La galassia di Madre - 96
La prima impressione che Marijn Asanga ebbe del pianeta, una volta uscito dall’ascensore assieme al resto del gruppo, non fu positiva. Ma neanche per sbaglio. L’aria che lo accolse gli ricordava una cantina progettata molto, ma molto male, con abbondanti infiltrazioni di umidità, muffa, magari una fiorente comunità di ragni sviluppata negli angoli e sul soffitto, più ogni altra immagine negativa si potesse immaginare al momento. C’era anche un vago retrogusto di biblioteca antica, con aerazione scarsa o nulla e libri disfatti che si decomponevano allegramente sugli scaffali. Si sarebbe aspettato qualcosa di meglio, dopo giorni e giorni e ancora giorni passati a respirare soltanto aria riciclata e inscatolata, prima sulla nave, poi sulla stazione, infine chiusi nella cabina dell’ascensore. Invece, adesso gli toccava quella orribile puzza di sigillato e vecchio.
Ma l’odore lo avrebbe anche potuto accettare. Shtoma, città in cui aveva vissuto e studiato per anni su Agni e a cui sarebbe ritornato al termine della missione, non si poteva certo definire profumata, non quando il vento soffiava da sud e portava tutti gli olezzi del lago: effluvi balsamici e forieri di salute e benessere secondo la pubblicità; miasmi ributtanti secondo lui. Il problema era un altro. Era il paesaggio urbano, distesa in apparenza senza fine di edifici uguali, grigi, squadrati, stessa altezza e stesso tutto. Uscivi dalla stazione, trovavi una piazza con una specie di monumento deforme al centro (o almeno quello che Marijn sospettava essere un monumento: era orrendo e insensato, non si capiva da che parte guardarlo e che cosa dovesse rappresentare, quindi era chiaramente artistico), poi sollevavi gli occhi ed ecco una muraglia di scatole, scatole e ancora scatole, forse di cemento o forse di un materiale simile a sufficienza da non fare differenza. Come prodotte da un bambino che gioca sulla spiaggia con le formine, stampando mucchietti di sabbia scura uno uguale all’altro.
Ma non avevano avuto molto tempo per guardarsi attorno, all’arrivo. Una squadra di militari aveva accolto la delegazione agniana, ossia loro, con tanta cortesia e scarsa simpatia; erano saliti su alcuni veicoli di superficie, avevano viaggiato verso quella che sembrava un quartiere di periferia (ma che poteva anche essere centro città: gli urbanisti non dovevano essersi sprecati molto nel progettare le varie zone, che dai finestrini non si potevano neppure distinguere le une dalle altre), quindi i soldati li avevano invitati a scendere davanti all’ennesimo edificio a scatolone. Quello sarebbe stato il loro alloggio, per tutta la loro permanenza sul pianeta. C’erano state poi spiegazioni su come si sarebbe organizzata la loro vita, a che ora sarebbero venuti a prelevarli ogni mattina per trasportarli al luogo in cui era conservata la pietra, chi vi avrebbero trovato, i responsabili terrestri con cui avrebbero poi dovuto discutere per stabilire come suddividere i lavori di studio, eccetera eccetera. Marijn Asanga li aveva ascoltati con mezzo orecchio, dalla sua posizione isolata in fondo al gruppo, poi non aveva ascoltato più, lasciandosi avvolgere e sommergere dalla marea di parole. Era sembrata soltanto una perdita di tempo. Quasi sicuramente era solo una perdita di tempo.
La stanza che gli avevano assegnato era una singola, e non lo aveva sorpreso. Da un certo punto di vista lo avrebbe dovuto considerare un privilegio, perché la maggior parte dei colleghi era sistemata in camere doppie, ma da un altro e più profondo punto di vista era stata la conferma finale, se mai ci fosse stato davvero qualche dubbio. Ma non c’era mai stato, non per lui. Solo uno stupido avrebbe avuto ancora dubbi, dopo l’ultimo periodo al centro studi di Shtoma e specialmente dopo il viaggio, in cui tutti lo avevano trattato come zavorra, quando erano di buon umore. Quando non lo erano non lo avevano trattato e basta. Ignorato. La direttrice Macawili poteva anche aver deciso di sprecare un prezioso posto nel gruppo per regalarlo a quell’idiota, ma loro, studiosi veri, non avrebbero sprecato neppure un mezzo neurone avariato per pensare a lui.
Non lo avevano fatto. Durante il viaggio Marijn li aveva osservati chiacchierare, li aveva ascoltati discutere, a volte con entusiasmo e a volte quasi litigando, li aveva visti affrettarsi qui e là, anche se di affrettarsi non c’era motivo, né c’erano luoghi verso cui affrettarsi. Li aveva studiati mangiare dal suo posto d’angolo, dove se voleva un qualche condimento se lo doveva andare a prendere da solo, perché nessuno glielo avrebbe passato. Aveva dovuto sentire le loro vanterie su cosa avrebbero fatto e scoperto, una volta arrivati su Madre. Infine, nel suo loculo di cabina solitaria, si era chiesto come potessero quei presunti studiosi e intellettuali comportarsi come bambini delle elementari che non gli stavano più amici e poi guardarsi allo specchio, pettinarsi, radersi e sentirsi orgogliosi di ciò che facevano. Miracoli dell’invecchiare senza crescere, probabilmente. Dopotutto, lui se ne intendeva. Si era comportato proprio come loro fino a non molto tempo prima. Fino al discorso in mensa.
La nuova pietra trovata su Madre l’avevano vista per la prima volta il giorno successivo all’arrivo. I militari li avevano prelevati di primo mattino, per trasportarli verso quello che sarebbe stato il luogo di lavoro: una specie di capannone molto evoluto ai margini della città, pochi altri edifici su un lato e grandi spazi vuoti su tutti gli altri, interrotti solo da strade in apparenza deserte che si perdevano in lontananza, verso un orizzonte piatto e spoglio, colorato solo dal verde sbiadito dei campi e forse di un qualche tipo di coltura locale. Marijn non lo sapeva, né gli interessava. Gli interessava solo la pietra e di quella si era riempito gli occhi, metaforicamente, quando li avevano fatti entrare.
Era posata su un piedistallo, al centro di una stanza sgombra di arredamento ma ricca di umanità. Le luci puntavano sulla protagonista unica e indiscussa del luogo, recintata da un basso cordone, e tutti i suoi sacerdoti le si affollavano attorno, adesso rivolti verso i nuovi arrivati, espressioni tronfie e un poco benevolenti da genitori orgogliosi o mariti che mostrano una moglie-trofeo da esposizione agli amici e conoscenti, per nutrirsi della loro invidia. Marijn aveva seguito da lontano, da dietro, ultima fila, angolino in cui andare in castigo. Ma la pietra era grande a sufficienza e in fondo non cambiava molto: primo o ultimo, l’aveva vista e l’avrebbe vista ancora per chissà quanti giorni futuri.
Era come l’avevano descritta e mostrata i dati e i modelli, ma dal vivo si presentava anche meglio. Come la sua gemella agniana, anche la pietra di Madre poteva ricordare molto alla lontana un cubo di Rubik che un bambino annoiato aveva abbandonato a metà di una rotazione. O a metà di molte, e su piani diversi. Stesse dimensioni, stesso modo in cui rifletteva la luce, stesso colore. Ma diversa la sua età, diverso il suo stato di conservazione. La pietra di Madre era più vecchia, lo capivi anche al primo sguardo. Era consumata, smussata, in parte erosa: forse per le differenza nella composizione del terreno in cui era rimasta sepolta per alcuni milioni di anni, forse per gli agenti atmosferici che l’avevano intaccata prima della sepoltura, forse chissà cosa. Era uno dei tanti fattori che avrebbero dovuto studiare e, se possibile, spiegare. Il loro gruppo di Agni, assieme ai colleghi di Madre.
Ma non erano stati accolti molto bene, quel primo giorno. I grandi capi si erano appartati a discutere e deliberare chissà cosa, il professor Dmitrenko, quel ciccione del professor Phan Thanh Chu e altri ancora, assieme a quelli che probabilmente erano i loro emuli madriani. Il grosso di entrambi gli schieramenti era rimasto nella stanza, attorno alla pietra. Qualche presentazione timida, parole qui e là scambiate, occhiate indirette, commenti vaghi e non impegnativi. Nessuno si era sforzato più di tanto per rompere il ghiaccio, anche perché a nessuno sembrava interessare molto. Marijn Asanga si era tenuto ai margini per precauzione, aveva guardato la pietra e pensato a quanto sarebbe stato meglio, almeno per lui, se anche Francis fosse stato lì. Ma non c’era. Non lo avevano selezionato.
La prima giornata si era conclusa con un incontro congiunto, in cui i capi reali o autoproclamati dei due gruppi avevano presentato agli altri il programma di lavoro, come sarebbero stati distribuiti gli incarichi, come si sarebbe svolta la cooperazione, eccetera eccetera. Gli agniani avevano portato in dote tutti i dati sulla loro pietra, i madriani aveva ricambiato con dati e modelli più recenti sulla loro pietra, c’erano state altre discussioni, discorsi, blablabla, la palla è finita andate in pace. Quel primo contatto sarebbe dovuto servire a familiarizzare, per favorire una mescolanza delle varie conoscenze e competenze, sotto la benevola supervisione della D’Antona, la grande capa che si era presentata in prima persona e aveva parlato di fronte ai ricercatori riuniti. La sola faccia che Marijn avesse saputo riconoscere, per averla vista più e più volte in notiziari e registrazioni della Società Interplanetaria di Archeologia, un carrozzone di dubbia utilità che teoricamente riuniva e coordinava le attività sui vari pianeti. Non che ce ne fossero molte, all’esterno di Madre e Agni, ma in apparenza i carrozzoni ci devono sempre essere, per distribuire poltrone, coccarde e gonfiare le teste.
Quante altre civiltà intelligenti si erano evolute ed erano scomparse nella galassia, lasciando magari anche qualche segno del proprio passaggio? Questa era la domanda a cui la Società avrebbe dovuto rispondere. In teoria. Non se n’era mai avvertito il bisogno, prima che su Madre fossero scoperte le tracce di una civiltà aliena, soprattutto perché sugli altri pianeti colonizzati non avevano trovato una sola traccia di civiltà aliene, intelligenti o meno. Solo vegetali, animali, vita generica. Ma la civiltà? Ritenta, sarai più fortunato. Marijn rifletteva che una parte del problema era la domanda stessa. e la chiarezza nulla con cui definiva certi termini. Che cosa si intendeva per civiltà? E per intelligente?
Agni era un pianeta su cui l’evoluzione non sembrava essersi impegnata molto. Abitabile, certo, e in parte abitato. No, togli pure “in parte”: abitato e basta. Nessuna delle forme di vita animale, però, si era dedicata a costruire qualcosa, in apparenza, per cui in una prospettiva archeologica non avevano rilevanza: se non avevano lasciato rovine, allora non c’erano state civiltà intelligenti. Ma una traccia l’avevano trovata, forse, ed era la pietra, almeno se abbracciavi la teoria sulla sua origine artificiale. Poi nuove analisi avevano mostrato come la pietra fosse composta dallo stesso tipo di materiale con cui erano state edificate le rovine su Madre. Quindi non era una testimonianza di una forma di vita intelligente prodotta dal pianeta, ma una testimonianza (parimenti preziosa, se non di più) di viaggi interstellari compiuti da un’altra civiltà intelligente. Agni era tornato a essere un pianeta incapace in apparenza di produrre civiltà autonome, ma soltanto un luogo di transito per civiltà straniere. Prima i misteriosi alieni di Madre, adesso gli umani di origine terrestre.
Era proprio così? Marijn Asanga vi aveva pensato parecchio, durante il viaggio, anche perché non aveva avuto altro da fare. Per quanto ne sapevano loro, su Agni potevano essersi sviluppate decine di civiltà intelligenti (termine infelice! Come se l’intelligenza fosse proprietà di entità astratte come le civiltà, invece che dei singoli esseri viventi che le componevano), ma nessuno dei loro manufatti era sopravvissuto abbastanza a lungo da arrivare fino ai parvenus terrestri. Gli insetti di Svarga, per esempio, sembravano intelligenti e sembravano anche avere formato una loro civiltà, oppure tante, a seconda delle specie; sapevano anche costruire edifici, o almeno nidi, ma nessuna delle loro opere sarebbe mai sopravvissuta per più di qualche decennio. Questo significava che su Svarga non c’era traccia di civiltà intelligenti? Da una prospettiva strettamente archeologica, sì.
E i calamari di Varuna? Marijn non ne sapeva nulla, d’accordo, ma molti exologi sostenevano che fossero intelligenti e possedessero una civiltà, oltre a una discreta dose di cattivo umore. Dicevano anche che quei calamari possedessero un qualche tipo di tecnologia primitiva, perché sui fondali di diverse aree esistevano strutture che sembravano edifici, se le osservavi con una mentalità aperta a sufficienza da esibirti in perfette spaccate. A questo, Marijn credeva poco, perché non gli sembrava possibile sviluppare una tecnologia seria in fondo al mare: alla base di quasi tutta la tecnologia c’era il fuoco, no? E come lo accendi il fuoco a due o tremila metri sott’acqua? Pure, che quei calamari di Varuna fossero intelligenti e civilizzati (a modo loro), Marijn lo poteva anche accettare. Per adesso.
Ma il punto era un altro e magari prima o poi avrebbe scoperto quale fosse. Non quel primo giorno, però. Dopo il discorso della D’Antona, dopo i discorsi dei capi autoeletti della delegazione agniana e i discorsi degli ospiti madriani (tutti terrestri, naturalmente), dopo gli aggiornamenti sulle ultime scoperte (nessuna) e le ultime ipotesi (parecchie) sulla pietra, di tempo per riflettere e cercare punti non ne restava proprio. Marijn Asanga si era sentito il cervello ridotto a gelatina, una gelatina molto ma molto annoiata. Noia! L’ultimo sentimento che si sarebbe aspettato di provare in quell’avventura su Madre, ma puoi sempre confidare negli esseri umani quando si tratta di rendere noiosa anche la cosa più importante e interessante della tua vita. L’uomo produce noia come le api producono miele. O giù di lì. Ma sarebbe andata meglio nei giorni seguenti, di questo era sicuro.
Da un certo punto di vista fu così. Madriani e agniani non si erano mescolati molto (eufemismo) e tendevano a far gruppo ciascuno per sé, il che contraddiceva l’idea stessa alla base del progetto, una cooperazione e collaborazione tra gli specialisti di due pianeti. Che poi però non sembravano volere collaborare e cooperare. Così si mescolarono un poco i gruppi, inserendo agniani in mezzo ai gruppi di madriani e viceversa. Sonja D’Antona aveva scosso la testa e alzato le spalle, sospirando qualche commento su bambini dell’asilo e su asini da tirare per le orecchie. Come risultato si era avuto sì un certo grado di collaborazione, ma un grado ancora superiore di mugugni. Non da parte di Marijn.
Nessun agniano voleva lavorare con lui. Nessun agniano voleva anche solo riconoscere la presenza dell’ospite indesiderato. Probabilmente progettavano di impedirgli di combinare una qualsiasi cosa, per poter poi rinfacciare alla direttrice Macawili la sua scelta sbagliata, che aveva sprecato un posto prezioso per un incapace che non aveva saputo produrre uno straccio di ricerca. Se quella era l’idea, a proporla e attuarla doveva essere stato di sicuro il professor Dmitrenko, il suo ex idolo caduto ora molto, ma molto in basso, più o meno dalle parti delle fogne. La sua unica speranza di trovare aiuto e sostegno veniva dunque da una possibile collaborazione coi terrestri.
La proposta di Sonja D’Antona, mescolare i ricercatori dei due gruppi, fu la soluzione che Marijn cercava. In teoria. In pratica fu un trentenne arrivato da poco dalla Terra, che rispondeva al nome di Bodil Emereck (ma solo quando qualcuno lo chiamava a voce alta) e non era proprio la proverbiale ultima ruota del carro tra gli studiosi madriani della pietra. Era la ruota di scorta. Era anche un tizio col fisico da lampione, alto e secco, spalle strette, testa curiosamente grossa, accentuata dai capelli ricci e non proprio pettinati. «Sono certo che faremo un ottimo lavoro assieme,» si era presentato, e Marijn si era dichiarato d’accordo. Soprattutto per mancanza di alternative.
Adesso pioveva, sedevano in un ufficio che sarebbe sembrato stretto anche come sgabuzzino per le scope, bevevano un liquido che poteva fare funzione di caffè per chiunque non possedesse né gusto né olfatto, meditavano sulle magnifiche sorti e progressive dell’umanità e soprattutto tentavano alla meno peggio di stilare un programma di studi, in base al quale avrebbero ottenuto risorse (forse) e magari anche qualche secondo da spendere con la pietra reale, invece che con una sua elaborazione più o meno fedele e accurata, nonché molto virtuale. Il problema, o almeno uno dei problemi, era la quasi totale assenza di idee. E stimoli. E più o meno tutto il resto.
«Il problema è che qui è molto diverso da come me lo aspettavo,» spiegò Marijn Asanga, anche se il collega non gli aveva ancora chiesto alcuna spiegazione. «Come impostazione e tutto, capisci? Nel nostro centro studi, su Agni, non dobbiamo presentare un progetto prima, ma ci sono chiesti soltanto i risultati e sulla base dei risultati ci valutano. Quando ci valutano,» aggiunse per onestà.
«Su Agni avete una intera istituzione o qualcosa del genere dedicata alla vostra pietra, da quello che ho sentito dire,» rispose Bodil Emereck. «E avete un pianeta molto più sviluppato. Avete più fondi. Avete più tutto. Qui siamo su una colonia ancora in formazione, troppe cose da fare, poca gente per farle, pochissimi fondi, energia da conservare perché non ci basta mai. Non è proprio la legge della giungla, ma non siamo neppure troppo lontani. Chi è più forte si pappa più soldi e chi ha gli agganci migliori se ne pappa ancora di più. Agganci in alto, dico.»
«Sì, beh, ho capito, ma mi pare che gli archeologi siano messi bene, no?»
Bodil sospirò. «Gli archeologi. Quelli che lavorano alle rovine. Quelli che stanno su, dalle parti del vecchio ascensore. Loro sono la specie dominante, almeno tra i non militari. Noi siamo soltanto una loro sottospecie e non dominiamo neanche i nostri gabinetti. Per adesso, poi in futuro chi lo sa. È un settore creato da poco, quello della pietra, e non ci prendono ancora molto sul serio. Più una specie di discarica che altro, se la vuoi mettere così.»
Marijn non la voleva proprio mettere così o in altri modi, ma annuiva. Annuiva perché era il gesto che il collega si aspettava da lui, non perché capisse davvero. «Quindi dici che è per questo che non hanno fatto tante storie per accettare la nostra richiesta, mentre alle rovine aliene i non terrestri li fanno accedere col contagocce, quando sono fortunati?»
«Io non dico niente, non ne ho proprio idea. Sono qui da poco, volevo studiare anch’io le rovine, ma al momento non c’erano posti liberi e così mi hanno dirottato nella sezione della pietra. Anche per i terrestri ci sono selezioni, sai. Non sono dure come per quelli dei mondi coloniali, senza dubbio, ma ci sono lo stesso. Io non devo averle passate. Novellino e pure scarso: sono proprio un fenomeno.»
Marijn Asanga sorrise. «Oh beh, per questo non ti preoccupare. Avrai visto come mi trattano quelli che dovrebbero essere i miei compagni, no? Il gruppo di Agni. Gli altri.»
«Non ti parlano mai molto, almeno non quando li vedo io.»
«Non mi parlano mai molto e basta. Sono le pecora nera, sai? Non dovevano neppure selezionarmi per il viaggio, almeno secondo loro. Invece mi hanno selezionato, ma agli altri non va bene, io non sono al loro livello, figuriamoci, e così fanno finta che io non ci sia. Se tu per i tuoi sei novellino e scarso, io per i miei non sono proprio. Vedi tu.»
«Ma come mai? Cosa è successo? Se... se tu ne puoi parlare, ovvio,» aggiunse Bodil.
Ne poteva parlare e Marijn Asanga ne parlò. Non perché lui ne avesse davvero voglia o perché quel collega che gli avevano assegnato gli fosse davvero simpatico (ma lo poteva diventare, a occhio, in un futuro forse non troppo lontano), ma perché tanto pareva che per quel pomeriggio non avrebbero combinato alcunché di produttivo. Fu una storia piuttosto lunga e moderatamente oggettiva, almeno per quanto lo possa essere una storia raccontata dal punto di vista di chi l’ha vissuta. Ci furono due pause per rifornirsi di pseudocaffè e una per scaricarsi dalle conseguenze fisiologiche di un eccesso di pseudocaffè, mentre fuori la pioggia continuava e dentro il lavoro latitava. Alla fine Bodil cercò di allungarsi all’indietro per distendere la schiena, sbatté le mani contro il muro, rinunciò, si sistemò meglio sulla sedia, fingendo di non aver mai sbattuto le mani contro il muro.
«Così tu sei convinto che la pietra sia di origine naturale,» disse infine.
«Ero convinto. Poi ho fatto la figura da scemo davanti a tutto il centro studi, quello che era il mio gruppo mi ha cacciato via come se avessi la peste, ho dovuto fare un lungo esame di coscienza e... beh, adesso non lo so. È una delle cose che vorrei scoprire, ripartendo da zero.»
«Capisco. E il capo del gruppo in cui eri, quello della origine naturale, sarebbe il tizio basso, con la faccia di uno a cui ha appena cagato in testa un piccione, giusto? Quello vestito sempre di grigio.»
«Il professor Dmitrenko, sì. Quello che adesso fa finta che io non esista neppure.»
«E lui è ancora convinto che la pietra sia di origine naturale? Anzi, le pietre, la vostra e la nostra?»
Marijn Asanga scrollò le spalle. «Forse. Può darsi. Se lo pensava davvero e non lo diceva soltanto per litigare e sentirsi migliore degli altri. Prima che ci fossero le selezioni ha fatto diversi discorsi in cui predicava di accantonare le divergenze, seppellire le opinioni personali, affrontare il problema a mente aperta, pronti ad accettare anche e soprattutto ciò che riteniamo inaccettabile e così via. Tutte le solite palle retoriche sul bene supremo della scienza, eccetera. Sai com’è.»
«Sì, ma cosa significa di preciso? Ci crede o non ci crede?»
«Secondo me c’è stato un tempo in cui credeva davvero che la pietra fosse naturale. Poi non so, può avere cambiato idea, ma se è così ha continuato a dirlo per non ammettere di essersi sbagliato. Così, quando avete scoperto una nuova pietra qui su Madre e ha visto che l’altro gruppo diventava sempre più forte, e dico quello che sostenevano l’origine artificiale, allora probabilmente ha cominciato coi discorsi sulla mente aperta e così via, per pararsi il culo in ogni caso. Se risulterà che entrambe sono artificiali, puoi stare certo che dichiarerà in anticipo di avere cambiato idea e che sosteneva l’origine naturale soltanto per stimolare il dialogo e la ricerca, o qualche palla del genere. Se invece le pietre saranno entrambe naturali, allora lui l’aveva detto fin dall’inizio, ma un vero scienziato deve sempre essere aperto a ogni ipotesi e testarne la solidità prima di rifiutarla. O quello che è.»
«Hai una bella opinione del tuo colleghi,» sorrise Bodil Emereck.
«Non è una mia opinione. È il risultato di molti esperimenti. Potrai verificarlo tu stesso.»
«Immagino di sì. A ogni modo, le pietre sono artificiali. Non so la vostra, non l’ho mai vista, ma la nostra sì. Qui nessuno lo ha mai messo in dubbio. Ma proprio nessuno. Neanche per scherzo.»
«Il fatto che nessuno abbia mai messo in dubbio una cosa non implica necessariamente che la cosa sia vera, ma solo che nessuno l’ha mai messa in dubbio.»
«Sì, ok, la puoi mettere così, se vuoi, ma è artificiale davvero. E non lo dico io, per carità: lo dicono quelli che hanno studiato anche le rovine aliene. Quelli che le studiano ogni giorno. Sono stati loro i primi a esaminare la pietra e l’hanno dichiarata subito artificiale. Non hanno idea di cosa sia o a che cosa servirebbe, però, e questo lo dovremmo scoprire noi, in teoria, ma che la pietra sia artificiale... Come dire che i pianeti ruotano attorno ai soli e non i soli attorno ai pianeti.»
«E hanno presentato anche qualche prova concreta per sostenerlo? Oppure lo dicono soltanto perché se lo sentono, usando, chessò, qualche percezione speciale o quello che è?»
Bodil Emereck ci pensò per un poco. «A dire il vero non mi ricordo una qualche prova concreta. Lo dicono loro e nessuno lo ha messo in discussione, per quanto ne so. Potrebbe essercene una, non sto dicendo che non ci sia. Dico solo che al momento non me ne vengono in mente.»
Marijn Asanga si protese sopra allo stretto tavolino verso il collega, il naso da tucano puntato contro la faccia altrui, lancia di uno sgangherato cavaliere di ventura. «Direi che abbiamo trovato il nostro progetto, eh? Se non ci sono prove certe, le cercheremo noi. E se non le troveremo... allora saremo noi a smentire questa ipotesi. Perché senza prove sarebbe solo una ipotesi, poggiata sul nulla.»
«Non penso che un progetto come questo ci varrà molti fondi. Anzi, non penso che ci varrà neppure un centesimo falso. Diranno tutti che vogliamo dimostrare l’ovvio.»
Marijn si esibì in un sorriso quasi perfetto da faina. «Ma è davvero così ovvio, se non ci sono prove a sostegno? Se è solo una sensazione o una impressione di qualche archeologo, è davvero ovvio?»
«Lo è stato abbastanza a lungo per convincere più o meno tutti, da queste parti.»
«Ma non convince me. Quindi, se queste prove davvero non esistono, il nostro progetto sarà mettere in discussione l’ovvio. Per provarlo o sprovarlo, chi lo sa, ma metterlo in discussione.»
Bodil Emereck non era certo che sprovarlo fosse una parola corretta, almeno non nelle parlate a lui note, ma in fondo tutti i pianeti sviluppavano dialetti e linguaggi particolari, così si astenne dal fare il pedante. Si astenne soprattutto perché la proposta possedeva un certo suo fascino. Tutti su Madre sapevano che la pietra era di origine artificiale, o almeno tutti quelli a cui interessava qualcosa della pietra, ma perché lo pensavano? Su quali basi? Esistevano basi? Oppure era soltanto una specie di convinzione generale, un “è così perché tutti sanno che è così”?
«Potrebbe esserci qualcosa di buono nella proposta,» disse, non del tutto convinto ma avviato nella direzione giusta. «Prima però dovremmo controllare che non ci siano davvero prove.»
Marijn Asanga era d’accordo. Avrebbero controllato. Forse c’erano e forse non c’erano, ma qualche cosa gli suggeriva che non le avrebbero trovate. Chiamatelo sospetto, chiamatela intuizione, ma non le avrebbero trovate. Quindi le avrebbero dovute cercare loro, sul campo. Se c’erano davvero. Per lui non era così importante che la pietra fosse o non fosse artificiale. Probabilmente lo era, ma non era quello il punto. Il punto era cercare. Verificare. Non accontentarsi. Non accettare la pappa pronta e precotta. Lo aveva stabilito con Francis, vero? Abbandonare tutte le opinioni e ripartire da zero, a poco a poco, verificando con cura ogni passo. Adesso lo poteva mettere in pratica.
Non erano stati raccolti o prodotti ancora molti documenti sulla pietra di Madre, ma nel corso dei giorni successivi li esaminarono tutti: li spulciarono di persona, senza accontentarsi dei risultati di ricerche più o meno mirate. Alla fine della ricerca, una cosa almeno fu chiara: se prove sulla origine artificiale esistevano davvero, nessuno le aveva registrate. Da nessuna parte accessibile a loro.
«Dici che potremmo discutere con uno degli archeologi che l’hanno esaminata per primi?» chiese Marijn Asanga. «Uno di quelli che l’hanno dichiarata artificiale, se possibile. Sarebbe di aiuto.»
«Dico che potremmo anche tentare di inoltrare una richiesta, ma dico anche che la probabilità di un incontro sarà molto, molto bassa,» rispose Bodil Emereck. «Anche noi siamo archeologi, almeno in teoria, ma come ho detto siamo molto, molto in basso sulla scala sociale della categoria. Quelli che stanno ai piani alti non ci guardano quasi mai.»
«Ma quasi mai è diverso da mai. Facciamo lo stesso un tentativo, no? Cosa ci costa?»
Già, cosa costava? E soprattutto, cosa avevano da perdere? Lui ben poco: era archeologo ed era su Madre, vero, ma nessuno lo considerava, nessuno lo prendeva sul serio, quasi tutti lo ritenevano una palla al piede quando andava bene. E quello Asanga sosteneva di essere una specie di paria dentro il gruppo di Agni. Più in basso di così non si poteva finire, giusto? Bodil Emereck alzò le spalle. «Si può provare, sì. Non costa nulla e non produrrà nulla, ma provare si può.»
Provarono e qualcosa ottennero. Non fu rapido e altri giorni di nulla scorsero via, nell’attesa di una risposta. Sbocconcellarono un poco il progetto che stavano elaborando, ma c’era poco che potessero fare, a parte cercare di sistemarlo al meglio e presentarlo nella forma più convincente possibile. Uno studio vero e proprio aveva bisogno di permessi da ottenere e per ottenere i permessi dovevi perdere altro tempo in attese varie, cane che insegue la propria coda e non la raggiunge mai. Si recarono nel mentre a osservare il luogo del ritrovamento, un cantiere interrotto a metà dei lavori, che non pareva in procinto di essere riaperto, ma anche lì c’era ben poco da vedere: la buca da cui avevano rimosso la pietra, ormai trasformata in voragine da cedimenti del terreno e piogge, edifici costruiti in parte e abbandonati del tutto, macchinari coperti con cura, impalcature che avrebbero avuto bisogno di una buona dose di manutenzione. E basta. Quello era il punto di partenza di tutto ed era uno zero.
«Dopo che un gruppo di operai ha trovato la pietra, archeologi e militari hanno frugato per un po’ di tempo, ma non ne è uscito altro,» spiegò Bodil. «Così alla fine hanno chiuso tutto e lo è rimasto.»
«Speravo in qualcosa di più, ma in fondo me lo aspettavo,» disse Marijn. «Quando mai qualcosa mi va bene al primo colpo? Di solito non lo fa neppure al centesimo...»
Ma qualcosa era andato bene, dopotutto, perché la richiesta di parlare con uno dei primi archeologi che avevano esaminato la pietra era stata accolta. Avrebbero ottenuto poco tempo e solo un contatto a distanza, ma era un primo passo, un grande passo, ed era soprattutto meglio di niente. O così i due decisero di pensarla. «Magari potremmo anche arrivare a qualcosa,» commentò Bodil Emereck.
L’archeologa con cui poterono parlare era Loubna Bahgat, una donna di media altezza sui cinquanta o dintorni, capelli corti e neri e una espressione da governante severa che terrorizza i poveri piccoli bambini indifesi in una storia strappalacrime ambientata tra diciannovesimo e ventesimo secolo. Se qualcuno l’avesse presentata come un sergente istruttore, Marijn ci avrebbe creduto, ma si presentò come archeologa e Bodil confermò.
«Non l’avevo mai vista di persona, ma è famosa nell’ambiente,» spiegò sottovoce. «Di solito lavora agli scavi presso il vecchio ascensore. Abbiamo pescato parecchio in alto.»
E forse era vero, ma forse era anche vero che non avevano pescato molto bene. Se Marijn Asanga si era aspettato risposte e spiegazioni scientifiche, e poiché se l’era aspettate, ciò che ricevette al loro posto fu una bella delusione. Ma anche un buon punto di partenza, da un altro punto di vista, perché le parole della Bahgat suggerivano che sì, c’era spazio per il loro progetto e sì, li poteva portare sul serio a qualche risultato interessante, magari anche importante.
«No, non abbiamo raccolto alcuna prova per le nostre affermazioni,» disse Loubna Bahgat. «Non ce n’era bisogno, vedete? Non per chi, come noi, spende la maggior parte delle proprie giornate tra le rovine lasciate dalla civiltà che ha abitato questo pianeta prima di noi. Non per chi tocca con mano i suoi resti, giorno dopo giorno, e ci vive in mezzo, li respira, li assimila. Uno sguardo alla pietra è la sola cosa necessaria, per noi. È come riconoscere la propria faccia in uno specchio, vedete?»
Marijn non vedeva molto e non apprezzava ciò che vedeva. Suonava mistico. Suonava una patacca. Suonava come una balla ad usum delphini. Ma lui non era un delfino, né altro mammifero marino. Era un umano, ossia uno scimpanzé glabro, d’accordo, e secondo alcuni possedeva anche parecchi tucani tra i propri antenati, ma delfini no, delfini non ce n’erano. «Quindi ci sta dicendo che il tocco della pietra le ha trasmesso vibrazioni psichiche uguali a quelle delle rovine?» le chiese sorridente.
Loubna Bahgat non sorrise in risposta. «Sto dicendo che non vi è alcuna necessità di provare che la pietra e le altre rovine sono state prodotte da una stessa civiltà, proprio come non c’è alcun bisogno di provare che la faccia che lei vede nello specchio è un riflesso di quella che porta in giro sul lato anteriore della sua testa. La identità di pietra e rovine è evidente, vedete?»
«Questo lo afferma lei, ma la mia domanda è: come può esserne così certa? Soltanto sulla base della sua osservazione? Non avete esaminato la pietra? Non avete...»
Loubna Bahgat lo interruppe e si lanciò in una lunga, accorata e soprattutto noiosa spiegazione del suo particolare metodo di accertamento della origine della pietra, che era poi lo stesso metodo usato dai suoi colleghi. Identità di materiali, stile, lavorazione, eccetera eccetera. «Ma se e poiché non vi siete mai trovati in presenza di entrambe, la pietra e le rovine, è ovvio che non potete capire. Per chi come me ha avuto questa esperienza, invece, non c’è davvero alcun bisogno di spiegare il perché la loro origine sia la stessa. Come dicevo, è di per sé evidente, vedete?»
E siccome era di per sé evidente, in apparenza nessuno si era preoccupato di provare la loro identità, o registrare i dati su cui questa identità si basava. Marijn Asanga tentò ancora qualche volta di farle pervenire il suo punto, ossia che anche l’ovvio (o quel che lei proclamava ovvio) aveva pur sempre bisogno di una qualche giustificazione oggettiva, ma fallì. Obiezioni rispedite al mittente, perché il destinatario non era stato reperito. Si arrese.
Chiuso il colloquio (per un dato valore di colloquio) Marijn rimase in silenzio a fissare una parete della stanza, non perché vi fosse qualcosa di bello da vedere, ma solo perché era proprio di fronte a lui. Dopo un poco si girò verso Bodil. «Allora, sei convinto che ci sia qualcosa su cui lavorare o ritieni che la fantastica spiegazione della nostra inimitabile, irraggiungibile archeologa di gran lusso abbia chiarito ogni dubbio?» gli chiese, con una smorfia che poteva essere un mezzo sorriso.
Il collega si strinse nelle spalle. «Una occhiata la possiamo dare, male non farà. Non so se potremo cavarne qualcosa di buono per un progetto, ma una spiegazione verificabile e oggettiva sarebbe una buona cosa. Anche se mi piacerebbe molto di più sapere cosa sia quella pietra.»
«Piacerebbe anche a me. Una parte di una struttura più ampia? Un monumento? Una formazione del tutto naturale e accidentale? Qualcos’altro ancora? Studiandone davvero l’origine e determinandone davvero la natura artificiale o meno, senza tirare fuori sensazioni o “cose che sono evidenti”, magari riusciremo anche a scoprire qualche indizio sul cosa sia.»
Bodil Emereck lo fissò negli occhi. «Ne sei davvero convinto?»
«No,» ammise Marijn. «Ma vale la pena di tentare, no? Anche perché non ho altre idee.»
E poiché nessuno dei due aveva altre idee, migliori o peggiori, decisero di procedere con quel loro progetto: provare a documentare l’origine artificiale (o naturale, nel caso) della pietra. Decisero poi che qualcosa c’era da fare anche per il problema degli insetti, che avevano già punto Marijn Asanga almeno tre volte da quando era sul pianeta e in tutti e tre i casi erano state punture dolorose, ma per quello Bodil non sembrava molto ottimista. «È una piaga che abbiamo avuto tutti, chi più chi meno. Ti ci dovrai abituare e basta. Pungono molto appena arrivi, ma poi smettono. Deve essere qualcosa nell’odore degli estranei che li attira, non so. Puoi chiedere a uno exologo, se vuoi?»
«Penso che per il momento non richiederò il parere di altri vostri esperti, grazie. Mi accontenterei di un buon insetticida, se per te fa lo stesso.»
«Niente insetticida, purtroppo. Sono forme di vita tutelate.»
Marijn sospirò. Era gratificante scoprire che in quel posto persino le zanzare avevano più diritti di te ed erano trattate meglio. Che poi non fossero proprio zanzare, ma insetti locali che ne occupavano la stessa nicchia ecologica, non cambiava molto. Si strofinò un bozzo dietro il collo, testimonianza ancora calda e quasi fumante dell’ultima puntura. Proprio una bella esperienza quella spedizione su Madre. Da raccomandare agli amici, soprattutto se li vuoi perdere. Oh beh, poteva andare peggio. E con ogni probabilità lo sarebbe andata. Ma aveva un collega, aveva un progetto a cui lavorare, una pietra da studiare e se non era proprio il migliore dei mondi possibili, era comunque il mondo in cui si trovava a vivere e si sarebbe dovuto accontentare.
E chissà, magari alla fine avrebbe ottenuto anche qualcosa. Magari avrebbe dato un senso a quel suo viaggio su Madre. Magari. E con l’aiuto di Bodil, cominciò a stendere un dettagliato piano di lavoro per l’immediato futuro. Avrebbe dimostrato a tutti quello che lui valeva.
Sperando che la risposta non fosse zero.