La galassia di Madre - 92
La notte in cui Chloe Duma incontrò il proprio destino, o almeno la notte in cui le accadde qualcosa che in seguito, qualora osservato da una certa prospettiva e con la giusta predisposizione mentale, sarebbe stato più o meno possibile indicare col termine divulgativo e colloquiale di “destino”, fu forgiata da due eventi, uniti da una catena di causa ed effetto: l’insonnia e la passeggiata.
L’insonnia non era strana per lei, soprattutto durante la stagione più calda. Non che ci fosse mai una stagione non calda, almeno per chi viveva nella città di Sidhapuri, collocata grossomodo all’altezza del ventesimo parallelo nord sul pianeta Varuna, e soprattutto non c’erano stagioni non umide, in un mondo caratterizzato dagli oceani ampi e profondi, ma in quella particolare notte il caldo, l’umidità, gli insetti e in generale l’ambiente attorno a lei si erano fatti così soffocanti e insopportabili che una qualsiasi prospettiva di sonno era quanto di più lontano riuscisse a immaginare dalla realtà. Quando il sonno non c’era, la soluzione per Chloe Duma era sempre la stessa: alzarsi e dedicare la notte ad altro. O restare coricata e dedicare la notte ad altro, talvolta, ma mai con il caldo. Col caldo, restare a letto era inutile: non riusciva neppure a pensarsi pensare. Il letto diventava una palude.
«Ma non c’è caldo qui dentro,» era l’obiezione standard della madre. «È climatizzata. Se tu chiudi le finestre si sta sempre bene, in ogni stagione.» Il che era vero, proprio come era vero che gli insetti non entravano, se le finestre erano chiuse, né sentivi i rumori esterni, non attraverso robuste pareti insonorizzate. Pure, il caldo non la faceva dormire, gli insetti non la facevano dormire, l’umidità non la faceva dormire e la notte la chiamava. Era probabilmente tutta una questione psicosomatica o giù di lì, o magari era meteoropatica, o qualcosaltratica, ma appiccicarvi una parola da enciclopedia non cambiava la realtà dei fatti, e cioè che non riusciva a dormire e la casa la soffocava.
Dormire bene e a lungo le riusciva sempre meno spesso, di recente. Non era mai stata campionessa di sonno, ma nel corso dell’ultimo anno doveva avere stabilito il record olimpico negativo: neppure ricordava l’ultima volta in cui si fosse sentita davvero riposata, alzandosi al mattino. «Fatti vedere da un medico,» obiettava di nuovo la madre. «L’insonnia è una cosa stupida, ormai, te la sistemano in un attimo, al giorno d’oggi. Non capisco perché devi essere così testarda da volerci dormire male ogni notte, davvero.»
Non lo capiva bene neppure Chloe, in effetti, ma capiva che i rimedi a quel problema le piacevano ancora meno del problema stesso. Farmaci per correggere i ritmi circadiani o prolungare la fase di quiete del cervello, terapie ormonali, in casi rari ed estremi piccoli interventi chirurgici. No grazie, che se li facessero pure gli altri, se proprio li apprezzavano. L’insonnia sarà anche una cosa demodé, come diceva la mamma, ma meglio demodé che affetté, come diceva lei.
E poi c’era quasi affezionata. Con meno tempo da sprecare dormendo, ne aveva molto di più per le attività che preferiva. O per le attività in generale. Attività che, di giorno e col nome che i genitori le avevano rifilato, diventavano spesso alquanto difficili nella zona in cui viveva. Non sapeva bene in che modo funzionassero le cose su altri mondi, ma sapeva come funzionassero lì su Varuna: etnia e cultura di origine erano solo una parte del problema, una parte dei fattori che frantumavano la loro società in un puzzle eterno in milioni di pezzi. Esistevano pure fattori personali. Potevi appartenere al gruppo etnico e culturale corretto per la zona in cui vivevi, ma se uno scherzo della genetica alla nascita ti aveva fornito di capelli od occhi del colore sbagliato e non ti affrettavi a correggerli, se la tua pronuncia ricordava troppo quella di altri gruppi, se i tuoi gusti non coincidevano col menu della tua tradizione culturale, se questo o quello, allora potevi già scavarti una tana nel ghetto più vicino, se la tua famiglia non possedeva un peso sufficiente a fare accettare i tuoi difetti come deplorevoli, ma innocui ghiribizzi della natura.
Per Chloe Duma, il ghiribizzo innocuo era stato il nome. Perché i suoi genitori l’avessero chiamata proprio così era qualcosa che non avrebbe mai capito. Piaceva al papà, d’accordo, ma su un mondo come Varuna non era saggio fare una cosa solo perché ti piaceva, non se aspiravi a una vita lunga e tranquilla. Pure, finché papà era vivo non c’erano stati problemi reali, a parte derisioni e un poco di insano, ma blando bullismo a scuola. Perché Rupak Duma aveva avuto il suo peso nella comunità di Sidhapuri. Non un colosso, d’accordo, ma era rispettato, ascoltato: uno dei migliori oceanografi su un pianeta fato di oceani, dove con gli oceani dovevi spesso litigare. Con gli oceani e con ciò che li abitava, soprattutto. E se Rupak Duma voleva dare un nome strambo alla figlia... beh, pazienza. Per una volta avrebbero chiuso un occhio, ma che non si ripeta, eh?
Poi Rupak Duma se l’era preso l’oceano, circa un anno fa, e la vita di Chloe era cambiata. E non in meglio. Gli amici erano calati, le derisioni aumentate, l’insonnia era peggiorata e andare a letto era diventato soltanto un breve periodo in cui si rigirava tra le lenzuola, prima di alzarsi e trovarsi altro da fare. Per attendere l’alba, o anche solo per uscire temporaneamente dalla realtà del mondo.
Quella notte non uscì dalla realtà del mondo ma dalla casa. Il cielo sopra di lei era chiaro in potenza ma offuscato in atto. Umidità, sempre la solita umidità, che durante il giorno tingeva di bianchiccio l’azzurro e di notte cancellava le stelle. Lasciava però una vaga scia di lumaca siderale, in cui le luci artificiali delle città si riflettevano, rifrangevano e sparpagliavano su tutte le aree abitate, così che il buio non era mai davvero buio, ma sempre di quel grigio scuro parecchio usato che sostituisce il più naturale nero nelle regioni antropizzate. Ci si vedeva. Non bene, d’accordo, ma abbastanza da saper trovare la strada giusta, non inciampare e forse anche non calpestare cose troppo ributtanti, a patto che fossero almeno di dimensioni medie. E in spiaggia non ne trovavi molte, di solito.
La spiaggia e l’oceano. Erano a un centinaio di metri da casa sua ed erano luoghi che Chloe amava e odiava. Le ricordavano il padre, nel bene e nel male, ma funzionavano anche come una efficiente discarica psicologica, o giù di lì. Potevi camminare ai bordi dell’acqua, inalare l’odore non del tutto sgradevole di alghe, pesci e altre cose, che la brezza notturna soffiava verso la spiaggia, ti potevi per un poco isolare dal resto del mondo, se era notte e la spiaggia deserta, ma soprattutto potevi fissare la vasta, enorme massa di acqua moderatamente calma e piatta, che a quell’ora assomigliava quasi a una enorme creatura nera, se avevi immaginazione sufficiente, e scaricarvi abusivamente tonnellate e tonnellate di rifiuti tossici mentali, tutta l’immondizia che si sedimentava sul fondo del tuo cranio. L’oceano ingoiava fino all’ultimo frammento e non si lamentava mai.
Ingoiava anche troppo, a volte. Lo aveva fatto con suo padre Rupak, che era sceso a esplorare una fossa oceanica di particolare interesse per il suo lavoro, o così aveva sostenuto lui, e da quella fossa non era mai riemerso: forma estrema di sepoltura marittima, col veicolo a fargli da bara metallica in saecula saeculorum, o giù di lì. Era stata una pessima idea, avevano detto molti. Era stata una idea stupida, avevano detto altri. Era stata una idea rischiosa, che era meglio lasciare ai droni: su questo nessuno aveva discusso. Perché era vero in generale, ma ancora più vero su Varuna, dove i fondali oceanici non erano proprio amici degli umani. Appartenevano ad altri.
Ma la superficie era amica, o almeno un conoscente che ti saluta quando vi incrociate per strada. Se ti accontentavi della costa, se non scendevi oltre una certa profondità, problemi reali non ne avevi, o almeno non peggiori di quanti ne avresti avuti nei mari di qualsiasi altro pianeta, inclusa la vecchia e addomesticata Terra. Potevi affogare se non eri un gran nuotatore e il mare era agitato, ma niente ti sarebbe venuto a stritolare perché avevi attraversato confini non scritti e non segnati sulle carte. Per Chloe Duma la superficie era anche il luogo prediletto per le camminate notturne, consolazione e in parte premio alle sue lunghe insonnie estive.
Non era saggio uscire da sola di notte alla sua età, le avrebbe detto la madre. Non era saggio uscire da sola di notte in un luogo deserto e pericoloso come la spiaggia, avrebbe aggiunto. Siccome però quello che non sai non ti fa male, e la madre non sapeva delle sue escursioni notturne, non le poteva neppure dire tutto ciò; intanto Chloe usciva e il padre rimaneva morto. L’aria esterna era una parete quasi solida di calore e umidità, ragnatela che l’avvolgeva e le rallentava il passo, come nei sogni dove scappi ma non scappi mai abbastanza veloce, o quelli in cui devi arrivare da qualche parte, ma non sei mai abbastanza veloce, ed è tardi, e tu devi arrivare, e qualcosa ti frena sempre, ti trattiene, ti distrae, ti blocca. Nelle notti estive sulle spiagge di Varuna si poteva rivivere molto di quei sogni, con accompagnamento di insetti a volontà.
Ma erano belle, a modo loro. Chloe percorse quasi correndo il breve tratto di strada che conduceva alla riva del mare, sotto la luce dei lampioni e tra le case addormentate, poi la sabbia le scricchiolò sotto i piedi, una lieve brezza di odore discutibile e nessun refrigerio concreto le accarezzò un poco i capelli, senza riuscire a scollarne neppure uno dal cranio, le luci artificiali si persero alle sue spalle e il mondo per lei fu solo l’oceano di notte, immenso e mormorante. Adesso si sentiva a casa.
Casa o non casa, il braccialetto con allarme satellitare le rimbalzava sempre sopra la mano sinistra a ogni passo. Perché ok, disobbedire e uscire di nascosto, va bene, ma c’erano limiti in ogni cosa e la sua prudenza li conosceva. Non lo toglieva mai, il braccialetto. Uscire da sola senza braccialetto su Varuna sarebbe stato come infilare la testa in una ghigliottina con la lama molto instabile per vedere l’effetto che fa. Lo imparavi più o meno subito dopo avere imparato a camminare e spesso il mondo si premuniva di fornirti aggiornamenti automatici e comodi promemoria, nel caso tu avessi qualche problema a ricordare. Chloe non ne aveva: le bastava pensare a cosa fosse successo alla sua amica Esther circa sette mesi prima. Il braccialetto non lo aveva impedito, è vero, ma almeno adesso c’era ancora una Esther, perché erano arrivati in tempo. E piuttosto che niente...
Ma il braccialetto era tranquillo, la notte pure, l’oceano sussurrava sconfinato alla sua sinistra e se il mondo non era proprio il migliore di quelli possibili, era almeno l’unico che avesse sottomano, per cui se lo doveva far bastare, che le piacesse o meno. In quel particolare momento, poteva quasi dire che le piaceva, che l’oceano non era poi così brutto come lo dipingevano, che Esther era soltanto la sua compagna di sventura onomastica e prima o poi qualcosa di bello sarebbe arrivato, se lo sapevi aspettare ma soprattutto se alzavi il culo e cominciavi a lavorare duro per procurartelo.
Camminò per oltre mezz’ora, nel silenzio naturale che non è mai davvero silenzioso, ma lo sembra a confronto cogli innumerevoli rumori artificiali. Aveva cominciato pensando come sempre al padre e alla sua scomparsa, pensieri che non sapeva mai separare dall’oceano e che forse, su di un qualche livello mentale, le rendevano più cara la vicinanza dell’oceano stesso, ma poi aveva preso il largo e il suo flusso di coscienza aveva smarrito ogni traccia di legami logici e razionali, perdendosi lungo i reami dell’analogico e dintorni, connessioni e balzi, neuroni come scoiattoli lungo i mille e più rami degli alberi dendritici, ma soprattutto della foresta figurata che cresceva dal ciarpame abbondante in ogni cervello umano. Il mare, il padre, la scuola, la cena, i calamari, il tempo, il cielo, il caldo, e gli insetti, e quest’altro ancora, e qui e là, in una marmellata priva di senso, ammessa e non concessa la presenza di senso in tutto il resto. A volte le sembrava di scorgerne una, ma più spesso ne dubitava.
C’era qualcosa sulla spiaggia.
Chloe Duma si bloccò, ripiombata a peso morto nel mondo reale, per un dato valore di realtà. Poca la luce, ma i suoi occhi si erano abituati più o meno al buio e... sì, c’era qualcosa sulla spiaggia. Più qualcosa? Un qualcosa o tanti qualcosa? Non lo capiva. Era una sagoma proprio sulla riva del mare, forse bagnata dall’acqua, ma potevano anche essere più sagome, accucciate, rannicchiate, ingobbite contro lo sfondo confuso dell’oceano. Potevano essere più sagome. Sagome di persone accucciate. Chinate. In attesa. In agguato. Una grande sagoma o più sagome, ma era il più a preoccuparla, ora come ora. Il più e il pensiero di quanto era successo a Esther.
La mano le corse ad accarezzare il braccialetto. Funzionava, vero? Ma certo che funzionava. Aveva funzionato quando era uscita di casa, perché mai avrebbe dovuto smettere proprio adesso? Perché di solito è quello che succede, no? Le cose funzionano sempre quando non servono; quando ti servono davvero, però, non funzionano mai. O almeno era la sensazione che avevi, se credevi in un mondo e un destino ostile a prescindere dagli sforzi che facevi, a una realtà sempre pronta a danneggiarti. Se sceglievi approcci più realistici, le cose potevano funzionare o non funzionare a prescindere dalle circostanze e dalla loro importanza attuale. Erano oggetti. Non complottavano contro di te, a meno che il produttore non li avesse fabbricati deliberatamente difettosi, come avviene spesso per forzarti ad acquistarne uno nuovo dopo un certo tempo. Ma non era il caso dei braccialetti, giusto?
Chloe lo pensava, ma al momento non ci credeva. Al momento c’era la sagoma (no, le sagome, più sagome, tante sagome, in agguato, che ti aspettano, e lo sai cosa succederà, vero? Lo sai, vero?) e il resto poteva attendere. Giorni migliori, per esempio, o anche secoli migliori. Ma era proprio sola lì sulla spiaggia, di notte, sola con la sagoma (le sagome), e l’oceano, e fioche luci riflesse dalla città alle sue spalle. Sarebbero arrivati in tempo? Se il braccialetto avesse inviato il segnale di allarme, li avrebbero raggiunti in tempo? E in tempo per cosa?
La sagoma non si muoveva. Sbagliato, la sagoma si era mossa. Un poco, niente più di una leggera vibrazione, ma si era mossa. La sagoma o una delle sagome che la componevano. Qualcuno si era spostato? Per sistemarsi meglio, perché aveva una gamba addormentata, per preparare meglio il suo scatto, l’assalto, l’attacco. Chloe fece un passo indietro. Sudava, sudava molto più di quanto il clima già caldo e umido l’avrebbero fatta sudare. Era stata stupida. Non lo aveva mai sentito tanto come in quel momento, anche se più persone glielo avevano fatto notare nel corso degli anni, non sempre in termini amichevoli e gentili, ma era stata stupida e adesso...
E adesso avrebbe imparato la lezione. Se alla fine fosse rimasto abbastanza di lei da potere imparare qualcosa, beninteso. Se fossero arrivati in tempo, per evitarle almeno il falò finale. Perché era così che finiva, giusto? Era così che sarebbe finita per Esther, almeno. Dicevano.
La sagoma si mosse di nuovo. Un lieve sobbalzo, verso la fine del suo corpo. Se aveva un corpo. Se non era solo formata da corpi, irrequieti, pronti a scattare. Chloe indietreggiò di un altro passo, poi di un altro ancora, poi un piede le inciampò nel collega e lei finì a terra, pesante, prima sul sedere e poi di schiena. Ma la sabbia era soffice e non si fece male, neppure su una conchiglia vagante.
Adesso attaccano, pensò. Adesso è la fine. Adesso che non posso scappare.
Ma nessuno attaccò. Nessuno si mosse. Respirando a fatica, con una cautela da neo-operato, Chloe Duma si rialzò adagio. Niente continuò ad accaderle. La sagoma sul bagnasciuga rimaneva soltanto la stessa sagoma sul bagnasciuga. Non si trasformava in un gruppo di umani per balzarle addosso e, se la guardava proprio, ma proprio bene, non sembrava più neppure un gruppo di sagome. Una sola, di forma strana, troppo grande per essere rassicurante, soprattutto in piena notte, ma... una sola.
Raddrizzata in parte, mani sulle ginocchia e ginocchia piegate, pronte allo scatto, Chloe ascoltava il silenzio completo del posto. Che non era silenzio completo. La risacca accompagnava ogni respiro, ogni battito del cuore, col suo fruscio sottile, il suo risucchio ancora più sottile, il suo ritmo spezzato di tanto in tanto da un’onda più forte delle altre, uno sciaf più vigoroso, a cui seguiva un risucchio altrettanto vigoroso. E quando l’onda più forte arrivava e ripartiva, la sagoma si muoveva. Ma poco, piano, come se fosse viva, come se volesse sistemarsi meglio sulla spiaggia, mettersi comoda.
La sagoma si muoveva al ritmo delle onde. Perché le onde muovevano la sagoma. Perché era inerte. Sembrava inerte. Chloe non si avvicinò, ma neppure cercò di scappare. Il momento di panico cieco e divino, il grido dell’antico dio Pan che ti sorprendeva nel mezzo della foresta, lontano dalla civiltà e da ogni altra traccia di esistenza umana, aveva smesso di risuonare nelle sue orecchie. La serenità e la pace restavano ancora piuttosto lontane, concetti astratti filtrati forse da un universo limitrofo e grossomodo simile al suo, ma poteva pensare, poteva ragionare. Non sembrava essere in un pericolo immediato. Quindi... poteva osservare. Studiare. Ma sempre pronta al peggio e alla fuga, eh.
Si raddrizzò piano, spazzandosi la sabbia dal fondo dei pantaloni. Qualunque cosa ci fosse sulla riva e qualunque cosa stesse facendo, era una cosa sola. Grossa e dalla forma molto ma molto strana, ok, ma non era un gruppo di umani acquattati, non era il branco di simil-scimpanzé dal pelo corto che si era immaginata all’inizio, persa nella consapevolezza improvvisa del suo essere da sola, lontana dal paese e su una spiaggia deserta, dove brutte cose erano già accadute ad altre, in passato. Quello era stato il più comprensibile dei momenti di panico, ma era passato. Ok, stava passando, era avviato in direzione della scomparsa, ma il punto era, il punto era che adesso poteva di nuovo ragionare. Dopo la fase da bambina impaurita, era tempo di ritrovare quella da ragazza curiosa.
Che cosa c’era sulla spiaggia? Che cosa si lasciava cullare dalla risacca notturna dell’oceano? Forse una cosa morta, se mai era stata viva, o forse un qualche altro relitto lasciato in secca dalla marea. Il papà le aveva raccontato che succedeva spesso, ed era vero; piccole cose, di solito, ma una volta da bambina c’era stato quello strano grumo di alghe, grosso grosso, da cui spuntavano dei tentacoli, o cose che adesso ricordava come simili a tentacoli. Non ricordava poi come fosse finita, ma il giorno dopo il grumo di alghe non c’era più e non ci aveva più pensato, perché doveva avere avuto quattro o cinque anni e a quella età hai la soglia di attenzione di un moscerino ubriaco.
Ci pensava adesso, che di anni ne aveva di più e riteneva che a crescere fosse stata anche la capacità di attenzione, non solo il corpo. Che la sagoma sul bagnasciuga fosse qualcosa di simile? Ma non lo sembrava. Non un grumo di alghe, almeno. Doveva essere lunga una decina di metri, forse di più, e il profilo era irregolare, più grande e compatta la parte vicina, stretta, sfilacciata e lunga la parte più lontana, che si perdeva in un buio più intenso. Se solo avesse avuto qualcosa per fare luce...
Aveva qualcosa per fare luce? Qualcosa di più intenso del minuscolo puntino rosso lampeggiante sul braccialetto. Un rapido controllo delle tasche le disse che possedeva sì una piccola torcia portatile, di quelle che erano utili se ti cadeva di mano un oggetto e non lo volevi cercare a tastoni, magari un ciondolo, un anellino o altro, ma le sarebbe servito uno strumento molto, molto più potente. Cosa ci fosse sulla spiaggia non lo sapeva, ma con la torcia che aveva ne avrebbe illuminato una spanna al massimo, e solo se si fosse avvicinata di più. Brutta storia.
Pure, dopo la paura iniziale, la curiosità era forte. Chloe era moderatamente convinta che quel coso in riva all’oceano fosse morto o comunque non vivente, nel qual caso avvicinarsi non sarebbe stato un problema. Ma se si fosse sbagliata? Era davvero sicura di voler rischiare sulla base di quella che, di fatto, era soltanto una moderata convinzione? Mentre si masticava le labbra cercando di decidere, la sua mano destra agì per conto proprio, accese la torcia e la puntò sulla sagoma.
E non ottenne alcun risultato. La distanza era davvero troppo grande, la luce troppo debole. Quindi, se voleva vedere, si doveva avvicinare. Si trovava ad almeno una ventina di metri, adesso. Se avesse dimezzato la distanza, ma molto molto piano e sempre pronta a correre dalla parte opposta, forse la torcia avrebbe illuminato qualcosa, forse le avrebbe mostrato cosa si fosse arenato sulla spiaggia.
Ma la domanda era: lo voleva davvero sapere? A questo, Chloe Duma non aveva una risposta.
Compromesso. Ecco cosa le serviva: un bel compromesso. O anche un brutto compromesso, se non trovava di meglio, ma qualcosa che le togliesse almeno una parte della pressione, spalmandola sulla maggiore superficie possibile della società umana nei suoi dintorni. Avrebbe registrato e segnalato la strana presenza sulla spiaggia anche a costo di fare una figura da bambinetta spaventata, e magari avrebbe attivato anche il braccialetto, perché no? Dopodiché, una volta certa che sarebbero arrivate a breve altre persone, si sarebbe avvicinata alla sagoma, per illuminarla meglio e cercare di capire di cosa si trattasse. Sperando con forza che avvicinarsi non si rivelasse una stupidaggine.
Quando si trovò a meno di cinque metri dalla sagoma e la sua piccola torcia illumino quello che si poteva solo descrivere come un occhio enorme e non umano (ammesso che potessero esistere anche occhi enormi e umani), la prospettiva di avere fatto una stupidaggine sembrò reale come mai prima di allora. Ma l’occhio non reagì, neppure una contrazione istintiva e involontaria. Così almeno per il momento Chloe evitò di farsela addosso, respirò a fondo, si pentì di aver respirato a fondo quando il fetore della sagome le riempì i polmoni, trattenne un conato di vomito e mosse il sottile fascio della torcia, sperando che illuminasse cose meno schifose. Ammesso che ci fossero come meno schifose da illuminare: l’odore non prometteva bene.
Ma era morta. Doveva essere morta: niente di vivo poteva puzzare così tanto e non morire soffocato dal proprio tanfo. Quando però spostò il debole fascio di luce verso la parte della sagoma che aveva un’aria sfilacciata, lo spettacolo non migliorò molto e si fece, se possibile, pure meno rassicurante di quando aveva illuminato un occhio gigantesco. Perché le cose dall’aria sfilacciata erano tentacoli, lunghi e spessi tentacoli. Sembravano tronchi d’albero fatti di gomma. E... stringevano qualcosa. O almeno qualcosa era impigliato in mezzo ai tentacoli.
Fu più o meno a quel punto che Chloe si allontanò barcollando e vomitò, vinta sia dal fetore che dal pessimo spettacolo. Quando arrivarono le prime persone, la trovarono carponi a piangere, ma non le fece caso quasi nessuno. Tutti gli occhi e tutti i fari erano puntati sulla sagoma arenata.
Subito nessuno parlò, poi tutti parlarono assieme. Vociarono assieme, suoni che si accavallavano, si intrecciavano, sgomitavano e spintonavano in una marmellata acustica da cui nulla di sensato seppe emergere per almeno cinque o sei minuti. Fu allora che arrivò la guardia costiera e a breve il primo di molti messaggi raggiunse il più vicino centro per gli studi oceanici, lo stesso dove aveva lavorato per anni Rupak Duma, prima che fosse l’oceano a studiare e probabilmente vivisezionare lui.
Perché la sagoma spiaggiata apparteneva a un calamaro, un esemplare di quella che era considerata la specie dominante del pianeta, almeno all’interno dell’acqua, ed era il primo esemplare che fosse stato rinvenuto intero, praticamente come nuovo. Morto da poco, con ogni probabilità, anche se dal suo odore poteva sembrare morto da almeno un mese. «Ma è conservato troppo bene perché la sua morte possa risalire a più di venti o trenta ore fa,» commentò un professore, il primo ad arrivare dal centro di ricerche. «Un qualche gioco di correnti deve averlo spinto sulle nostre spiagge prima che un altro predatore marino avesse il tempo di... lavorarselo, diciamo.»
Seguirono poi dichiarazioni varie e assortite sulla grande importanza che il ritrovamento avrebbe di certo avuto per la scienza, con le possibilità che offriva all’uomo per studiare e comprendere come i calamari fossero davvero, dopo che per decenni erano stati costretti ad arrangiarsi con testimonianze indirette e i pochi frammenti incompleti che riuscivano a trovare di tanto in tanto. Con un poco di fortuna, quel ritrovamento avrebbe forse potuto anche aiutarli a capire perché quella specie marina si fosse dimostrata tanto ostile a ogni tentativo di esplorazione compiuto dall’uomo e magari chissà, magari si sarebbe anche potuta dare una risposta alla domanda eterna che tutti si ponevano: «Quei calamari sono davvero una specie intelligente? Hanno formato davvero una società abissale, sui più remoti e irraggiungibili fondali oceanici? Esiste davvero una civiltà dei calamari?» E così via.
Ma era un esemplare maestoso, oltre che fetido: di questo nessuno dei presenti poteva dubitare. Una testa lunga almeno cinque metri, a forma di cono affusolato, con qualcosa simile a un occhio al suo centro e una pelle butterata e ruvida, come una grattugia. Dalla testa pendevano quattordici grossi tentacoli, più un tentacolo centrale di dimensioni minori. Poteva ricordare un calamaro gigante, se si paragonava alle classificazioni terrestri, ma in quel caso sarebbe stato un calamaro gigante gigante. «Ma dobbiamo sempre ricordare che l’uso di termini risalenti alle prime classificazioni terrestri, se è comune nel nostro campo di studi, è anche fallace e spesso fuorviante,» dichiarò poi il professore nella conferenza stampa. «Dobbiamo considerarlo al massimo come una indicazione generale della posizione che una certa specie potrebbe occupare nell’ecosistema del pianeta, ma dobbiamo anche essere pronti ad abbandonare tutta la complessa rete semantica che quella parola porta con sé e che minaccia di tenerci ancorati al vecchio mondo. Sono stampelle, che ci aiutano ad avanzare se siamo in difficoltà, ma non ci devono mai impedire di camminare da soli quando le nostre gambe ne hanno la forza. Come impalcature, le dobbiamo smantellare quando l’edificio è completato.»
Della cosa trovata in mezzo ai tentacoli non volle parlare nessuno e nessuno volle accettarne la sua bizzarra e del tutto casuale somiglianza a un essere umano. Non in pubblico, almeno, e non davanti al pubblico. Potevano farsi venire strane idee, dopotutto. E comunque era una cosa vecchia, non un resto fresco, anzi doveva avere trascorso già molto tempo immerso e l’acqua di mare, si sa, beh, una certa dose di deformazione c’è sempre, non la si può evitare. Potrebbe essere di tutto, davvero.
Chloe Duma visse un breve periodo di fama in quanto scopritrice dell’esemplare, ma poi la bolla di notorietà si sgonfiò da sola, restituendola alla vita di tutti i giorni. A livello pubblico, se non altro. A livello privato, la scena vista in spiaggia era qualcosa che credeva di non potere dimenticare mai e che l’avrebbe segnata per sempre. Il che da un certo punto di vista era vero: come filosofi e derivati ripetevano spesso in quella epoca, un fenomeno A che è entrato in un rapporto col fenomeno B è e resterà sempre diverso da un fenomeno A che non è entrato in rapporto con un fenomeno B, perché il puro instaurarsi di un rapporto tra i due fenomeni cambia non solo i fenomeni stessi, ma l’intera realtà in cui i suddetti fenomeni si trovano a esistere o ad apparire. Il fenomeno-A-relazionato-a-B non è il fenomeno-A-non-relazionato-a-B e allo stesso modo il fenomeno-B-relazionato-ad-A non è né sarà mai identico al fenomeno-B-non-relazionato-ad-A. E così via, fino al completo esaurimento di trattini e ascoltatori. Su un piano molto più pratico e concreto, invece...
Su un piano molto più pratico e concreto, la fama derivata dalla scoperta del calamaro le evitò una robusta sgridata dalla madre e a una certa età è difficile trovare qualcosa di più pratico e concreto di questo. Le valse anche una lunga chiacchierata sul papà, su cosa avrebbe detto e fatto se fosse stato ancora lì: un esemplare completo, praticamente nuovo, e trovato proprio dalla figlia. Cosa avrebbe dato per poterne studiare uno? La mamma non lo sapeva, di preciso, ma di certo molto. Era davvero interessato alla presunta civiltà dei calamari, il papà.
Era anche stato ucciso dalla presunta civiltà dei calamari, il papà. Nessuno lo aveva dichiarato, non alla famiglia, e le cause ufficiali della morte erano registrate come “incidente dovuto a difetto nella struttura del veicolo”, ma le cause ufficiose recitavano un copione diverso. Le cause ufficiose, che nessuno avrebbe mai confermato in pubblico, dicevano che la sua esplorazione della fossa oceanica lo aveva portato a sconfinare nel territorio dei calamari e i calamari avevano reagito come sempre, quando un mezzo umano sconfinava nel loro territorio. Veicolo stritolato e occupante umano... beh, con ogni probabilità era stata una morte rapida. A quelle profondità, poi...
Chloe aveva raccolto quelle voci fuori casa, spesso e malvolentieri quando un gruppetto decideva di insultarla e deriderla per il nome che portava, così poco adatto all’ambiente in cui viveva. Il papà te l’hanno strizzato i calamari, come uno straccio; e varianti sul tema. Avevano fatto male, ma avevano anche fatto bene. Più del silenzio domestico, più della etichetta di disperso. Erano brutte e spietate, quelle parole, ma almeno davano una conclusione a tutto, chiudevano, finivano, definivano e sotto molti aspetti seppellivano la disgrazia. Spianavano il terreno e su un terreno spianato era più facile edificare o ricostruire, più facile produrre qualcosa di nuovo. Chloe non sapeva cosa sarebbe stato il qualcosa di nuovo, ma sapeva che prima o poi ne avrebbe dovuto trovare uno. Prima o poi chiunque ne doveva trovare uno, se non voleva un futuro da relitto alla deriva nel nulla.
Forse lo aveva trovato. Sulla spiaggia, quella notte. Il calamaro gigantesco, che aveva un cadavere umano vecchio e gonfio impigliato tra i tentacoli. Sembrava un terreno su cui solo incubi potevano crescere, ma forse non era così, forse poteva seminarci anche piante migliori, forse si poteva anche aspettare un raccolto migliore. Forse. Ma prima doveva cominciare, se lo voleva scoprire.
Tornò a camminare sulla spiaggia tre giorni dopo la sua scoperta. Poteva sembrare quasi una copia di quella notte, col caldo e gli insetti, l’umidità e il cielo offuscato, ma diverso era tutto il resto. Era diverso l’oceano, soprattutto. Poteva vedere le luci delle navi della guardia costiera, al largo ma non troppo, e le luci verdastre delle navi del centro di ricerca, che anni prima aveva sempre associato al papà, ma che adesso associava solo al centro di ricerca. Sorvegliavano, controllavano, esploravano i fondali e le acque, in cerca di qualcosa, altri segni, altri frammenti della vita abissale. Perché se già una volta le onde avevano sputato qualcosa proprio lì, allora lo avrebbero potuto rifare, giusto? Se i giochi delle correnti avevano portato in secca un calamaro, potevano portarne altri, oppure segni di una presunta civiltà sottomarina. Potevano. Forse. Magari.
Così c’era sempre qualcuno là fuori, giusto per sicurezza, e avrebbe continuato a esserci qualcuno là fuori per altri dieci, venti giorni. Forse di più, forse di meno. Poi sarebbero rientrati, la sorveglianza svanita, l’incidente accantonato come un fortunato incrociarsi di eventi, destinato a non ripetersi; se non, magari, chissà. Ma è meglio non contarci troppo. Era già successo altrove, quando c’erano stati ritrovamenti minori, e sarebbe successo di nuovo anche lì, dove il ritrovamento non era stato minore proprio per niente. Ed era stato suo. Era stato il suo ritrovamento.
Sì, papà ne sarebbe stato orgoglioso, ma papà non c’era più. Aveva anche temuto per un momento o tre che il cadavere tra i tentacoli del calamaro potesse essere suo padre, Rupak Duma, riconsegnato all’abbraccio dei suoi cari con un anno abbondante di ritardo e in condizioni diversamente buone. Si era sbagliata, ovvio, era stata solo un’allucinazione del buio, ma che brutto era stato! Quello, più del fetore, più della paura, più di tutto il resto l’avevano fatta crollare in ginocchio, piangere e vomitare. L’immagine immaginaria del padre trasformato in una sorta di giocattolo per calamari mostruosi.
Ma non era così. Non era reale. Non era accaduto.
A scuola l’avevano trattata bene, per un poco. Perché era diventata famosa ed essere famosi, quando sei al liceo, può far perdonare anche un nome inadatto al tuo gruppo e molte altre cose, almeno per qualche tempo. A volte poi può diventare un boomerang e arrivarti nei denti, quando quei tempi non sono più freschi e la gloria della scoperta è tramontata, lasciando solo l’invidia per il breve posto al sole, ma quel periodo non era ancora arrivato e Chloe Duma non aveva fretta di raggiungerlo. Così si impegnò a tenere la testa bassa, farsi notare il meno possibile e distribuire una fetta di notorietà a chiunque la chiedesse o anche solo mostrasse nei gesti di desiderarla. Che il posto al sole lo godesse qualcun altro. A lei non interessava. Era il posto negli abissi ad attirarla.
Nei pomeriggi si recò più spesso al centro di ricerca oceanico, dove era sempre accolta bene, come figlia di un ex dipendente prestigioso scomparso in circostanze così sfortunate. Le arrivavano anche occhiate di vago fastidio, di tanto in tanto, ma nessuna da quando aveva trovato il calamaro. Poteva essere un buon segno, oppure poteva non significare nulla. Di certo rafforzava la sua posizione nel centro e nessuno le avrebbe più fatto notare (con cortesia, beninteso, sempre con cortesia) che non era proprio il posto più adatto per una liceale e che, se proprio era interessata, se ne sarebbe potuto riparlare fra qualche anno, ai tempi dell’università, eh?
I calamari. Erano davvero così ostili all’uomo, oppure era solo un caso di mancata comprensione? E se davvero erano ostili, che senso poteva avere una ostilità tra una specie che può sopravvivere solo in superficie e una che può sopravvivere solo a profondità enormi? Se anche non potevano o non sapevano andare d’accordo, le due specie si sarebbero potute ignorare tranquillamente, con qualche piccolo aggiustamento qui e là. Ma gli umani continuavano a sondare gli abissi marini e i calamari continuavano a distruggere ogni drone e ogni sonda inviati verso i loro territori. Assurdo. Pure, suo padre vi aveva dedicato la vita, letteralmente, quindi un qualche significato lo doveva possedere.
Lo avrebbe scoperto lei? Forse, più probabilmente no. Le sarebbe però piaciuto provare a cercare le risposte che papà non aveva trovato. O, se anche le aveva trovate (improbabile, ma non si può mai dire), non aveva riportato al mondo di superficie. Anche quello le sembrava che avrebbe contribuito a dare una chiusura al tutto, mettere una pietra sull’intera storia per poter poi proseguire e guardare avanti, superare il passato, cose così.
Fosse come fosse, l’immagine del calamaro non le usciva dalla mente. L’occhio del calamaro, così come le era apparso quando la luce della piccola torcia lo aveva colpito. Le era sembrato quasi che la stesse fissando. Le era anche sembrato un catarifrangente, in effetti, tanto vivo e cosciente quanto il bottone di un vestito, ma era dettaglio irrilevante e lo poteva ignorare, anche e soprattutto perché le guastava la fantasticheria. L’occhio l’aveva fissata e l’aveva... invitata? Ma sì, perché no? Invitata a seguirlo, a esplorare, a.
E lei lo avrebbe seguito. E lei avrebbe esplorato gli abissi. Proprio come suo padre. Sperando anche in un risultato migliore di quello ottenuto da suo padre, se possibile, ma questo appariva secondario. La priorità era andare. Verso il mare, le sue profondità. E un giorno sarebbe andata.
O così amava fantasticare nelle lunghe ore di solitudine notturna.