La galassia di Madre - 93
Così, non molto tempo dopo essere ritornato su Lakshmi dal suo anno speso a girare con Chakra, Matteo Kori si ritrovava di nuovo a farsi traghettare da un sistema solare all’altro, questa volta di propria spontanea volontà, ma sempre con la vaga sensazione di avere fatto la scelta sbagliata. Era davvero necessario per lui andare su Madre a cercare tracce del fratello? No che non lo era, per nessun valore di necessario, ma per qualche motivo gli era sembrata la mossa migliore: mettersi il cuore in pace, vedere coi propri occhi e così via. Adesso gli sembrava solo una enorme perdita di tempo, ma sopratutto una di quelle idee che, se le osservi con un poco di obiettività e a distanza dal momento in cui le hai avute, possono solo essere state prodotte dalle porzioni di cervello o di altri organi equipollenti che non dovrebbero essere coinvolte nelle attività razionali.
Pure, ormai era in viaggio e doveva andare avanti. Non solo: aveva anche compagni di viaggio e un vago senso di dignità gli suggeriva che, almeno davanti a loro, si sarebbe dovuto comportare come se fosse convinto di avere fatto la scelta giusta, come una persona coi piedi ben piantati a terra (ma non li aveva, certo non adesso: erano nello spazio), una che sa sempre quello che fa, nonché perché lo stia facendo. Come qualcuno che non si chiama Matteo Kori, insomma, e non ha i suoi precedenti esistenziali. Così, anche se adesso si sarebbe volentieri accomodato in un locale climatizzato di Varshi invece che nella cabina scomoda di un mercantile in rotta verso Madre, doveva comunque recitare la parte della persona responsabile che, preoccupata per la sorte del fratellino, attraversa anni luce di vuoto per cercare notizie: non un dubbio, non una incertezza, guardare avanti e basta.
La recita gli riusciva particolarmente male.
«Scommetto che hai già cambiato idea e adesso vorresti essere in un locale di Varshi assieme al tuo compagno di bevute,» gli disse Indira al termine di un pasto che, nel tempo artificiale della nave, si faceva chiamare “cena” perché precedeva il periodo arbitrariamente scelto per il sonno.
«Non è vero,» mentì Matteo. «Ciò che voglio adesso è arrivare al più presto su Madre e cercare una qualche notizia di mio fratello. È per questo che ho deciso di partire, lo sai bene,» aggiunse, il capo inclinato in posa assai nobile e lo sguardo puntato in alto e di lato, verso il niente. Per quanto aveva potuto appurare lui, era il tipo di posizione che assumono tutti quelli che si lanciano in dichiarazioni importanti, storiche e palesemente false, ma di sicuro impatto sugli ascoltatori.
E forse lo ebbe, ma anche la gravità garantisce un sicuro impatto a chiunque vi si affidi, specie se in caduta libera. Indira sbuffò e ridacchiò, ma non rispose. Gli voltò invece le spalle e chiacchierò con Mei qualcosa, che per motivi a Matteo tuttora ignoti si era aggregata a loro in quella spedizione un poco picaresca verso Madre. Seriamente, cosa ci faceva lì lei? Secondo la spiegazione ufficiale di Indira, serviva a riequilibrare il gruppo e permettere l’uso di due cabine, una per i maschi e una per le femmine. «Tu e Sharma da una parte, io e Mei dall’altra. Chiaro?»
Chiaro, almeno per un dato valore di chiaro. Matteo non aveva protestato. Era una specie di zavorra umana, insomma, e della zavorra possedeva tutte le qualità, secondo il suo sempre modesto parere: quella Mei qualcosa dimostrava la loquacità di una melanzana, la personalità di una saponetta e una presenza nel gruppo che poteva essere comparata soltanto al riso bollito. Oh beh, non che contasse poi molto: erano comunque un’armata Brancaleone diretta verso una colonia primitiva, almeno per gli standard di società evolute fino al punto di possedere lettiere con spruzzo bidè per gli animaletti domestici, e probabilmente non avrebbero combinato nulla di buono, ammesso e non concesso che ci fosse qualcosa di buono da combinare. Potevano anche concedersi il lusso di portare cani e porci.
Ma il viaggio sul mercantile possedeva almeno un aspetto positivo per Matteo, ed era il celeberrimo effetto-Madeleine, reso immortale da un immaginario divoratore di biscotti in un romanzone scritto secoli prima. In quel caso specifico, il balzo cronopsicologico lo riportava al suo primo viaggio tra le stelle, o più precisamente nel colossale vuoto tra una stella e l’altra: il viaggio verso Lakshmi, tre e più anni prima, quando ancora possedeva vaghi progetti di futuro e il suo compagno di cabina era stato Bogdan Stratos, studente più vecchio di lui, che gli aveva fatto da Virgilio e da guida generica alla società lakshmita e al mondo che a breve lo avrebbe accolto.
Quanto tempo era passato da allora! Che poi non ne era passato così tanto su un piano oggettivo, ma sul piano soggettivo, che poi è l’unico rilevante quando si parla di tempo come esistenza, a passare erano state almeno tre ere geologiche. Forse anche quattro. E dopo tutto quel tempo, adesso Matteo era di nuovo in una stretta cabina di mercantile, a viaggiare in economia verso un altro pianeta, con solo la più vaga idea di cosa aspettarsi e cosa fare, come se nel mezzo nulla fosse accaduto. Ciò che purtroppo gli mancava stavolta era una guida.
Non la trovò all’arrivo. La stazione orbitale che li accolse era grossomodo come le altre che aveva già incontrato in altri viaggi, ma con un tocco di rusticità extra e un forte profumo da lavori in corso o cantiere a cielo aperto. Non che ci fosse realmente un cantiere o anche solo un cielo, ma sembrava un luogo ancora in fase di costruzione, ti trasmetteva l’immagine mentale di impalcature, muratori, gru, vecchietti che spiano dalle fessure, martelli pneumatici e così via, secondo quella che si poteva definire una sorta di memoria ancestrale dei cantieri, sedimentata nella coscienza collettiva, o forse nell’inconscio collettivo, della grande scimmia nota a se stessa come homo sapiens.
«È perché è ancora in gran parte provvisoria e la continuano a espandere,» spiegò Indira. «Ancora la colonia non è aperta ai grandi traffici commerciali e umani, per cui non ha realmente bisogno di una stazione più ampia o elaborata, ma prima o poi lo dovrà essere e comincia da subito a prepararsi per quel momento. Non che lo stia facendo molto bene, ma è un altro discorso.»
«E da quando saresti diventata esperta di colonie?» le chiese Matteo.
«Da quando tu non lo sei. Nel caso te lo fossi scordato, ti ricordo che Lakshmi è stata una colonia e ha già attraversato tutte le classiche fasi di un pianeta in via di colonizzazione. Le studiamo anche, a scuola. Fanno parte della nostra storia. Capisci? Sappiamo come funzionano queste cose, meglio di un terraiolo come te, che vedi soltanto il prodotto finito.»
Matteo non rispose. Era piuttosto infastidito da quello sfoggio di erudizione da barbiere, che veniva a guastargli il miraggio di essere lui, una volta tanto, il vero esperto del gruppo, dall’alto della sua lunga esperienza di viaggiatore spaziale maturata come bagaglio al seguito di altre e più competenti persone. Lui aveva visto le stazioni orbitali della Terra, di Lakshmi, Rudra, Laozi, mentre loro non si erano mai allontanati dal pianeta su cui erano nati. Come osavano fargli la predica? Ma tenne per sé i propri mugugni, sapendo che Indira avrebbe di certo trovato un qualche modo per rispedirglieli al mittente. Lo trovava sempre. Sì, l’avventura su Madre non era partita col piede giusto e di sicuro non sarebbe continuata meglio. Perché non era rimasto su Lakshmi?
Ebbe tempo di chiederselo più e più volte durante la lunga attesa sulla stazione. Non c’erano molti turisti che volessero scendere sul pianeta; non ce n’erano proprio, a parte loro. Ma la cabina era quel che era, il tizio che li aveva accolti all’arrivo aveva spiegato che dalla Terra era appena arrivata una nuova infornata di coloni col Teatro di Oklahoma, i viaggiatori provenienti da Lakshmi si dovevano sottoporre a una serie di controlli e sterilizzazioni extra, ricordate il problema della quarantina, no? Beh, quello è risolto, abbiamo scoperto la causa, ma adesso ci sono procedure supplementari, giusto per evitare che la storia si ripeta, sapete anche voi come vanno certe cose, ci scusiamo per il disagio. Così li parcheggiarono per giorni in un settore della stazione, che probabilmente era considerato un buon alloggio per gli standard locali, ma che ai quattro pareva invece una specie di scantinato, per gli standard lakshmiti. E attesero. E si annoiarono.
«È ancora il tuo Ufficio per la Colonizzazione che fa i dispetti a Lakshmi?» chiese Indira, dopo una memorabile giornata a girare i pollici e fissare una parete, quando tutte le chiacchiere erano state già esaurite e restava solo da attendere la cena e poi, con un poco di fortuna, una notte di sonno.
«No, beh, hai sentito anche tu cosa ha detto quel funzionario, no? C’è la fila e bisogna aspettare per accedere al pianeta, lo spazio è quello che è e...»
«E la stazione è una topaia. Per non parlare dell’ascensore, che probabilmente era già antico quando hanno firmato i Trattati. Chissà da dove lo hanno ripescato...»
«Se non ti piace così tanto, potevi anche startene a casa, sai? Non è che ti ho invitata io.»
«Io non la definirei una topaia,» intervenne Sharma nel ruolo di pompiere. «Semmai è un posto dal sapore rustico, non trovate? È come essere sulla scena di un drammone storico, ambientato ai tempi dei primi coloni, quando il pianeta era la frontiera. Non pare anche a voi? Da un certo punto di vista la possiamo considerare una immersione reale nella storia. Possiamo vivere in diretta le epoche che, finora, avevamo soltanto studiato a scuola. È interessante, non credere?»
«Interessante non è proprio l’aggettivo che userei io per descrivere il posto, ma lasciamo perdere,» disse Indira. «Speriamo almeno che si muovano a farci scendere, perché qui c’è solo da fare la vita dell’animale in gabbia e gli animali in gabbia non mi sono mai piaciuti, grazie. Mi piacciono ancora meno quando l’animale sono io. Se permetti.»
«Ma è solo una misura provvisoria, perché siamo arrivati proprio assieme a tutti quei coloni.»
«Mettiamola pure così, Sharma. A me basta che finisca in fretta. Anche perché poi non è che ci sarà molto di interessante da vedere, sul pianeta.»
Mei assistette in silenzio, con l’espressione di chi non aspetta più nulla. Matteo si chiese di nuovo perché si fosse aggregata, ma anche se possedesse una qualche opinione autonoma e, nel caso, se si sarebbe mai decisa a esporla. Probabilmente no. Una lattuga vivente. Oh beh, poteva andare peggio.
Dal settore della stazione in cui li avevano parcheggiati potevano vedere passare, di tanto in tanto, i nuovi coloni arrivati col Teatro di Oklahoma. Matteo cercava di studiarli con interesse, o almeno col tipo di interesse che puoi trovare quando sei in mezzo al nulla e anche una mosca sul muro diventa il più grande spettacolo dell’universo. Pensava che una volta, circa due anni prima, suo fratello era stato in mezzo a loro, a quella fiumana sgangherata e vestita di indumenti dal dubbio gusto estetico, che dalla Terra si era rovesciata su Madre in cerca di una vita migliore, un luogo migliore, una fuga dalle forze dell’ordine, questo o quello. Chissà in quanti avevano trovato quel famigerato meglio? E chissà in quanti non lo avevano trovato, che poi erano di sicuro molti ma molti di più.
Davide era passato di lì, sotto falso nome, magari assieme ad amici, colleghi o altri fuggiaschi come lui. Era passato di lì, era sceso sul pianeta, vi aveva vissuto per due anni circa e poi era sparito. Non disperso ma scomparso, come aveva detto il funzionario dell’ambasciata a Gayat. O forse gli aveva detto il contrario, non scomparso ma disperso? O altri aggettivi ancora? Matteo non lo ricordava di preciso, ma era quasi certo che non avesse importanza. Fosse come fosse, Davide era sparito mentre si trovava sull’enorme pianeta sotto di loro. Lo avrebbe mai rivisto? Avrebbe trovato anche solo una qualche notizia? Il geoide marroncino verso cui scendeva l’ascensore suggeriva di no.
Poi fu finalmente il loro turno. Vaccinazioni, sterilizzazioni, docce, tutto l’assortimento di pratiche e attività che dovevano garantire la sicurezza sia loro, sia del pianeta. Per Matteo era il quarto giro di giostra e ogni volta c’erano state differenze, perché diverse erano le necessita dei mondi e dei loro ecosistemi. O così sostenevano i tizi in camice bianco e loro se ne intendevano di sicuro, altrimenti non avrebbero svolto quel lavoro, giusto? Giusto o meno che fosse, fu un sollievo verificare che non ci sarebbero state anestesie e “piccole operazioni”, come era accaduto su Laozi. A posteriori, però, un’anestesia locale non sarebbe stata una brutta idea: la terza vaccinazione era stata gradevole come un tizzone sottocutaneo e aveva continuato a prudere per più di un’ora dopo aver smesso di fagli un male da piangere (ma non aveva pianto davvero: era grande, lui).
Ma anche quella fu finita e l’ascensore si aprì per loro, tra i brontolii di Indira e il ronzio costante e comprensivo di Sharma. Discesa lunga e lenta, verso un pianeta che manifestava tutta la varietà e il fascino indescrivibile di un fazzoletto usato. «Certo che voi terrestri l’avete scelta proprio bene la vostra nuova colonia,» commentò Indira. «Chissà quali menti geniali ci avranno lavorato.»
«Menti di planetologo,» rispose Matteo, sapendo che stava colpendo basso e facendolo lo stesso, se non proprio con gusto almeno senza il minimo rimorso. E in apparenza funzionò, perché Indira non disse altro. Un silenzio che non durò a lungo, ma nella vita bisogna sapersi accontentare.
«Come hai in programma di procedere con le tue ricerche?» chiese Sharma. «Suppongo che tu ti sia fatto lasciare qualche recapito dall’ambasciata di Gayat.»
«Ho qualche nome, sì,» rispose vago Matteo. «Volevo però partire dal Teatro, sai, l’organizzazione che si occupa dei coloni. Se possibile, mi piacerebbe ricostruire un poco la vita di Davide sul posto, quello che ha fatto, dove è andato. Non so, magari mi potrebbe dare una qualche idea.»
«E sei sicuro che ti diranno tutto? Se tuo fratello era in contatto con un gruppo di terroristi, come ci ha raccontato tu, può darsi che le informazioni su di lui siano segrete, adesso.»
Matteo scrollò le spalle. «Ho le credenziali che mi ha dato l’ambasciata terrestre. Non so quanto mi serviranno, ma siamo in territorio terrestre, dopotutto, e boh, non so, mi arrangerò in qualche modo. Voglio almeno tentare, sai. Se poi non servirà, pazienza.»
«E l’amministrazione locale come funziona? Sai come muoverti? Ti rivolgerai all’ufficio del Teatro, d’accordo, ma di preciso che ruolo ha questo ufficio nella struttura locale? È parte del governo, è un ente separato, ha una funzione di centro per il collocamento... Ti sei informato prima di partire?»
«Ehm... ecco...»
«Non che non si è informato. Figurati se fa qualcosa come informarsi, quello lì,» intervenne Indira. «Ma questo Teatro di Oklahoma o quello che è pare che si occupi di trasportare gli aspiranti coloni e facilitarne l’integrazione una volta arrivati. O così dichiarano, con qualche parolone extra. Fanno più o meno il lavoro che, in una colonizzazione progettata meglio, sarebbe assegnato a un ufficio di coordinamento. Chi emigra con loro ha subito un primo posto di impiego assegnato e poi, in base al suo rendimento e a come si comporta, può essere trasferito altrove o lasciato libero di arrangiarsi da solo, come preferisce. Chi invece emigra per conto proprio, senza passare dal Teatro, può rivolgersi in seguito a loro, che si occuperanno di trovargli una sistemazione iniziale.»
«E tu come fai a saperlo, scusa?» le chiese Matteo.
«Perché io mi sono informata prima, sapendo che tu non ci avresti pensato. È anche per questo che tu hai ancora bisogno della balia, su Lakshmi. Perché non ci pensi da solo. E spesso perché proprio non pensi, che è anche peggio. Se tuo fratello assomiglia a te, credo proprio che non ci sia bisogno di immaginare strani complotti dietro la sua scomparsa. Si sarà perso andando in bagno da solo.»
Matteo incassò senza replicare. Non aveva una risposta pronta. Non aveva mai una risposta pronta, quando gli serviva davvero. La vita sapeva essere davvero ingiusta. «A ogni modo io comincerò col Teatro e poi staremo a vedere,» disse infine.
«Hai bisogno di aiuto?» chiese Sharma. «Veniamo anche noi.»
«Non c’è bisogno, mi arrangio da solo. So come fare.» Un sottile sbuffo di derisione fu tutto ciò che ricevette in risposta. Non aveva neppure bisogno di girarsi a verificarne l’origine.
La città di Oklahoma City, facente funzione di capitale della colonia per mancanza di alternative, li accolse alla fine come qualcosa che scopri appiccicato sotto la suola della scarpa, dopo che l’ultimo tuo passo si è concluso con un rumore molliccio e molto, molto sospetto. Non era così brutta. Non proprio. Brutta non era il primo aggettivo a cui avrebbero pensato per descriverla, anche se con ogni probabilità sarebbe spuntato più o meno verso la nona o decima posizione. Era piuttosto...
«Stavolta aveva proprio ragione Chakra,» sintetizzò Indira. «Non avete idea di quanto mi dispiaccia doverlo ammettere, perché è contrario a tutte le mie convinzioni e rischia di distruggere la struttura stessa della realtà, ma stavolta Chakra aveva ragione. Purtroppo.»
«Io non la metterei proprio in questi termini,» disse Sharma. «Dopotutto è un luogo che possiede un certo suo fascino rustico. È... è un quadro storico, per l’appunto. È un po’ come essere usciti da una macchina del tempo, ecco. Un viaggio che ci ha riportato indietro di secoli e ci mostra come doveva essere stata la vita su Svarga durante il primo periodo della colonia. È...»
«Artistico. Naïf,» disse Mei Saddhatissa, fornendo un contributo indimenticabile alla discussione e ricordando in parte la propria esistenza, fino ad allora rimasta tra parentesi.
«Sì, ok, è uno schifo, lo sappiamo, ma non siamo qui per turismo. Io non sono qui per turismo. Voi non so, fate come volete,» disse Matteo, che non era proprio arrabbiato o deluso, ma che avrebbe preferito qualcosa di meglio, anche solo per la soddisfazione infantile di poter ribattere che ahahaha, vi siete sbagliati, avete visto che bel lavoro che sappiamo fare noi, eh? Ma non poteva.
Uscendo dalla stazione alla base dell’ascensore, la prima cosa che li aveva colpiti era stato l’odore. Non sgradevole, non esattamente sgradevole, ma aveva qualcosa di chiuso, stagnante, umidiccio. Il che era bizzarro, a modo suo, perché Madre non sembrava un pianeta umido. Pure, per chissà quale motivo, l’aria puzzava di cantina. Di cantina con pessima aerazione, a voler fare i pignoli. Non era un odore forte e non era sempre presente, ma scorreva come fiume carsico appena sotto la tua soglia di coscienza olfattiva e di tanto in tanto riemergeva, con una zaffata, un improvviso colpo di vento, un gigante invisibile che ti alita in faccia e poi fugge.
Passato il primo impatto, era il turno della vista a essere seviziata. Di fronte alla stazione si apriva una piazza, o almeno uno spazio piuttosto largo e di forma che voleva essere regolare senza riuscirci del tutto. Sembrava esagonale. Si impegnava a fondo per farti credere di esserlo e per certi versi lo era, se dimenticavi l’esistenza degli esagoni regolari. Se invece la ricordavi e cercavi di sovrapporla ai contorni della piazza, ne ottenevi un trompe l’oeil di pregevole effetto, ma che dopo breve tempo ti faceva anche lacrimare gli occhi. E al centro della piazza...
«Quella credo che sia una statua,» disse Matteo. «Ma non chiedetemi di cosa.»
«Che cosa rappresenta quella statua?» chiese Mei Saddhatissa.
Matteo cercò di guardarla molto male, ma sul suo volto non trovò che apparente innocenza. Più una vaga espressione da banco del pesce, ma anche quella era normale, per quanto ne sapeva lui. «Non lo so,» rispose. «Credo sia una statua astratta. Sì, una statua astratta,» aggiunse con convinzione. «È chiaramente una rappresentazione astratta, delle... delle virtù. sì. Le virtù.»
«In realtà è dedicata alla prima missione esplorativa del pianeta,» lo corresse Indira, non senza una certa gioia sadica, che in quel tipo di occasioni è sempre giusto esibire.
«E questo come lo sai? Ti sei informata prima anche sulle statue?»
«No, ma è scritto sulla targhetta. Lì in basso, la vedi?» La videro.
«È scritta troppo in piccolo, non l’avevo vista,» brontolò Matteo. «Comunque non ha importanza.»
«Oh, su questo devo darti ragione. Non ha molta importanza la statua, quando tutta la città sembra costruita da qualcuno appena uscito dal diciannovesimo secolo. Da una qualche periferia industriale del diciannovesimo secolo, direi. E con qualche grave trauma psicologico.»
E anche a questo Matteo non sapeva come ribattere. Era una città funzionale, certo. Una città assai pragmatica. Una città che privilegiava l’essere all’apparire. Una città che sacrificava comfort e altri elementi superflui, accessori, per concentrarsi sul nocciolo, l’essenziale, il fondamentale. Una città che poteva essere stata fabbricata appoggiando a terra una serie di scatoloni vuoti e ricoprendoli con una colata di cemento o giù di lì. Antica periferia industriale, già. Fatta di casermoni identici, copia e incolla, e gente che si affrettava per le strade, non proprio cupa e non proprio depressa, ma che si era certo dimenticata in camera l’allegria. O forse non l’aveva ancora tolta dalla valigia.
«Le ricostruzioni dei primi insediamenti su Svarga, in effetti, ricordano un poco questo posto. Come urbanistica e scelte architettoniche, dico,» commentò Sharma. «Su Svarga c’era anche il problema degli insetti, che qui ancora non ho visto, ma siamo appena arrivati e comunque sono certo che ci sarà una buona ragione anche per le scelte compiute su questo pianeta. È chiaro.»
Matteo ripensò al proprio arrivo a Varshi, in compagnia di Bogdan. La città al tramonto, la musica delle fontane che si diffondeva ovunque, le voci della gente nelle strade, non proprio armoniose ma a modo loro gradevoli, il vago odore degli alberi e di chissà quali fiori, la luce sulle cupole e sui tetti. Di certo la memoria aveva arricchito la scena, vi aveva aggiunto dettagli pescati altrove, e tutto era stato poi impanato con cura dal rimpianto dei tempi andati, ma... Ma non la potevi paragonare a Oklahoma City. Non c’era confronto. Varshi vinceva mille a zero.
D’accordo, Varshi era una città universitaria su un mondo coloniale vecchio di due secoli e oltre, o quasi tre se ricordava bene le lezioni di storia locale. Aveva alle spalle una struttura solida. Si era ormai lasciata indietro i problemi di crescita, se mai li aveva avuto. Paragonarla alla città capitale di una nuova colonia, che aveva sì e no venticinque anni al massimo, era ingeneroso. Era disonesto. Il tempo era dalla sua parte e, col tempo, Oklahoma City sarebbe di sicuro diventata posto da sogno e non di quei sogni che fai quando hai la febbre o hai mangiato molto pesante. Ma dannazione, non si potevano impegnare un poco di più, almeno davanti all’ascensore?
«Non è poi così male,» disse Mei. «Potrebbe anche essere interessante.»
«Oh, per chi ha il gusto dell’orrido sono certa che lo sia,» rispose Indira. «A ogni modo, che si fa? Cosa ha in programma il nostro terrestre che si arrangia da solo e non ha bisogno del nostro aiuto?»
«Io andrò subito all’ufficio del Teatro. Sono terrestre, dopotutto. Magari mi diranno già qualcosa, e così per i prossimi giorni mi saprò regolare meglio,» disse Matteo. «Voi intanto pensate all’alloggio e poi fatemi sapere dove vi siete sistemati, così vi raggiungo.»
«Appena avrai finito, sì. O appena avranno finito te.»
«Sempre simpatica, tu.»
«Faccio del mio meglio, grazie. A più tardi, dunque.»
Lo guardarono allontanarsi verso un edificio a destra della stazione, che magari era un poco diverso dagli altri, ma lo si sarebbe potuto determinare soltanto dopo una lunga analisi al microscopio. La sede locale dell’ufficio del cosiddetto Teatro di Oklahoma, o almeno il posto che Matteo pensava di avere riconosciuto come la sede. Non proprio la stessa cosa, insomma.
«Dite che se la caverà davvero da solo?» chiese Sharma.
«Dico che se non comincerà a imparare a cavarsela da solo, farà meglio a passare il resto della vita a nascondersi sotto un sasso. Non può sempre avere la mamma intorno a soffiargli il naso ogni volta che gli cola,» disse Indira, poi batté le mani. «E adesso, a noi. Qualcuno sa dove trovare gli alloggi? Mei, informarti era compito tuo, giusto? Ti sei informata almeno tu?»
«Mi sono informata. Hanno una specie di albergo proprio qui vicino, per i pochi turisti e soprattutto per i visitatori in arrivo dalla Terra, ma non so se ce lo possiamo permettere. Qui vogliono soldi per tutto. Forse ci conviene cercare qualcosa di più modesto, verso la periferia.»
«Fai strada e vedremo,» rispose Indira. Mei fece strada e videro. Alla fine scelsero un alloggio assai modesto in un’area periferica della città, sia perché più adatto alle loro disponibilità economiche, in base al parere di Sharma, facente funzione di contabile del gruppo, sia perché, secondo il parere più colorito ma più diretto di Indira, quel posto era comunque turistico come la cantina di sua nonna ed era uno spreco farsi mangiare più soldi di quanti fossero strettamente necessari alla sopravvivenza.
«E comunque l’albergo in centro fa schifo tanto quanto un buco in periferia. Cambia solo la tariffa, da buoni ladri terrestri. Poi da queste parti sembrano esserci parecchi coloni neoarrivati, quelli che ha sfornato il loro Teatro, per cui anche il nostro scemo del villaggio sarà contento. Magari troverà qualche notizia sul suo caro fratellino disperso.»
«Non dovresti essere così dura, Indira,» commentò Sharma, sistemando i bagagli. «È una colonia di fresca fondazione ed è sviluppata da una cultura diversa dalla nostra. Hanno altri valori e noi non ci siamo abituati, ma per quanto diversi non sono necessariamente peggiori dei nostri.»
«Non sono neanche necessariamente migliori. E comunque questo posto è una fogna.»
«È un posto... rustico. Pittoresco. Insolito.»
«Puoi anche dire che fa schifo, invece di girarci attorno.»
«Non lo definirei proprio così schifoso come dici tu. Dovrebbero però fare qualcosa per gli insetti, è indiscutibile: credo di essere stato appena punto,» concluse Sharma, sfregandosi il retro del collo.
«Avresti dovuto lasciare la finestra chiusa, invece di “cambiare aria”, come hai detto tu. Qui non c’è neanche uno straccio di zanzariera, entra ed esce tutto quello che capita. Ci sarà almeno un qualche insetticida o repellente, in questo buco primitivo? O li dobbiamo scacciare a colpi di ciabatta?»
«Non penso che sia una buona idea toccare gli insetti, almeno per noi» disse Mei. «Tre anni fa c’era stato il problema di quelle mosche che morivano dopo avere punto i lakshmiti. Se cominciassimo a ucciderne noi, adesso, magari potrebbero esserci altri problemi. Se sono specie protette, dico.»
«Allora li faremo uccidere al nostro neanderthal da compagnia, quando sarà tornato. Tanto lui ha il passaporto terrestre, gioca in casa e può fare quello che ne ha voglia, no?»
«Io però credo che sarebbe meglio disinfettare questa puntura, adesso,» disse Sharma. «Continua a prudere, non vorrei che fosse una qualche reazione allergica o altro.»
Indira sospirò. «Come regalo di benvenuto, certo. Bene arrivati su Madre, il posto più ospitale della galassia dopo il mattatoio numero cinque! Speriamo che Matteo si sbrighi, non voglio restarci più di quanto sia strettamente necessario. Siamo all’età della pietra, qui.»
La puntura di insetto sul collo di Sharma era un segnetto rosso, come se qualcuno lo avesse scelto per sperimentare una forma non proprio indolore di agopuntura. Mei la disinfettò e incerottò, con la concentrazione di un neurochirurgo che ricompone un cervello a puzzle, mentre Indira sbuffava e si lamentava. Alla fine uscirono di nuovo, con Sharma che di tanto in tanto tornava a toccarsi il collo.
«Come insegnano le nonne, non guarisce se continui a metterci il dito,» commentò Indira, mentre il gruppo attraversava un quartiere che possedeva tutta l’allegria di un novembre assai piovoso.
«È che prude un poco. Voglio solo assicurarmi che tutto sia a posto.»
«Se non lo tocchi sarà ancora più a posto. Se poi avessimo lasciato che il fesso ci venisse da solo, o se lo avessimo convinto a non venirci proprio, ogni cosa sarebbe incomparabilmente più a posto.»
«Però non avremmo potuto visitare questo posto,» disse Mei. «È l’unico che abbiamo trovato su cui una civiltà aliena si è sviluppata. È un posto storico, a modo suo.»
«Sì, e posso anche capire perché se ne siano andati. Hanno fatto la scelta vincente.»
«Suppongo che si siano estinti, non partiti,» disse Sharma.
«Anche in questo caso, posso capire perché si siano estinti. Questo pianeta è una cartaccia gettata. Saranno morti di malinconia o di chissà quale infezione.»
La camminata senza meta li aveva portati nei pressi di un cantiere parecchio grande ai margini della città. Cantiere grande e abbandonato, in apparenza. Sembrava che stessero costruendo qualcosa che era sia grande, sia monumentale, a modo suo. Artistico, quasi. Sembrava anche che non lo stessero più costruendo. Potevi quasi percepire le ragnatele virtuali e la polvere metafisica accumularsi sulle strutture coperte e desolate, negli scavi trascurati, sui cumuli di materiali non usati.
«Hanno visto che stava venendo troppo bene e hanno cambiato idea, perché non si accordava con lo stile a discarica abusiva del resto della città,» commentò Indira, studiando il cantiere dismesso.
«Penso che siano gli scavi per il museo, quelli dove hanno trovato la pietra,» disse Mei. «La pietra quasi identica a quella trovata su Agni, ricordi? Adesso è probabilmente chiuso.»
«Non probabilmente, ma sicuramente,» rispose Indira. «Chiuso e sorvegliato. Li vedi i sigilli messi dall’esercito? Meglio che non li tocchi o ti avvicini troppo, non vorrei che facessi scattare qualche tipo di allarme. Poi magari finiremmo anche noi in carcere come l’amica fessa del terrestre fesso.»
«C’erano molti militari anche sulla stazione orbitale e in quella di arrivo alla base dell’ascensore,» disse Sharma. «Chissà come mai? Mi sembra un posto tranquillo, almeno per quanto abbiamo visto finora. Non capisco a cosa serva tutto questo controllo.»
«Forse è un posto tranquillo proprio perché c’è tutto questo controllo,» rispose Indira. «O magari e più probabilmente c’è tutto questo controllo perché la colonia funziona anche da discarica umana. I non desiderati finiscono qui a fare numero, come funzionava secoli fa sulla Terra quando gli europei invadevano un nuovo continente. Anche il fratello del nostro scemo ci è finito così, no? Fuggito con una falsa identità, perché a casa cominciava a scottargli la sedia sotto il sedere.»
Mei osservava in silenzio i sigilli militari posti sul cantiere, mentre gli altri due discutevano tra loro su quanto fossero stupide o meno le persone assenti, nella migliore tradizione di chiunque. Curioso. Era proprio sigillato bene. Volevano essere sicuri che nessuno potesse entrare. «Dite che la pietra è proprio impossibile da vedere?» chiese dopo un poco. «Dove l’avranno portata?»
«Non ne ho idea,» rispose Indira. «Probabilmente in un qualche centro di studio per archeologi, con gli altri reperti alieni che hanno scavato. Non è proprio un campo che mi interessi, sai.»
«Qualche tempo fa era circolata la notizia che un gruppo di ricercatori agniani si sarebbe unito agli studiosi del posto per condurre ricerche sulla pietra e confrontarla con quella trovata su Agni,» disse Sharma. «Non so poi come sia andata a finire. Non ho avuto molto tempo per tenermi informato, di recente, con tutto quello che è accaduto a noi.»
«A noi non è accaduto granché,» disse Indira. «È al fesso che accadono sempre le cose più strane e stupide: noi ci finiamo coinvolti solo per interposta persona o perché tu ti diverti a ficcare il naso.»
«Non mi diverto a ficcare il naso.»
«Oh, davvero? Sentiamo il parere di Matteo, quando sarà tornato dal suo ufficio del Teatro.»
«Quello non lo definirei un ficcare il naso, se permetti.»
«Tu no; lui sì. Lo ha definito anche con termini peggiori, se ricordo bene. Quando ti ha mollato per prendersi Chakra come balia. Ottima scelta, peraltro: due così sono fatti apposta, potrebbero essere una fantastica coppia di comici. O anche di esiliati o carcerati, in effetti.»
«A me comunque piacerebbe vedere la pietra, mentre siamo qui,» disse Mei, senza molte speranze.
«Improbabile, anzi quasi impossibile. Tanto vale che non ci pensi, dunque. Piuttosto, vogliamo stare qui ancora un po’ a fissare un cantiere chiuso, oppure esploriamo qualche altra zona? In attesa che il nostro fesso si faccia sentire, sempre che non se lo siano mangiati assieme al fratello. E Sharma, tu smettila di strofinarti quel collo: non uscirà nessun genio, lo sai.»
Il loro fesso non se l’erano mangiati assieme al fratello, ma si stava annoiando come se non ci fosse un domani. La sede locale del Teatro era stretta, affollata, scomoda e c’era da aspettare eoni ed eoni per ogni cosa, anche solo per chiedere informazioni su dove rivolgersi per chiedere informazioni. Al termine di un periodo in cui metaforici esseri unicellulari si evolsero, abbandonarono gli oceani, si lanciarono nel fantastico gioco da tavolo della civiltà e infine si estinsero in un letale cambiamento climatico causato da loro stessi, Matteo finalmente ottenne di incontrare un funzionario che, forse, a grandi linee, era almeno consapevole che qualcuno chiamato Bruno Kitzis aveva lavorato assieme a un gruppo gestito dal Teatro. Un progresso, senza dubbio. Un enorme progresso. Così grande che lo riuscivi a vedere a fatica. Dico il progresso, non il funzionario.
Dopo un altro periodo di attesa, qualche ricerca e il passaggio per altri due funzionari svogliati e un poco anche stressati, Matteo scoprì che sì, Bruno Kitzis era in effetti scomparso: entro dieci giorni sarebbe stato dichiarato ufficialmente disperso, se non fossero riusciti a trovarlo. E le ricerche? E le ricerche erano un vago punto di domanda sulla faccia dell’impiegato che gli parlava. Erano ancora in corso? Forse, magari, può darsi. Non se ne occupavano loro e comunque lui non ne sapeva nulla. Scomparsi e dispersi non erano di loro competenza, mi spiace: ritenti, sarà più fortunato.
Matteo non ritentò ma se ne andò. Buco nell’acqua, secondo il celebre modo di dire. Ancora peggio perché il gruppo di cui Davide aveva fatto parte, sotto il nome falso di Bruno Kitzis, non era in città al momento. Fuori per lavoro, rientreranno tra una decina di giorni. No, quindici giorni. Qualcosa del genere, non c’è bisogno di fare tanto i pignoli. Per Matteo ce ne sarebbe stato anche bisogno, ma l’impiegato aveva manifestato tutto l’interesse di una cimice morta, dietro la sua barbetta patetica da quattordicenne che cerca di sembrare grande. Che quella barbetta la esibisse un ultraquarantenne era ancora più patetico, almeno secondo il modesto parere di Matteo.
Con un sospiro e il morale rimboccato nei calzini, si avviò a testa bassa verso l’alloggio che Sharma gli aveva indicato un paio di ore prima tramite messaggio con mappa allegata. Dieci, quindici giorni da far passare in un modo o nell’altro, in attesa che il fu gruppo di Davide tornasse in città. A quel punto suo fratello sarebbe già stato dichiarato disperso e lui cosa avrebbe fatto? Anzi, lui cosa aveva intenzione di fare, all’indicativo e non al condizionale? Due settimane da turista nel nulla spinto di quella città in costruzione, con Indira che continuava a punzecchiarlo e deriderlo? C’era da affogare in una vasca di melassa spirituale. A confronto, anche i pomeriggi al centro culturale terrestre su...
Matteo si bloccò al centro della strada e fu subito urtato da un passante robusto, che andava di fretta e quasi lo buttò a terra. Lo sconosciuto si allontanò poi con un paio di insulti, che il destinatario non registrò neppure. Pensava ad altro. Il centro culturale terrestre. Il centro culturale terrestre di Varshi, luogo di perdizione in cui tante ore aveva sepolto in una cloaca di aria fritta. Due dei suoi principali occupanti e indiziati erano ancora su Varshi a scaldare sedie, ma uno no, uno si trovava su Madre in quel momento. O almeno aveva dichiarato di trovarsi su Madre in quel momento.
Steve Dingledine, che dopo la laurea era stato accettato in un qualche istituto su Madre per la sua specializzazione. O qualcosa del genere. Probabilmente aveva ancora il suo contatto, che Steve per ragioni misteriose aveva allegato al suo ultimo (o unico) messaggio spedito al centro culturale. Era un suo conoscente e si trovava nei paraggi. Valeva la pena di passare da lui? Poteva essere di aiuto? Poteva sapere qualcosa? Improbabile, al confini dell’impossibile, ma non si poteva mai dire. La sua esperienza letteraria gli aveva insegnato che coincidenze ancora più impossibili accadevano sempre e comunque, soprattutto in opere dell’Inghilterra vittoriana. Poteva funzionare anche nella realtà?
Poi Matteo ricordò meglio come fosse Steve e cambiò idea. No, non aveva voglia di rivederlo. Non se lo poteva evitare. Non finché esisteva almeno una minima possibilità di farne a meno. Avrebbe sì atteso il ritorno del gruppo a cui Davide era appartenuto, avrebbe parlato con loro, si sarebbe fatto raccontare ogni cosa, magari alla fine avrebbe anche visitato di persona il luogo di mare dove erano andati in vacanza, quando suo fratello era sparito. E poi... ci avrebbe pensato poi.
Con un passo elastico da fonduta malriuscita, Matteo Kori si avviò verso l’alloggio, nonché verso la sua abituale vita di attese seduto ai bordi della strada, guardando la vita che altri vivevano. Stavolta era il turno di attendere i lavoratori. La prossima volta... chi lo sa. Ci sarebbero state altre attese. Per quelli come lui c’erano sempre altre attese.
Almeno finché non si decidevano ad agire.