La galassia di Madre - 97
Quando il giorno giunse, Matteo Kori lo accolse con una tranquillità da colite nella metropolitana, nonché alzandosi il più tardi possibile e con la massima lentezza che gli altri gli concessero, che era meno di quanta avrebbe desiderato lui, ma più di quanta meritava. Secondo l’impiegato del Teatro di Oklahoma, molestato più e più e ancora più volte durante le due settimane circa dal loro arrivo su Madre, gli ex colleghi di Davide dovevano essere finalmente disponibili. Rientrati la sera prima, o forse la notte prima, ma in ogni caso rientrati dal lavoro fuori città. Davvero. Rientreranno domani, non è necessario che ce lo venga a chiedere di nuovo. Domani. Sì. Il giorno dopo oggi. Se ci dorme sopra, vedrà che arriverà in un attimo.
Domani era oggi, ma oggi Matteo scopriva di non sentirsi pronto a incontrarli. O meglio, si sentiva pronto a incontrarli, prima o poi, e chiedere loro ogni cosa su Davide, la sua vita da colono, dettagli che potessero aiutarlo a capire qualcosa di più sulla scomparsa, varie ed eventuali. Era pronto. Anzi, era entusiasta. Se solo ci fosse stato qualche giorno in più per prepararsi e pensarci bene, magari...
Ma i giorni in più non c’erano. Il gruppo di cui aveva fatto parte Davide era rientrato, più avanti lo avrebbero forse spedito da qualche altra parte, Davide era stato dichiarato ufficialmente disperso e i compagni di permanenza su Madre cominciavano a essere un poco irrequieti, perché erano lì ormai da giorni e ancora non avevano combinato alcunché, a parte vagare a vuoto in una città che soltanto i visitatori più magnanimi avrebbero potuto descrivere come passabile. Tutto ciò non corrispondeva proprio ai loro obiettivi dichiarati. Indira in particolare stava reagendo male al clima di perpetua attesa senza scopo. Male per usare un eufemismo.
«Ma non riesci proprio a pensare a niente di utile da fare, mentre aspettiamo che questi famosi tizi ritornino a casa?» gli chiedeva almeno una volta al giorno. Matteo non sapeva come rispondere, ma di solito provvedeva Sharma, cambiando argomento, inserendo uno dei suoi commenti comprensivi, proponendo qualcosa per la giornata. Non che fossero mai grandi proposte, perché da quelle parti di grandi cose da fare non ce n’erano, almeno per turisti e variazioni sul tema, ma erano appunto cose da fare e fare qualcosa sembrava distrarre Indira. Per un poco. E il tempo passava.
Adesso erano arrivati, quei famosi ex colleghi di Davide, e lui li avrebbe dovuti incontrare. Giusto il giorno prima l’impiegato del Teatro gli aveva confermato per la quarta volta che sì, li avrebbe potuti incontrare e sì, avrebbe potuto parlare con loro del disperso, e gli aveva indicato dove trovarli, e un orario di massima, e lo aveva salutato, poi lo aveva salutato di nuovo, perché Matteo non sembrava avere intenzione di andarsene e l’impiegato aveva rimpianto con forza, ma nel segreto della propria testa, che quel rompiscatole fosse nato e che fosse stato proprio il fratello di quel rompiscatole ad andarsi a perdere e che si fosse andato a perdere proprio su quel pianeta. Poi finalmente Matteo era uscito dall’ufficio e l’impiegato aveva respirato di nuovo, contemplando l’infinita vanità del tutto e le morte stagioni e la presente, nonché la possibilità che pure quel tizio si perdesse come il fratello. Magari in un tritacarne. Di testa. O di palle, già che c’era.
Ma ancora Matteo non si era perso. Fisicamente. Mentalmente si era smarrito da tempo e tuttora era in cerca di se stesso, ma soprattutto di un buon modo per avvicinare gli ex colleghi di Davide. Prima di tutto si doveva ricordare che loro non lo conoscevano come Davide, ma con quel nome falso che aveva usato lì, come si chiamava, aspetta, Bruno? Bruno Kitzis? Qualcosa del genere. E poi di certo non poteva spiegare tutto, no? Tipo la storia di quegli pseudoterroristi o quello che erano. Quindi si sarebbe dovuto regolare, decidere con cura una versione della storia, presentarla serio serio, e chissà che razza di tipi erano quelli, se erano tutti stupidi come gli amici che Davide aveva avuto a casa, il suo caro Amir e compagnia disperata, allora chissà che discussione sarebbe uscita, forse era meglio magari se prima invece avesse...
«Davvero, è sempre un piacere stare a tavola con te. È come avere uno scopino del gabinetto sulla sedia. A cosa stai pensando adesso? Il modo migliore per nasconderti sotto al letto e non incontrarli, tanto per cambiare? O un modo per mandarci noi al tuo posto, mentre tu mediti sull’infinito e lasci che altri ti tolgano i batuffoli dall’ombelico? È oggi il giorno, no?»
La voce di Indira lo riportò al presente, fatto di una colazione dal sapore indescrivibile, perché non avevano ancora inventato aggettivi adatti a riassumere certi alimenti, e tre paia di occhi puntati nella sua direzione. Matteo rispose fissando un punto a caso sulla tavola e mugugnando senza impegno.
«Potresti ripetere in un linguaggio che sia comprensibile anche a noi mortali?» disse Indira.
«Ho detto che stavo pensando a come presentarmi, sai. Ai colleghi di mio fratello. Non penso sia un buon momento per spiegare tutto quanto, cioè, voglio dire, sono suo fratello, no?, e sono venuto qui per sapere qualcosa di più, insomma, è sparito, così, sapere come viveva qui, e...»
«Questo sarebbe il linguaggio comprensibile anche a noi? Te lo chiedo così, per pura curiosità.»
«È che non è facile da spiegare, voglio dire, neanche li conosco, chissà che tipi sono, e poi...»
«Allora vuoi davvero che veniamo anche noi e ti teniamo per mano mentre ti presenti?» Indira lo fissava adesso col suo miglior sguardo di compatimento verso un povero imbecille che si impegna, ma proprio non ci arriva e non è colpa sua, dovete capirlo. Uno sguardo che aveva esercitato più e più volte dal loro arrivo su Madre, con crescente fastidio da parte di Matteo, che però non aveva mai protestato, temendo le possibili repliche.
Non lo fece neppure quella volta. «Non è necessario che veniate anche voi. Mi arrangio da solo. Lo sapete che mi so arrangiare da solo,» aggiunse. Pessima mossa, come realizzò un secondo e mezzo dopo aver parlato, ma ormai era troppo tardi e le parole non le poteva richiamare alla casa madre, né per verifiche né per sostituzioni. Non le puoi quasi mai richiamare alla casa madre, una volta dette.
Andarono tutti assieme, ma non lo tennero per mano. Sharma lo intrattenne e lo ammorbò durante il viaggio con un florilegio di suoi saggi consigli da mamma chioccia ipocondriaca, su come si doveva presentare ai colleghi del fratello, cosa dire, come comportarsi, l’importanza della sincerità a fronte del bisogno saltuario di cautelarsi con innocue bugie per il proprio bene, eccetera eccetera. Indira si accontentava di fissarli annoiata, di tanto in tanto scuotendo la testa e commentando a modo proprio le idee dell’amico. Mei osservava il paesaggio e non parlava.
Non era un gran paesaggio, ma nessun paesaggio lo era da quelle parti. Col tempo, magari la città si sarebbe sviluppata davvero, diventando un centro vivo e vivace, allegro e artistico, come quasi tutte le capitali degli altri mondi coloniali, ma quel tempo era molto, molto lontano. In fondo, quanti anni aveva Oklahoma City, centro di Madre per mancanza di alternative? Venticinque al massimo, se li si contava partendo dai primi moduli abitativi. In venticinque anni, e su un pianeta che era la versione extralarge di una lettiera da gatti mai pulita, non è che si potesse combinare molto. Le strade erano a scacchiera, secondo la migliore tradizione delle colonie, e gli isolati possedevano una razionalità nel modo in cui i vari pezzi erano stati combinati. Il problema era che i vari pezzi erano tutti identici.
L’edificio che avevano raggiunto adesso era il consueto scatolone verticale, affiancato da scatoloni verticali. All’ufficio del Teatro lo avevano descritto come la zona residenziale per coloni arrivati da poco o sprovvisti di alloggi stabili. Poteva anche esserlo. Da fuori, ricordava un incrocio triste tra le colonie per bambini di epoca pre-spaziale e un carcere di massima sicurezza. Mancavano soltanto le recinzioni e il filo spinato, nonché eventuali guardie sulle torrette. E anche le torrette, in effetti, ma lo spirito di quei luoghi di depressione era stato mantenuto e se possibile potenziato.
«Affascinante, proprio,» commentò Indira. «Anche questo è un fantastico esempio di stile rustico e storico, secondo la migliore tradizione coloniale dei tempi eroici?»
«A modo suo la trovo una forma di architettura storica,» rispose Sharma, riuscendo quasi a suonare convincente anche a se stesso. «Testimonia il bisogno di protezione insito nell’uomo, e rafforzato da un ambiente a lui ancora ignoto e da cui si sente minacciato. È un modo per... per sentirsi al sicuro e rafforzare i legami interni al gruppo, a fronte di un esterno inospitale. Sì, direi che è così.»
Entrarono. Matteo si presentò al portinaio o al facente funzione di, spiegò il motivo della visita, con una occhiata rapida agli amici rimasti un poco indietro, spiegò di chi fosse il fratello, lo spiegò una seconda volta perché aveva sbagliato il nome, mostrò le credenziali che gli avevano fornito obtorto collo sia l’ambasciata che l’ufficio del Teatro, infine si scomodò su una panca, perché accomodarsi era una impossibilità anatomica. «Ha detto che ieri sera sono rientrati tardi e sono ancora nelle loro camere, ma quando scenderanno me lo farà sapere,» spiegò agli altri. Anche se non c’era bisogno di spiegarlo, perché avevano seguito la scena in diretta e sentito già tutto. Aspettarono.
«Sharma, dici davvero che anche Lakshmi era così, agli inizi della colonizzazione?» chiese Mei. Si continuava a guardare attorno, con gli occhi di un animaletto peloso sorpreso dai fari di un’auto.
«Beh, magari non proprio così, perché la nostra colonizzazione si è svolta in modo un poco diverso, ma Svarga era quasi sicuramente così, agli inizi,» rispose Sharma. «O forse anche peggio, se tutte le voci sono vere. Su Svarga la situazione era stata un poco più... tesa, ecco.»
«Hanno usato le prime infornate di coloni come cavie umane per testare la commestibilità di flora e fauna locale, oltre a infettività dei germi e così via,» disse Indira. «Lo consideravano il sistema più economico e veloce, pare. Stimolavano anche i coloni a riprodursi il più spesso possibile, per avere sempre cavie fresche a disposizione. Nelle classiche storie horror, Svarga agli inizi è descritto come una specie di via di mezzo tra un lager e un ospedale degli orrori, con un poco di mattatoio buttato a fare numero nel mucchio. Affascinante, eh?»
«Sono storie e non è detto che siano vere,» disse Sharma. Indira scrollò le spalle e non rispose.
Matteo neppure ascoltava. Aspettava e si agitava in perfetta solitudine mentale, stimolato solo dalle sue fantasie e una vaga forma strisciante di panico sociale, che non era proprio panico sociale vero, ma stava facendo un ottimo lavoro nel simularlo. Immaginando come sarebbero stati i colleghi, o ex colleghi, di Davide, si preoccupava come se non ci fosse un domani. Di tanto in tanto un gruppetto di persone passava oltre la portineria e usciva, spesso in abiti da lavoro manuale di basso livello, ma non erano le persone che stavano attendendo loro. Forse. Il portinaio non diceva nulla, quindi non lo dovevano essere, giusto? Pure, Matteo si preoccupava e attendeva.
Poi uscì un gruppo abbastanza giovane, il portinaio disse loro qualcosa, puntò un dito verso Matteo e gli altri lakshmiti che sedevano nell’atrio, rispose a una domanda, alzò le spalle, quindi gesticolò a indicare che non erano fatti suoi, che si arrangiassero loro e buon divertimento. Ancora non del tutto sicuro di cosa stesse accadendo, e con la certezza che comunque non lo sarebbe stato mai, Matteo si alzò e mosse due passi verso di loro. Poi si fermò, li guardò meglio e dimenticò tutto il discorso che si era preparato. Si era preparato un discorso? Forse, può darsi, ma adesso non lo ricordava più.
I coloni erano sei. Davanti a tutti c’era un tizio alto e magro, con una barbetta che sembrava tagliata alla cieca da un monco e una specie di cespuglio di capelli castano chiaro. A Matteo ricordava uno di quegli aspiranti artisti che si vedevano anche a Varshi, ma l’esemplare davanti a lui pareva reduce da un brutto incidente con un camion carico di rifiuti. Accanto aveva una ragazza che pareva invece uscita da una università, pelle scura e capelli corti: li stava osservando con la curiosità di chi guarda una cultura di batteri attraverso un microscopio. Matteo distolse in fretta lo sguardo, a disagio. Alle loro spalle c’era una coppia alquanto bizzarra: un ragazzo che poteva avere grossomodo la sua età e una capigliatura in rapida estinzione, più un altro tizio che invece esibiva una cresta dal colore non ben definibile, ma forse verde. Chiudevano un tizio basso e ampio, faccia butterata, e una ragazza.
La seconda ragazza era decisamente l’esemplare più interessante, o così gli sembrò al momento. Di altezza media, forse un poco più giovane di lui (ma Matteo non avrebbe saputo datare correttamente neanche una confezione di yogurt al supermercato, per cui preferì mantenersi sul vago circa l’età), i capelli di un colore che forse era un vago biondo o forse una tonalità più scura di cui non conosceva il nome, lisci, media lunghezza, più altri dettagli anatomici che l’abbigliamento purtroppo tendeva a nascondere, ma che promettevano di essere interessanti, almeno secondo la sua fantasia. Se soltanto si fosse girata un poco e magari il demente con la cresta si fosse spostato da davanti...
Matteo continuò a fissarla per un tempo che doveva essere troppo lungo, anche se a lui non sembrò, perché alla fine il tizio alto a magro si schiarì rumorosamente la gola e si fermò proprio di fronte a lui, oscurandogli del tutto la visuale. «Sei tu quello che ci cerca?» chiese.
Matteo decise che il tizio non gli piaceva. Quindi doveva certo essere un amico di Davide, perché gli amici di Davide non gli erano mai piaciuti. «Stavo aspettando i colleghi, o gli ex colleghi, di mio fratello. Volevo parlare con loro. Mio fratello è scomparso qui. Cioè, non proprio qui nel senso di in questo alloggio, ma qui nel senso di su questo pianeta. Ecco.»
Il tizio alto e magro non sembrò reagire in alcun modo, ma continuò a fissarlo con una indifferenza quasi ovina. «E tuo fratello sarebbe?» chiese poi.
«Da-Bruno. Bruno Kitzis. Era, è più giovane di me, ma non mi somiglia molto. Dicono.» Matteo si maledisse in silenzio ma con discreta volgarità. Aveva passato ore a pensarci, prepararsi, studiare la sua presentazione o almeno la prima battuta, e tutto solo per sbagliare la sillaba iniziale! Tanto per cambiare, insomma. Suo fratello si era presentato come Bruno, non come Davide, quindi lo doveva chiamare Bruno, Bruno, Bruno. E ancora Bruno, già che era nelle spese.
Il tizio alto e magro non cambiò espressione. «Sei il fratello di Bruno? Maggiore, suppongo. Ma hai ragione, non gli assomigli molto. Non di faccia, almeno. E come ti chiameresti?»
«Matteo K... Matteo. Sono suo fratello Matteo. Sì.» Di nuovo si maledisse. Prima il nome, adesso il cognome. Si impegnava davvero a fondo per sbagliare tutto lo sbagliabile, eh? Poteva quasi sentire lo sguardo di Indira sulla nuca e le risate di sbeffeggiamento che forse stava trattenendo. O forse no. Probabilmente no. Si grattò la testa di riflesso.
Il tizio alto e magro si girò verso i colleghi. «Ci aveva mai parlato di un fratello?» chiese, poi si girò di nuovo verso Matteo, senza aspettare una risposta. «Io non me lo ricordo, ma chissenefrega, no? Quindi sei suo fratello Matteo? Piacere di conoscerti. Io sono Sebastian Hahn.» E allungò la mano.
Matteo la strinse con poca convinzione e poca forza. «Eravate nel suo gruppo, dunque? I colleghi? Sono arrivato qui un paio di settimane fa, dopo aver saputo della sua scomparsa, e volevo sapere un poco di più, non so, per capirci qualcosa. Parlare con chi gli era vicino, insomma,» spiegò, il tono di chi non conosce la risposta giusta e spara a caso, sperando che un cenno dal professore lo indirizzi a breve sulla retta via. Ammesso che ce ne sia una. E sperando che non sia la via del retto. «Se magari poteste dirmi qualcosa voi, non so, un qualcosa in più di quello che mi ha detto l’ambasciata, che in effetti è quasi niente, perciò...»
Sebastian scrollò le spalle. «Siamo appena rientrati in città e per oggi non abbiamo niente altro da fare. Se ci lasci il tempo di fare colazione, possiamo parlarne quanto vuoi. Non che abbiamo molto da dirti sulla sua scomparsa, se è quel che vuoi sapere. Non ci abbiamo capito niente neanche noi.»
Matteo lasciò loro il tempo di fare colazione. I sei coloni uscirono, con solo una occhiata verso quel misterioso fratello del loro ex collega, e il gruppo di Lakshmi rimase nell’atrio dell’edificio, sempre squallido e sempre triste, ma adesso anche senza una vera ragione per restarvi. «Che si fa?» chiese Indira. «Li dobbiamo proprio aspettare qui dentro o possiamo andare da qualche altra parte?»
«Ehm, non so, non ho chiesto,» rispose Matteo.
«Sì, lo so, ce ne siamo accorti che non hai chiesto. Nel caso tu non te ne fossi accorto, l’intera scena si è svolta davanti a noi, a meno di due metri di distanza. Sarebbe stato piuttosto difficile non sentire quello che vi siete detti. Abbiamo anche potuto tutti ammirare la fantastica figura che hai fatto. Dire che sei un fenomeno non rende neppure l’idea, guarda. Sei un attore nato, caro il mio signor Matteo K Matteo, fratello maggiore di Dabruno Kitzis.»
Come molto spesso gli accadeva in casi simili, Matteo scelse di avvalersi della solita facoltà di non rispondere. Virò invece verso orizzonti più sicuri. «Direi che possiamo aspettare da queste parti, per stare sul sicuro, e poi magari andremo da qualche altra parte quando saranno tornati. Loro ci vivono da anni, qui. Magari conoscono qualche posto migliore.»
«Sono certa che conosceranno parecchio posti peggiori, ma restiamo pure qui, se non ci cacceranno via a pedate. Tanto non abbiamo niente di meglio da fare, no?»
Rimasero lì ad aspettare, sotto lo sguardo non amichevole ma neppure troppo ostile del portinaio o facente funzione di. Trascorse almeno una mezz’ora, tendente ai venti secoli, prima che il gruppo di coloni tornasse. E tornò un gruppo dimezzato: se l’avanguardia era sempre il tizio alto e magro che si era presentato come Sebastian Hahn, a seguirlo adesso c’erano solo le due ragazze. Matteo non se ne lamentò, soprattutto perché si era aspettato che a sparire sarebbero state proprio loro due, in linea con la sua fortuna consueta. Si alzò e andò loro incontro, seguito stavolta dai compagni.
«Volete restare a parlare qui o ce ne andiamo da qualche altra parte?» chiese Sebastian.
«Beh, noi ne abbiamo parlato un poco e pensavano che, forse, magari si...» cominciò Matteo, ma lo interruppe Indira. «Da qualche altra parte. Conoscete un posto più decente?» disse.
Sebastian sorrise. «Beh, decente non saprei, dipende dai vostri metri di giudizio, ma migliore di qui sì. C’è un locale che conosco io qui vicino, che secondo me sarebbe perfetto,» disse. Matteo genette in silenzio. Una frase da Chakra come poche altre e quando qualcosa gli ricordava Chakra, beh, non poteva mai concludersi bene, almeno per lui. Ma andarono: così aveva deciso la maggioranza.
Sebastian li guidò, parlando con le sue due colleghe e con Sharma e Indira, che avevano spodestato Matteo e smaltito la pratica delle presentazioni. Adesso si stavano addentrando nella magica palude delle chiacchiere di sottofondo, scambi di pareri, opinioni, storielle e altro con cui gruppi di ominidi su ogni pianeta riempiono il tempo in compagnia, aspettando il momento giusto per dedicarsi agli argomenti veri della discussione. Matteo e Mei seguivano a fondo gruppo, scambiando pensieri ma soprattutto silenzi inespressi. La città attorno a loro era avvolta da un fascino di depressione.
Brandelli di notizie filtravano dalle prime fila. Le due ragazze assieme a Sebastian si presentarono come Tunde e Selina: la prima era quella coi capelli lisci e biondicci e aveva lasciato la Terra subito dopo il liceo, mentre l’altra aveva abbandonato a metà gli studi universitari, per motivi non chiari o almeno su cui non si era soffermata. Ancora non era stato assegnato loro un lavoro stabile, ma erano spedite qui e là a seconda delle necessità del momento. Condizione comune più o meno a tutto quel gruppo, a sentirle, e dovuta in parte ai problemi che si erano verificati con loro. Problemi di cui non vollero parlare, al momento. Matteo sperava che ne avrebbero parlato dopo, perché magari avevano qualcosa a che fare con la scomparsa di Davide, ma non si espresse. Esprimersi sembrava per lui un processo pericoloso: per qualche motivo, diceva o faceva sempre qualcosa di stupido.
Il suo umore improntato al pessimismo vittimista non migliorò quando raggiunsero il localino in cui avrebbero dovuto parlare e che, secondo Sebastian, doveva essere un posto perfetto. Secondo invece il modesto parere di Matteo, era un posto in cui non avrebbe portato neppure un cane a fare i propri bisogni, ma di nuovo evitò commenti. Era un locale piccolo, in penombra, quasi deserto, e odorava a tratti di cose su cui il naso rifiutava di concentrarsi, perché gli facevano troppo schifo. Se quello corrispondeva alla concezione madriana di “posto più decente”, allora rimpiangeva i gusti di Chakra in materia. Per quanto depravati, i locali che visitava lui possedevano almeno un certo fascino.
Sedettero, ordinarono, bevvero. Ci furono ancora chiacchiere di riscaldamento tra Indira, Sharma e i tre coloni, mentre il gruppo si sistemava, scavava la propria tana, si adattava e, nel caso di Matteo, si impegnava a nascondere lo schifo per il posto in cui era finito. Poi Sebastian posò il bicchiere, si raddrizzò, sbatté una mano sul tavolo e cominciarono a fare sul serio. «Dunque, tu volevi sapere un po’ di storie su tuo fratello Bruno, giusto?» disse. «Sotto con le domande, forza.»
Matteo si raddrizzò a propria volta, poi si accorse di non avere alcun motivo per raddrizzarsi, anzi si vergognava parecchio di quella sua improvvisa posa da galletto, con tutte le figure da pollo che già aveva fatto, e si sgonfiò di nuovo. «Beh, intanto potreste raccontarmi come lo avete conosciuto, no, e quando, e come vi è sembrato. Tutto quello che ha fatto mentre era qui, insomma. Per quanto ne sapete voi, ovvio,» disse infine. «Se vi va, ecco. Non voglio insistere.»
I tre coloni di Madre si guardarono tra loro, poi cominciarono a raccontare, poco alla volta, a turno e con soste ai box per rifornirsi di bevande. Sebastian e Tunde parlarono del viaggio dalla Terra, di come si erano incontrati. Erano un gruppo di quattro, all’inizio, quattro giovani che partivano quasi alla ventura (anzi, togli pure il “quasi”) verso un nuovo mondo, letteralmente, senza sapere cosa vi avrebbero trovato, ma sapendo da cosa stavano scappando. O credendo di saperlo, che non è proprio la stessa cosa, anche se spesso non fa molta differenza per chi scappa.
Erano quattro, all’inizio, e i due mancanti erano i due scomparsi, Bruno e Olaf. Tra loro, Olaf era il più vecchio e più maturo, anche se si trattava solo di un anno o due di differenza. Aveva legato con Bruno ed erano sempre assieme. Erano anche spariti assieme, alla fine. Matteo fece molte domande su questa misteriosa persona con cui Davide avrebbe legato e i coloni aggiunsero un dettaglio dopo l’altro, arricchendo il ritratto, definendolo, rendendolo quasi tridimensionale. Poteva quasi vedere la figura di quella specie di orso umano nordeuropeo, che sarebbe stato un tutore del fratello, e non era una figura che coincidesse con l’idea che lui si era fatto. Non sembrava avere un qualche legame col gruppo di pseudoterroristi di cui Davide aveva fatto parte; sembrava semmai lo stereotipo classico del gigante scemo, bonaccione e diversamente sveglio.
Arrivati su Madre, c’era stato poi il primo periodo di addestramento presso il Teatro, al termine del quale Olaf era stato scelto come loro responsabile. «Non proprio una cima e poco adatto a prendere decisioni in fretta,» spiegò Sebastian, «Ma non era un problema, perché ci pensavano altri. Lui però si sapeva fare ascoltare e aiutava sempre. Ci credeva davvero nel ruolo, non so se capisci, e lui se le prendeva tutte le responsabilità. E anche qualche punizione, quando sbagliavamo qualcosa.»
Matteo non era sicuro di capire, ma non gli interessava. Si era aggiunta anche Selina ai narratori, ad aumentare gli aneddoti e la confusione di tempi e filoni di storie. Il quadro che ne usciva, almeno in base a quanto Matteo ne sapeva ricostruire, era piuttosto semplice: lavoro duro e schifoso, ok, ma la compagnia era buona, il capogruppo sempre pronto a farsi il mazzo per gli altri, non proprio vita in armonia e arcadia idillica, ma insomma poteva andare peggio. Buon per Davide, per carità, ma aver aspettato tanto per ricavare così poco... Deludente, sì. Sperava in qualcosa di più.
«Ma, voglio dire, ok, andavate d’accordo e così via, ho capito, ma Da-Bruno non ha mai detto a voi o altri qualcosa di particolare, di strano, non so? Ha mai fatto qualcosa di strano?» chiese. «Se sono spariti tutti e due, e poiché sono spariti tutti e due, qualcosa dovrà essere successo, no? Non avevate mai avuto, chessò, qualche indizio, prima? Qualche... qualche qualcosa?»
Ci fu un intervallo di silenzio, interrotto solo da un insetto che ronzava attorno a loro. «Beh, Bruno era spesso malato, ma non so se c’entri qualcosa,» disse infine Tunde. «Non sembrava andare molto d’accordo col posto. Una volta lo pungeva un insetto e gli faceva reazione, un’altra volta prendeva una qualche malattia, oppure una intossicazione alimentare... Ne aveva sempre una, insomma.»
Il che non coincideva col Davide che lui aveva conosciuto a casa, ma per quanto ne sapeva non tutti gli organismi reagivano allo stesso modo in ecosistemi diversi. Non tutti reagivano bene, e se poi ci si trovava su un pianeta arretrato come Madre, beh, qualche accidente te lo dovevi aspettare. Scrollò le spalle, incerto. «Sì, ok, ma non penso che c’entri qualcosa con la sua scomparsa, a meno che tutti e due non siano all’improvviso...» cominciò, ma Tunde lo interruppe.
«C’era anche quella volta che si era messo a delirare su vostro padre, mentre eravamo al cantiere.»
Matteo inchiodò e fece marcia indietro. «Come, scusa?»
«Dicevo, c’era anche quella volta che si era messo a delirare su vostro padre,» ripeté Tunde, per poi raccontare in dettaglio l’episodio, o almeno tanto in dettaglio quanto lo ricordava. Che in effetti non era molto, ma contribuirono anche Selina e Sebastian, aggiungendo manciate delle proprie memorie e insaporendo così un piatto dal sapore molto, molto strano per il palato di Matteo.
«Comunque non ne ha mai più parlato, almeno con noi,» concluse Tunde. «Non so se abbia detto a Olaf qualcosa d’altro, ma a me era sembrato solo un delirio da febbre. Perché aveva la febbre, sai.»
Matteo rimase in silenzio a contemplare il vuoto. Doveva essere un delirio, perché non aveva senso. Loro padre su Madre? Pozzi giganteschi? Passino i pozzi, quelli li poteva anche giustificare con una prospettiva esagerata o palle varie, magari una leggenda dei coloni cresciuta troppo, ma Ercole Cori su Madre? No. No. E ancora no. C’erano limiti anche alle scemenze che il cervello umano si poteva ingoiare e quella li superava tutti, di slancio. Li superava rimbalzando sulla testa.
Matteo non sapeva molto sul conto del padre. Quanti anni aveva avuto lui, quando quell’idiota era sparito? Due, tre, qualcosa del genere. Ma la mamma con lui ne aveva parlato, qualche volta, anche se mai con Davide, e da come ne aveva parlato lei Ercole Cori, poi Kori, non era il tipo che partiva verso la scoperta di mondi ignoti e selvaggi. Semmai, era il tipo che scappava da debiti assai noti e selvaggi, se possibile in piena notte e senza lasciare un recapito. Così aveva fatto, in effetti. Da dove usciva la storia di un Ercole esploratore, dunque? Dai deliri febbricitanti di Davide? Quella era la sola spiegazione, ma era strana. Molto strana.
«Vostro padre è sparito quando tu eri ancora piccolo, giusto?» disse Sharma. «O almeno è così che ci hai raccontato. È sparito e da allora non si è più fatto sentire.»
«Quando io ero bambino e quando Da-Bruno non era ancora nato, sì,» confermò Matteo. «E non so da dove mio fratello avrebbe raccolto queste storie. La mamma non ne parlava mai con lui.»
«Con te invece ne parlava?» chiese Selina.
«Con me invece se ne lamentava, più che altro. Mai quando c’era mio fratello attorno, però. Non è strano, a ogni modo: quando c’era da lamentarsi con qualcuno e rompergli le palle, ero sempre io il suo favorito. Hah! Sai che culo,» concluse, scuotendo la testa e fissando il tavolo.
«Tu invece non fai favoritismi e ti lagni con chiunque capiti, lo sappiamo,» disse Indira. «Piuttosto, è davvero così importante questa storia dei deliri? Non potrebbero essere, appunto, deliri e basta?»
«Ma sì, probabilmente sì,» rispose Matteo. «Non lo so neanche io cosa sia importante e cosa no. Lo sto cercando di capire tirando alla cieca, ma...» Allargò le braccia, gesticolando a caso. «Neppure so da che parte cercarlo. Voglio dire, speravo, non so, che Da-Bruno avesse combinato qualcosa di un poco interessante da queste parti, che magari ci fosse un indizio, una traccia, un suggerimento.»
«Scusa un attimo,» intervenne Sebastian. «Ma perché ogni tanto lo chiami Dabruno?»
Indira sbuffò una risata. «Perché è un idiota. Non lo hai ancora notato?»
Sebastian la guardò senza capire, poi si rivolse a Matteo. «Scusa, cosa significherebbe?»
Matteo sospirò. «Significa che per una volta le devo dare ragione, sono un idiota. Ma forse è meglio così, chi lo sa. Mio fratello si chiama Davide, Davide Kori, Bruno Kitzis era un nome falso. Non so se sia una buona idea parlarne subito, volevo prima capirci di più su ciò che mio fratello era venuto a fare qui su Madre, ammesso che sia venuto a fare qualcosa, ma... Beh, è andata così. Io dunque sono Matteo Kori, non Kitzis come probabilmente avevate pensato. Piacere di conoscervi.» Allungò la mano sopra il tavolo, ma nessuno la strinse. Ricevette però una buona dose di occhiate perplesse.
«Forse è meglio se ci spieghi tu tutto dall’inizio,» disse Selina. Matteo obbedì.
Partì dalla sua decisione di andare a studiare su Lakshmi, che fu accolta nella più totale indifferenza dei tre coloni, saltò poi al giorno in cui i funzionari dell’ambasciata terrestre lo avevano contattato a Nuova Kalighat, quando aveva scoperto che Davide era fuggito su Madre sotto falso nome, quindi il capitolo finale, quando sempre l’ambasciata terrestre lo aveva informato della scomparsa di Davide. Non fu una storia lunga e Matteo ne tagliò il più possibile, dopo aver verificato che ai tre ascoltatori non poteva fregare di meno dei suoi dettagli autobiografici, seghe mentali e derivati. Sharma poi si aggiunse per integrare la parte della convocazione a Gayat e pochi altri elementi persi per strada.
Alla fine Sebastian Hahn lo fissò a lungo, strofinandosi la barbetta. «Fammi ricapitolare,» disse poi. «Per vedere se ho capito bene. Quello che noi conoscevamo come Bruno, in realtà si chiama Davide ed è fuggito su Madre perché sulla Terra si era messo nei guai con questi...»
«Isolazionisti,» completò Matteo. «O un nome del genere, non penso sia importante.»
Sebastian sventolò una mano. «Isolazionisti o quello che sono, ok. È fuggito su Madre, si è unito a noi, ci ha raccontato balle per più di due anni e non ha fatto neppure un gran lavoro con la sua falsa identità, perché lo sapevano persino nell’ambasciata terrestre su un altro pianeta, ma lasciamo stare, sospetto che sia una questione genetica. Comunque, era quasi sempre in coppia con Olaf e adesso ci sono spariti tutti e due, assieme, dopo avere dichiarato che... cos’è che avevano detto di preciso?»
«Che volevano fare una spedizione per esplorare i dintorni, credo,» rispose Tunde. «Non mi ricordo la frase esatta, ma era qualcosa del genere. Erano stati piuttosto vaghi tutti e due, in effetti, ma non è che ci avevo fatto caso, al momento. Bruno, o Davide, adesso dovremo imparare a chiamarlo così, era sempre piuttosto vago e Olaf era... Olaf.» Alzò le spalle.
«Avevano parlato di una qualche esplorazione e ci avrebbero raggiunti il giorno dopo,» disse Selina. «Ma anche io non ho chiesto molti dettagli, perché sembrava una cosa loro.»
«E alla fine sono spariti tutti e due,» riprese Sebastian. «Anzi, dispersi, perché mi pare che ormai li abbiano riconosciuti ufficialmente come dispersi.»
«Cinque giorni fa, sì,» disse Matteo.
«Quello che è. Il punto è che sono spariti. Pensi che avessero un qualche giro assieme? Anche Olaf un membro di quel gruppo di imbecilli sotto falso nome? Fuggiti assieme per una qualche missione o beccati dai militari mentre cercavano di fare qualcosa?»
Matteo alzò le spalle. «È quello che mi piacerebbe sapere. Speravo che voi sapeste qualcosa in più, visto che eravate suoi colleghi, e magari mi potevate dire qualcosa anche sul tizio sparito assieme a lui, ma...» Alzò di nuovo le spalle.
«Ma ne sapevamo anche meno di te, visto che noi non sapevamo neppure che tuo fratello, il nostro Bruno, in realtà ci avesse raccontato solo balle, a cominciare dal nome. Bella storia, davvero.»
Il silenzio che avvolse il tavolo fu piacevole come una ragnatela in faccia. Di spazio per parlare ce n’era in abbondanza, ma nessuno sapeva come riempirlo, di cosa parlare, così improvvisarono varie esibizioni sul tema del giocherellare coi bicchieri, fissare il vuoto con espressione di profonda, vana saggezza, esaminarsi le dita per scoprire se fossero cambiate durante gli ultimi minuti, più ogni altro gesto che gli esemplari di homo sapiens sono solito compiere, quando non sanno che fare e sono in compagnia di altri esemplari di homo sapiens che a propria volta non sanno che fare.
Fu Indira a riavviare la situazione. «Bene, allora adesso che si fa?» chiese. «Ci sono altre cose di cui discutere? Matteo hai altre domande da fare? Altre storie da raccontare su tuo fratello? C’è qualcosa che hai intenzione di dimenticarti adesso, per lamentarti quando ognuno se ne sarà già andato per la propria strada? Parla adesso o taci per sempre, giusto?»
«Mah, non so,» bofonchiò Matteo.
Indira scosse la testa. «Non sa mai. È sempre così, tutto il giorno e tutti i giorni. Pure suo fratello si comportava come lui o il prodotto difettoso ce lo siamo pigliati proprio noi? Ditemi che non ce lo siamo pigliati proprio noi, per favore.»
Tunde sorrise. «No, beh, Bruno, Davide era piuttosto diverso, anche se a volte aveva una tendenza a starsene da parte e osservare. Pensavo fosse solo un poco riservato, si sa, ognuno ha il suo carattere, ma a quanto pare aveva anche ragioni migliori per starsene da parte e osservare. Aveva paura di dire troppo e strangolarsi in mezzo alle balle, probabilmente.»
Passarono così a discutere di Davide, a volte chiamato Bruno, col tono che di solito si riserva per le orazioni funebri sul caro estinto di turno. Matteo non apprezzò particolarmente il tono, ma si unì al viaggio lungo il viale delle rimembranze e raccontò tutto ciò che poteva raccontare sulla loro vita a casa, sulla Terra. Storie sul fratello, su come erano cresciuti assieme, il posto in cui avevano vissuto, le cose che avevano fatto, detto, sognato e più o meno tutto ciò che gli attraversò il cervello e che il suo sistema interno di censura non bloccò preventivamente. Prima ancora di accorgersene, si stava divertendo. Poi si accorse di come si stesse divertendo, ossia con una discussione che aveva ormai assunto in tutto e per tutto la forma di una laudatio funebris, e il divertimento gli morì in gola, o giù di lì. Questo non gli impedì di proseguire con gli aneddoti, né di ascoltare e richiedere fatti e storie sulla vita di Davide su Madre. Ne raccolse parecchi, ma nessuno che spiegasse la sua scomparsa.
«Ma quindi, non so, questo Olaf?» chiese infine. «Che tipo di persona era? Perché, voglio dire, sono spariti assieme, no? Per una qualche esplorazione, che non ho molto capito. Dovrà pure esserci un legame, no? Credo. Cioè, mi sembra logico pensare che ce ne sia uno. Non è che le cose capitano a caso. Non sempre, almeno. O forse sì, d’accordo, ma...» Si accorse che lo fissavano perplessi.
«È più o meno sempre così, non fateci troppo caso,» disse Indira. «Comincia un discorso e si perde per strada, poi finisce chissà dove e alla fine si blocca, quando e se se ne accorge. Non sempre se ne accorge. Deve avere qualche difetto al cervello.»
Risero. «In effetti non assomiglia molto a suo fratello Davide,» disse Selina. «Se non ce lo avesse detto lui e se non ci fosse questa presentazione del Teatro, non penso che gli avremmo creduto.»
«No ma, parlate pure male di me, eh? Fate come se io non ci fossi,» commentò Matteo, imbronciato con la sua migliore espressione da sentimenti offesi. Per un motivo o per l’altro, finiva sempre così.
«Non stavamo proprio parlando male di te,» disse Tunde. «Non tutti, almeno. Dovrai ammettere che tu e tuo fratello non vi assomigliate molto, però. Né di faccia né di carattere. Anche se magari il suo era in parte una finzione, dato che doveva farci credere di essere qualcun altro.»
Matteo sospirò. Oh beh, non che avesse importanza. Era venuto fin su Madre per cercare notizie su Davide e di notizie vere e proprie non ne aveva trovate. O meglio, notizie sì, ma informazioni no. E nessuno aveva ancora risposto alla sua domanda su Olaf. Si preparava a ripeterla, quando Sebastian lo precedette e lungo una strada diversa. Non prevista, ma giustificata.
«Bene, è stato un piacere incontrarvi, ma ormai dovremmo anche incamminarci,» disse. «Dobbiamo passare in direzione, presentare i risultati del nostro lavoro, se non ci ha già pensato il responsabile, e altre rotture di palle amministrative. Siamo rientrati ieri sera, praticamente notte, sapete. Possiamo restare in contatto e trovarci un altro giorno, se volete. Tanto non penso avrete molto da fare, qui.»
«Non abbiamo proprio niente da fare, per adesso,» rispose Sharma. «Ancora non sappiamo neppure quanto a lungo ci fermeremo, ma sarà di certo utile discuterne con residenti come voi, che saranno molto più abituati a questo posto e sapranno darci consigli migliori.»
«Proprio di questo posto non direi, dato che ci sballottano dove capita, ma chiedete pure. Dunque?»
Dunque si scambiarono i contatti e si salutarono. Matteo li guardò allontanarsi di buon passo verso un luogo della città che ai suoi occhi appariva uguale a ogni altro, ma forse non lo era. Anche quella era andata. E non ne aveva ricavato pressoché nulla. Si sarebbero rivisti e ne avrebbero parlato, ok, certo, ma... Davide? Che fine aveva fatto Davide? Seriamente, dove era andato? E perché?
Con la speranza di poterlo scoprire prima o poi, ma senza crederci troppo, si incamminò anche lui assieme al suo gruppo verso un luogo della città che sembrava uguale a ogni altro, ma forse non lo era.