosse molto da vedere. Non so come sia diventato oggi, ma al nostro arrivo il pianeta era uno schifo. Vuoto, brullo, freddo. Segni di vita: zero. Sono dovuti andare a setacciare il mare, gli exologi, prima di trovare qualcosa, e anche lì non è che ci fosse molto, anzi. Non il mondo che io avrei scelto per una colonia, con tutti quelli che ci sono in giro per la galassia, ma a quanto mi dici è diventato davvero una colonia, adesso. Immagino che lavoraccio.
Comunque ero quasi sempre chiuso nel mio modulo abitativo, ad aspettare che mi dessero qualcosa da fare. Ho aspettato parecchio, ti dico solo questo. Alla fine si è fatto vedere il Direttore in scatola, trasportato dal suo schiavo, con tutti i dati che aveva potuto recuperare dal computer. Disse che la nave sarebbe ripartita per la Terra al più presto, potevano ancora riciclarla e sarebbe stato un vero e totale spreco di risorse lasciarla lì, ma il computer di bordo era quasi andato e lo dovevano sostituire con una riserva. Ecco cosa succede quando gli dai una personalità: ti diventa scemo se lo lasci per troppo tempo da solo. Era stata una idea stupida, ma non avevano avuto alternative. O così disse il Direttore. A me interessavano solo le informazioni che mi portava sul pozzo: le macchine psicotiche potevano tenersele altri, se si divertivano così. Non erano roba per me.
Quegli ultimi dati raccolti e mai spediti sulla Terra erano interessanti, però. Mi tennero impegnato a lungo, non proprio fino a quando fu il mio turno di agire, ma quasi. Da quello che mi aveva detto il Direttore, mi aspettavo che in fondo al pozzo ci fosse un complesso di grotte normale. D’accordo, il pozzo non era normale, perché una struttura del genere sarebbe dovuta collassare quasi subito con la gravità del pianeta. Più bassa rispetto alla Terra, è vero, ma solo un poco più bassa. Perché strutture come i pozzi potessero esistere ci voleva... oh, non so darti la cifra precisa, ma ti assicuro è molto, molto meno della gravità che abbiamo qui. Per cui sì, qualche stranezza ci poteva stare: è un mondo alieno, già abitato da una civiltà aliena, è ovvio che ci troverai cose incomprensibili. Il problema era che i dati raccolti da quel computer andavano ben oltre il semplice incomprensibile.
Adesso ci vivo da anni in mezzo a quell’incomprensibile e ancora non lo capisco. Non so neppure se ci vivo davvero o sono impazzito pure io. Ti viene da ridere? Fai bene a ridere. È la cosa migliore da fare, finché puoi. Meglio riderci sopra che prendere tutto sul serio. Prendere tutto sul serio ti tira solo scemo. Se sei fortunato. Se non sei fortunato, continui a pensare di essere sano anche dopo che sei diventato pazzo. È quello che è successo a me, probabilmente. Ma sto divagando, lo so.
Cosa dicevano quei dati? Guardati attorno e lo vedrai. Non ti serve nemmeno tanta luce: quella dei bruchi, come li chiami tu, è più che sufficiente. Ti sembra forse che ci sia qualcosa di normale, che ti puoi realisticamente aspettare in un qualunque complesso di grotte e caverne? No che non c’è, te lo dico io. Perché non siamo in un normale complesso di grotte e caverne. Siamo dentro Madre.
Ancora non lo capisci? Capirai. Non c’erano i peli, secondo le informazioni raccolte e mai spedite dal computer di bordo. Non c’erano neppure i bruchi luminosi. Devono essere un’aggiunta recente, anche se non saprei dirti quanto recente. Credo che siano arrivati poco dopo di me e forse proprio io li ho fatti arrivare, quando mi hanno sistemato definitivamente quaggiù. Forse. È un avverbio che ti tocca usare molto spesso, da queste parti. Non c’è niente di certo, o almeno niente che noi possiamo capire come certo. Non funziona come il nostro cervello, questo posto.
Gallerie. Strane, lisce, quasi cilindriche, come se le avesse scavate un verme gigantesco. Ecco cosa si nascondeva alla fine del pozzo, secondo i dati. Ma saperlo e basta non serviva, i numeri e i grafici sono cose fredde, impalpabili. Possono dirti cosa sia, non come sia. Io ho bisogno di assaggiarle, di toccarle con mano, le grotte. I dati li posso usare come mappa, ma non bastano a farmi sentire come sia il posto. Lo avrei sentito al momento della discesa, certo, ma avevo bisogno di un’anteprima, se mi volevo davvero preparare. Lo spiegai al Direttore, una sera, e non fu facile, ma alla fine qualcosa deve essergli arrivato, anche se dubito che mi abbia capito. Ma è meglio che niente, no?
Volevo inviare una sonda nel pozzo. Una piccola sonda, qualcosa di non intrusivo, per vedere cosa ci fosse laggiù, sentirne i rumori, magari anche fiutarne gli odori, se avevamo portato una sonda che permettesse di raccogliere anche dati olfattivi. Non era come andarci di persona, ma sarebbe stato in ogni caso meglio di un grafico. Il Direttore mi autorizzò, ma sotto stretto controllo militare, e due o tre giorni dopo lo sperimentai, con un qualche ufficiale sistemato di fianco a me,a farmi da balia. Il nome non me lo ricordo, ma era uno di quelli che poi ci avrebbero accompagnati nella discesa. Per quel che ne so adesso è diventato un pezzo grosso qui sul pianeta. Qualcosa come Perkolic, credo, o Pankovic; un nome del genere, sai? Ma non ha importanza, non lo conosci di sicuro, anche se molto probabilmente lui conoscerà te. Sono i militari a buttarvi qui sotto. E lui è un militare.
Dicevo della sonda. L’abbiamo spedita nel pozzo e ci ha messo parecchio ad arrivare in fondo. Era notte o quasi, quando ci ha inviato le prime immagini di ciò che vedeva. E ciò che vedeva era buio, buio pesto, almeno senza gli infrarossi. Con gli infrarossi tutto diventava caldo. Vivo. Sul fondo del pozzo si apriva un complesso di gallerie, questo era vero, ma quelle gallerie erano composte da uno strano materiale, che non sembrava pietra. Non reagiva come pietra. Sembravano buchi nel corpo di un essere vivente, come se ti avessi spedito la sonda su per una narice, oppure un altro orifizio a tua scelta. Pesca quello che preferisci, il risultato non cambia.
E non erano lisce, come nei dati del computer. Alcuni tratti sembravano ricoperti da peli, una sottile peluria o qualcosa che assomigliava a peluria. Muschio, forse, o chissà quale altro vegetale alieno. So poco di biologia terrestre e nulla di biologia extraterrestre, o exologia come la chiamano per fare prima e avere un nome che si presenti bene sul curriculum e sulla porta dello studio. Un nome con la x, molto più pittoresco di una banale esologia. Dicevo della peluria, già. Poteva essere una specie di vegetale, certo, e così avrei voluto pensarla anch’io, ma sembrava animale. Sembrava la pelliccia di un animale. E adesso che ci vivo in mezzo... Giudica tu. Ci siamo seduti sopra. Cosa ti sembra? Ti sembra davvero di toccare muschio? O ti sembra di accarezzare un cane o un gatto?
Forse meglio non giudicare. Fu una sorpresa per me, ma fu una sorpresa anche per il militare che mi sorvegliava. Non so cosa avessero raccontato a lui sul pozzo, ma so che faccia avesse mentre sullo schermo scorrevano le prime immagini dalla sonda. Disse anche qualcosa, credo, ma non mi ricordo i dettagli, ormai: è passato troppo tempo e non un tempo piacevole. Le gallerie non gli piacevano, era ovvio, ma ci sarebbe sceso lo stesso. Era il suo lavoro ed era un ordine: le altre considerazioni personali non contavano. Non piaceva neppure a me, in realtà, ma anch’io ci sono sceso. Non per senso del dovere o altro, ma per curiosità. Erano gallerie strane, capisci?
Seguimmo la sonda nella sua esplorazione per quasi tutta la notte, poi la richiamammo alla base. Di dati extra ne aveva raccolti e mi aveva anche dato una idea concreta su cosa aspettarmi. Peccato che il cosa aspettarmi fosse al di fuori delle mie competenze o esperienze. Cercavo informazioni, ma la sonda mi aveva dato solo enigmi. Li ho poi risolti sul campo con gli anni, ma non è stato proprio un granché di soluzione, come puoi vedere. Non il tipo di soluzione che mi sarei aspettato.
C’era poi un’altra cosa che mi dava problemi ed erano le traduzioni. Le conosci? No, forse no. Se tu sei venuto su Madre come normale colono, è facile che tu non le abbia mai viste o sentite. Non che ti sia perso molto. Magari in questi anni le hanno anche riconosciute come patacche o un errore, per quanto ne so. Non arrivano molte notizie qui sotto. Dopo la prima spedizione e per tutta la durata della seconda, però, sono state importanti a modo loro, almeno tra chi sapeva che ci fossero. Gente dell’Ufficio e pochi altri, se parliamo della seconda frase. La prima, quella più vecchia, stava già diventando famosa anche sulla Terra, quando siamo partiti. Cosa sia successo poi, però, lo dovresti chiedere a qualcuno che non ha speso un quarto di secolo in fondo a un pozzo. Come una rana.
Nel rapporto che la prima spedizione aveva spedito verso la Terra, l’ultimo rapporto, c’era anche la immagine di qualcosa che poteva essere una iscrizione, trovata su una pietra delle rovine aliene. O poteva anche essere una qualche decorazione, o una semplice crepa nella struttura, ma per motivi a me ignoti la gente all’Ufficio si era messa in testa che doveva essere una iscrizione. Forse perché la trovavano una idea più romantica, chissà. Comunque una collaboratrice del Direttore si era messa a lavorare a una possibile traduzione, trattandola come se fosse un codice cifrato da decriptare o una roba del genere. Non so di preciso come dovesse funzionare, ma secondo me alla fine ha inventato di sana pianta. Come fai a tradurre qualcosa che forse non è neppure una scritta e comunque, se lo è, è in una lingua che non solo non conosci, ma non ha alcun legame coi linguaggi del tuo mondo?
Ma non importa. La traduzione della prima iscrizione sarebbe stata qualcosa tipo “Alla madre su cui tutto posa”, almeno secondo la collaboratrice del Direttore. Maureen Rossi, si chiamava, ed era una sua segretaria o qualcosa del genere. È venuta su Madre con noi, alla fine. Te lo avevo già detto? Si è occupata del computer di bordo che era andato fuori di testa, sai, e anche della seconda scritta che i nostri archeologi hanno trovato. La seconda scritta diceva invece “Discesero alla madre sotto”, mi pare. Curiosamente simile alla prima, eh? Gli archeologi pensavano che se le fosse inventate tutte e due, ma non hanno detto nulla, per quanto ne so. Non critichi così una segretaria del Direttore, sai.
No, non è una coincidenza, ma funziona al contrario. Il pianeta lo hanno chiamato così, perché nelle scritte compariva due volte la parola “madre”. Un nome buono come un altro, direi, e poi possiede una certa coerenza. La Terra è sempre rappresentata come madre nei miti primitivi, no? Quindi non è strano scegliere quel nome per la prima nuova colonia della Terra. Credo. Sia come sia, è andata così e quella Rossi se la faceva praticamente addosso, dopo che le sue traduzioni erano state usate per battezzare il nuovo mondo. Madre. Mah.
Ti dirò, è un nome stranamente adatto, per quello che abbiamo visto poi nel pozzo. Non che questo renda più sensate le sue traduzioni, che secondo me si è inventata e basta, ma se ti guardi attorno, se cominci a pensare a come è fatto davvero questo pianeta, beh... Ti passa la voglia di pensarci. Alla madre sotto. Non penso che quelle scritte dicessero davvero così, se davvero erano scritte e non una decorazione, crepe, venature nella pietra, ma a volte penso che qualcosa le abbia suggerito di vedere quella frase. Qualcosa di... ma capirai poi. Sto divagando, lo so. Porta pazienza.
Meglio parlare dei pozzi, vero? Dei pozzi e della nostra discesa. Il resto non è importante, è solo un ricordo vecchio di anni. Quando ti hanno buttato qui sotto, quello che conta davvero è ciò che trovi qui sotto, non la storia degli scavi quasi mille chilometri sopra la tua testa, o quella nave di Agni che si è avvicinata al pianeta mentre lavoravamo e tutto il resto. Quello lo puoi lasciare al libri di storia. Il presente è qui, nelle gallerie, ed è il perché ti ci hanno buttato. Adesso ci arrivo.
Al ritorno della sonda ho consegnato tutti i risultati al Direttore, o più precisamente al collaboratore che si portava in giro la scatoletta con dentro la personalità del Direttore. Due giorni dopo la discesa era in programma. Non deve essergli piaciuto molto quello che ha visto, o forse gli ha messo fretta, per chissà quale motivo. Il punto è che un giorno io me ne stavo a perdere tempo nel mio alloggio e il giorno dopo mi vengono a dire di prepararmi subito alla discesa. Urgente, eh? E curioso.
Ma il Direttore non è una persona a cui fai domande, soprattutto perché non ti risponde mai, e così di domande non ne ho fatte. Mi sono preparato e alla sera tutto era pronto per scendere. Alla sera, lo capisci? Al buio. Di nascosto. Non che si potesse davvero tenere nascosto, ma il Direttore voleva il minor numero possibile di curiosi, meglio ancora un numero negativo. Alla fine si sarebbe saputo, al nostro ritorno, ma la partenza doveva essere il più possibile riservata. Chissà perché. Ma c’era il comandante Hass, c’era il Direttore col suo impiegato da trasporto, c’era il militare che conoscevo già dall’invio della sonda, ce n’erano altri che non conoscevo. C’eravamo tutti e c’era soprattutto il mezzo con cui saremmo scesi nel pozzo.
Non ero molto tranquillo, sai? Gli ultimi che ci erano entrati, i membri della prima spedizione, non ne erano mai usciti, per quanto ne sapevamo. Poteva succedere anche a noi. Ripensandoci adesso, la storia di quella missione mi sembra una follia, o almeno una di quelle imprese tanto stupide e prive di senso che fanno molto epoca delle grandi esplorazioni, ma forse era solo perché io non ne sapevo abbastanza. Forse il Direttore ne sapeva di più ed era tranquillo. O forse era tranquillo perché tanto lui era solo una copia digitale e non rischiava nulla: a rischiare al massimo saremmo stati noi gente reale e noi eravamo sacrificabili, no? Trovavi rimpiazzi ovunque.
Ma siamo partiti e ti risparmio la storia della discesa, che è stata lunga e noiosa. Non da vivere, non noiosa in quel caso, ma da raccontare? Sì, fin troppo. Siamo entrati in un buco, scesi lungo un pozzo cilindrico, buio che più buio non si poteva, e abbiamo continuato a scendere per chissà quanto. Non una storia entusiasmante, eh? Che poi sarà stata più o meno la discesa che hai fatto anche tu, se non sono cambiate parecchie cose da allora. Non credo che lo siano. Tu non la ricordi, ovvio, quando ti sei svegliato eri già qui sotto, ma in un qualche modo devi pur essere disceso, no? E sei sceso come me, anche se io ero conscio e tu no. Ma saltiamo direttamente all’arrivo.
Non abbiamo toccato il fondo del pozzo. Ce lo diceva il rapporto della prima spedizione e lo aveva confermato anche la sonda. C’era una faglia poco prima del fondo: una faglia orizzontale, per strana che possa sembrare. O almeno io la chiamo faglia, perché non saprei come altro definirla. O forse lo saprei, ma preferisco... Faglia. C’era una faglia. Un lieve stacco, dove terminava la parete del pozzo composta da pietra regolare e cominciava la parte di pianeta composta da materiali diversi, che non riconoscemmo subito, ma soltanto dopo, una volta toccati con mano. Per così dire.
Non lo capisci? Allora guardati attorno, tasta il terreno su cui sei seduto, se lo vuoi chiamare così, e le gallerie su cui strisciano i tuoi bruchi luminosi. Ne riconosci la consistenza? È flessibile, un poco, e sotto vi è uno strato più duro. È anche caldo. È coperto da quella che sembra peluria. No? Non ci arrivi? Allora te lo dovrò dire io: è carne. Siamo dentro a un essere vivente, biologico.
Cosa sia o come possa esistere non te lo so dire, ma in un qualche modo esiste e io ci ho vissuto per gli ultimi venticinque anni, a quanto pare. A quanto pare perché i venticinque anni li calcolo in base alle date che mi dici tu e a quel che ricordo io. Che li ho spesi dentro a un essere vivente, invece, è una certezza. Ci siamo entrati scendendo nel pozzo, proprio come ci era entrata la spedizione che ci aveva preceduti. La differenza è che noi ne siamo anche usciti; loro, no.
È vero, io non ne sono uscito, ci sono ancora dentro, ma questa è un’altra storia ed è avvenuta poi. Il giorno in cui sono sceso nel pozzo assieme al Direttore, al comandante Hass e tutti gli altri, io sono anche uscito, regolarmente, sano, intero. Poi sono successe altre cose, ma adesso non contano. È del nostro arrivo in fondo al pozzo che devo parlare, no? E allora parliamone.
C’era una galleria laterale, la stessa in cui erano entrati gli esploratori della prima spedizione e poi la mia sonda, due giorni prima. Entrammo anche noi. Con le luci, con le armi, con tutto quello che allora pensavamo ci potesse servire. Entrammo in Madre, per scoprire cosa si nascondesse là sotto. Lo abbiamo scoperto anche troppo, direi. Ma ormai era forse troppo tardi per lasciare per sempre il pianeta e cercarcene un altro. E così... lo vedi anche tu come è finita.
Ne sei parte anche tu, adesso. Ne sarai ancora più parte dopo. Vedrai.