La galassia di Madre - 28
Il dottor Vito Leonardi, come sua abitudine, non era contento. Il giorno della presunta azione degli Isolazionisti era passato senza danni di rilievo. Non c’era neppure stata un’azione degna di nota, in quel giorno. Il Direttore Gemelos aveva svolto il proprio compitino, avevano arrestato una dopo l’altra le varie cellule, avevano lasciato esplodere giusto un paio di bombette, per dimostrare che la loro operazione era più che giustificata e tutto andava bene. Più o meno. Per un dato valore di bene.
In piedi, relativamente dritto e con le mani sul davanzale interno della finestra, Leonardi osservava la città dal suo ufficio. Il lato nord della città, una distesa di edifici, tetti, pareti e frammenti di cielo, questi ultimi sparsi qui e là nella più rassicurante cornice di cementi e plastiche. Era insolito avere una finestra orientata verso la città, tra i dirigenti dell’Ufficio per la Colonizzazione: il panorama che quasi tutti preferivano si trovava a est, dove l’oceano Atlantico si spalancava all’infinito, o almeno all’indefinito. Leonardi invece distingueva con cura tra ciò che poteva controllare e ciò che non era sotto il suo controllo. La città la poteva controllare, l’oceano no, quindi la sua finestra era rivolta a nord, verso la città. Verso il suo dominio, in altri termini.
Non guardava la città, adesso. Non tutta. Guardava un edificio, un edificio insignificante, lontano un paio di isolati dal loro e quasi sperduto tra i fratelli maggiori, che si alzavano verso un cielo più o meno non limpido. Lo guardava, tamburellando con le dita sul davanzale. Trrup, trrup, trrup.
«È lì che hanno trovato la bomba,» disse.
Dietro di lui, il Ministro della Difesa Andrea Hass sedeva paziente davanti alla scrivania. Aspettava. Conosceva da anni il dottor Leonardi, da quando era ancora il Direttore dell’Ufficio, e sapeva come lo si dovesse maneggiare. Impossibile non saperlo, in fondo, dopo la seconda spedizione su Madre; impossibile, dopo essere scesi assieme nel pozzo. Impossibile, a maggior ragione, dopo ciò che era successo nel pozzo. Così aspettava, con la pazienza costruita in una carriera militare e perfezionata poi in politica. Una pazienza da monumento di polistirolo.
«In quell’edificio, capisci?» continuò Leonardi. «Praticamente sotto al mio naso. Ma come possono essere stati tanto stupidi? Pensavano davvero che non avremmo visto nulla?» Trrup, trrup, trrup, le sue dita quasi interamente artificiali tamburellavano sul finto marmo del davanzale. «Sottovalutati o provocati? Dimmelo tu, forza!»
Andrea Hass sospirò. «Abbiamo preso il capo delle cellule nordamericane e sai anche tu cosa ci ha risposto, quando lo abbiamo... intervistato. È la stessa cosa che hanno ripetuto anche tutti gli altri, i polli che aveva reclutato come Isolazionisti. Volevano colpire te e la tua politica verso gli Altri: per questo hanno sistemato la bomba vicino al palazzo. Così l’avresti potuta ammirare in prima fila.»
«E tu gli credi?» chiese Leonardi, senza voltarsi.
«La prendo per buona, in attesa di risposte migliori. E naturalmente ho annuito, quando mi hanno presentato il verbale degli interrogatori.»
«Ma non è vera, lo sai anche tu.»
Andrea Hass alzò le spalle. «È verosimile. Se vuoi la verità, dovrai prima catturare l’uccellino che ti è volato via e convincerlo a cantare per te. Convincerlo a cantare la verità, soprattutto, o ciò che per te corrisponde alla verità. È lui l’Isolazionista che stai cercando, vero? L’Isolazionista autentico, il residuato della vecchia guardia.» Sorrise.
«È lui,» rispose Leonardi, con un entusiasmo da dentista. «Il fantomatico Zeke Boodie, responsabile delle cellule mediterranee, di fatto. Capo solo di una piccola e insignificante cellula, formalmente, ma tutte le altre seguivano lui, in realtà. Hah! Capo della cellula che non serviva a niente, i pezzenti in un paese di pezzenti. Mimetizzato per bene, direi.»
«Gli unici che abbiano fatto qualcosa liberamente, però.»
Finalmente Leonardi si girò verso il Ministro. «Gli unici ad avere un capo, invece di una marionetta senza fili! Hanno fatto qualcosa perché non ce ne fregava niente di loro. Li avremmo potuti fermare, lo sai, e non ci sarebbe stata neppure la loro piccola, insignificante esplosione, ma non era questa la nostra priorità, ricordatelo! E poi qualche esplosione serviva.»
il ministro Hass continuò a sorridere. «Me lo ricordo, me lo ricordo. La tua priorità era catturarli tutti, in particolare il loro capo. Quello che decideva e dava ordini, insomma, comunque si volesse far chiamare. A quanto pare, però, il tuo progetto per fermarli presentava qualche falla, oppure il Direttore Gemelos, il tuo caro Direttore George Gemelos, non ha saputo, come dire, incanalare nella giusta direzione i propositi del tuo pensiero.» Andrea Hass non poteva non sorridere, nel vedere la gioia che non illuminava la faccia di Leonardi. Il vecchio dottor Leonardi. A centootto anni, quasi centonove, avrebbe almeno potuto avere il buon gusto di levarsi dalle palle e lasciare spazio a gente più giovane e fresca di lui, se proprio non voleva crepare. Invece niente! Lo dovremo scalzare dalla poltrona col piede di porco, pensò, in pieno rigor mortis. E intanto continueremo a stagnare.
«Il mio progetto ha funzionato,» rispose Leonardi, «tanto è vero che li abbiamo presi tutti, gli altri. Uno ci è sfuggito, d’accordo, ma è soltanto uno, fra alcune centinaia di elementi sparsi in due zone distinte. Abbiamo anche evitato i danni che avrebbero potuto causare, sia a se stessi sia alle città. L’unico errore, se di errore vogliamo parlare, è stato il non aver scoperto prima che, tra loro, si era infilato anche un ratto, un ratto molto bravo a scappare. Tutto qui.»
«Un ratto così bravo, che vi era già scappato una volta. E quando era stato, poi? Trentadue anni fa? Trentatré? Non ricordo molto bene, sai. All’epoca ero ancora un semplice ufficiale, dopotutto, e non occupavo certo ruoli importanti come quello di Direttore dell’Ufficio. Ero troppo giovane, vedi.»
Lo sguardo che Leonardi gli rivolse avrebbe fatto invidia anche a Medusa. «Credo che faresti bene a ricordare come mai adesso sei Ministro, tu. Potrebbe aiutarti a osservare le cose da una prospettiva migliore, più solida.»
Andrea Hass annuì, serio. «Naturalmente. E credo che farebbe bene anche a te ricordarlo. In fondo, non ero da solo in quella specie di caverna, sotto Madre.» Sorrise, guardando verso la finestra. «A ogni modo, non è di questo che dobbiamo parlare, giusto? O meglio, non proprio di questo.»
Leonardi raggiunse la scrivania, in un lieve scricchiolio di ginocchia artificiali. Era una giornata umida e l’umido non faceva bene alle sue articolazioni, neppure adesso che non erano più di carne e cartilagini usurate, ma di materiale più solido e durevole. «Non proprio e non solo di questo,» disse sedendosi. «Voglio che continui la ricerca del ratto e voglio che la continuino i tuoi uomini, che già conoscono questo affare. Possiamo chiudere una volta per tutte il capitolo degli Isolazionisti, ma lo dobbiamo fare adesso. Non c’è bisogno che la gente si spaventi o si faccia venire strane idee. Deve pensare solo a Madre, adesso.»
«I miei uomini stanno già continuando,» rispose Andrea Hass, «anche se non è il loro compito. Se ne dovrebbe occupare il Ministero dell’Interno, non la Difesa, ma capisco che tu non ti puoi fidare di qualcuno che non hai scelto personalmente, soprattutto in una situazione come la nostra. Così, la giustificazione ufficiale è la ricerca di spie e infiltrati di Lakshmi, che potrebbero voler aggirare il blocco. Giustificazione in linea con la nostra attuale politica estera, giusto?»
Leonardi sospirò. «Avrei fatto volentieri a meno del blocco e avrei fatto ancor più volentieri a meno di quelle stupide rovine aliene. Proprio su Madre dovevano essere? Se ci fosse capitato un pianeta vuoto, come gli altri, non avremmo avuto alcun problema. E invece no, proprio lì dovevano esserci quelle rovine del cavolo!» Trrup, trrup, trrup.
«Se avessimo trovato un pianeta vuoto, non ci sarebbe servito a molto, no?» rispose Andrea. «È ciò che esiste dentro Madre a renderla importante. Ci obbliga anche a un maggiore controllo, certo, ma è un semplice effetto collaterale, del tutto logico. Direi che le rovine ne sono un sottoprodotto ed è così che le dobbiamo accettare. Sul lungo termine, potrebbero anche portare qualche beneficio. E poi, rinunceresti davvero a quel qualcosa in più, in cambio di un pianeta senza ficcanaso?»
«Non dire stupidaggini! Non me ne farei niente.»
«E la crisi era davvero inevitabile?»
«Gli insetti morivano davvero, dopo aver punto i lakshmiti. A me non me ne frega niente di qualche mosca o zanzara, ma a Madre sì. Quindi, era necessario bloccare Lakshmi, almeno fino a che non si fosse abituata al loro sapore, o fino a che non avesse smesso di perdere tempo con loro.»
«E adesso lo ha fatto, giusto?»
«Il numero di insetti morti si è ridotto a qualche unità, è vero,» ammise Leonardi. «Forse si sono abituati davvero, o forse hanno capito che non sono i lakshmiti a servire.»
«Quindi il blocco potrebbe essere rimosso, giusto? Ma non lo hai ancora fatto. O meglio, non hai ancora dato ordine al Direttore Gemelos di farlo.»
«La quarantena è comunque una buona scusa, per avere meno rompiballe tra i piedi. Finché resiste, la terremo. È un momento molto delicato, lo sai.»
Andrea Hass alzò le spalle. «Sono ministro della difesa, io, non mi occupo più di tanto dei rapporti tra pianeti. Non è il mio compito. So però che il governo lakshmita non apprezza questa situazione e i rapporti con gli altri mondi coloniali ne potrebbero risentire, a lungo andare. Soprattutto, non ha creduto molto alla storia della quarantena e della contaminazione ambientale.»
«No,» sbuffò Leonardi.
«E adesso pensano che nascondiamo chissà cosa, o che ci prepariamo a fare chissà cosa, su Madre, e vogliamo tenere lontane le possibili spie degli altri mondi.»
«Bah! Sono così stupidi che non si accorgono neanche di aver un naso in mezzo agli occhi. Pensano alle rovine e ai loro archeologi, come se contassero davvero qualcosa. A nessun lakshmita frega niente di Madre. È solo il loro governo, che vuole fare finta di esistere.»
Andrea Hass alzò di nuovo le spalle, sapendo che Leonardi non amava quel gesto. «Archeologi ed exologi sono gli unici ad appoggiare il governo lakshmita, in questo, perché a loro interessa Madre. Per loro contano. Dunque, fino a che non si sarà risolto il problema, è plausibile che qualche testa calda, magari un giovane con più entusiasmo che cervello, possano tentare di infiltrarsi da Lakshmi e aggirare il blocco. Di conseguenza, la mia giustificazione ufficiale regge e nessun terrestre se n’è lamentato.»
«E allora?»
«E questo ci riporta al motivo per cui io ho bisogno di parlare con te. Hai ricevuto la relazione del Direttore Gemelos, sull’ultimo viaggio del Teatro?»
Leonardi agitò una mano. «Non ho ancora avuto tempo di ascoltarla.»
«Penso che faresti bene a trovare il tempo, allora. Ci sono due elementi che ti interesseranno molto e sui quali sarai tu a dover decidere. Non possiedo l’autorità necessaria, io, non in questo caso.»
«E di cosa si tratta?»
«Ascolta la relazione. Non ti è sfuggito solo un ratto, sai?»
Il ratto sfuggito, che temporaneamente circolava ancora con l’identità di Zeke Boodie, in attesa di nomi e tempi migliori, riposava in un albergo non lontano dalla sede dell’Ufficio; un albergo da poco, nella parte settentrionale della città, proprio quella verso cui guardava la stanza di Leonardi. Riposava in una stanza piccola e non particolarmente accogliente, con una finestra che offriva, di tanto in tanto, una perdibile vista sull’oceano. Se eri fortunato, le condizioni meteo lo permettevano e la tua vista era davvero ottima.
Non era stato molto facile arrivare fino a lì, ma neppure troppo difficile, non per lui. La sua fuga era cominciata subito dopo avere parlato agli Isolazionisti che ancora gli restavano, nascosti in rifugi di emergenza sparsi qui e là nella città di Roma. Ultime indicazioni, ultime raccomandazioni, ultime esortazioni a procedere col piano originario: un piano che non avrebbe mai funzionato, e lui lo sapeva, ma che almeno li avrebbe tenuti impegnati per un poco e avrebbe distolto gli sguardi da lui. In fondo, il vero progetto era proprio quello.
La resurrezione degli Isolazionisti non sarebbe mai riuscita, non in quel tempo, non con gli scarti umani che aveva a disposizione. Ciò che interessava davvero a Zeke Boodie, però, non era certo la resurrezione di un movimento vecchio di trent’anni e più, un movimento buono solo per nostalgici e adolescenti decerebrati. Ciò che interessava davvero a Zeke Boodie, e a pochi altri capi del gruppo dotati di visione e intelligenza sufficienti, era piazzare una testa di ponte su Madre. C’erano riusciti? La risposta era ancora incerta, ma sapeva almeno che qualcuno era partito; il resto lo avrebbe detto il tempo. Lui, intanto, doveva aspettare e volare basso.
Quella notte, la notte che precedeva l’operazione, aveva tenuto il suo ultimo discorso alle squadre superstiti e ancora libere, mentre retate su retate spazzolavano via le cellule isolazioniste in altre zone del mondo. Non ce n’erano molte da spazzolare, in realtà, ma erano diradate a sufficienza da rendere lento e noioso il lavoro di cattura. Il che era un vantaggio per loro. Dopo gli ultimi discorsi, retorici e vuoti quanto bastava per teste altrettanto retoriche e vuote, Zeke Boodie era sparito.
Attendere il risultato di quelle miserabili operazioni non era strettamente necessario, ma in parte lo avrebbe fatto ugualmente. Era curioso, questo sì, e poi poteva ricavare qualche informazione utile su tempi e modi dell’intervento repressivo, da quelle parti. Le informazioni erano sempre utili, per Zeke. E poi, una qualche importanza ce l’avevano persino quelle operazioni e quei quattro gatti che lo avevano seguito per mesi. Un ruolo minuscolo e quasi invisibile, nel grande affresco della sua mente, ma un ruolo è sempre un ruolo.
Un sasso in uno stagno, a voler essere poetici. Sarebbe affondato e scomparso sotto le acque, sì, ma avrebbe provocato qualche onda. Onde circolari, concentriche, che si sarebbero propagate sopra tutta la superficie dello stagno, fino alle sponde. No, ok, fino alle sponde no: sarebbero morte molto prima, piccole e deboli com’erano, ma una qualche increspatura l’avrebbero provocata. Sufficiente? Forse sì. Probabilmente sì. Tutto ciò che le sue marionette avrebbero dovuto fare era trattenere gli sguardi lì, sulla Terra, mentre il vero lavoro avveniva altrove.
Così si era allontanato, nella notte, e il mattino dopo aveva vagato un poco per le strade, negli orari in cui l’operazione sarebbe dovuta scattare. Un moto browniano lo aveva portato a poco a poco in direzione della stazione, sempre con tranquillità, con nonchalance, con rilassatezza, col passo di chi si sta godendo una passeggiata di primo mattino, nel fresco sano e brioso di inizio dicembre.
Ma la stazione era sorvegliata. Sorvegliata con cautela, ma sorvegliata. Niente squadre di militari in tenuta antisommossa, schierate sui gradini di accesso: sarebbe stato eccessivo, almeno in un luogo e in un tempo di pacifica sonnolenza come quello, e poi l’ex direttore Leonardi non era solito usare mezzi così pacchiani. Ne usava di più pacchiani, ma pacchiani in modo diverso.
C’erano però alcune persone molto discrete, molto normali, mischiate ai pendolari, che di continuo si scambiavano di posizione, quasi in una danza bizzarra, mantenendosi sempre nell’atrio, ma non sempre negli stessi punti dell’atrio e non sempre le stesse persone. Tattica vecchia, tattica banale, e un poco lo aveva deluso: si sarebbe aspettato di meglio da Leonardi, ma in fondo anche Leonardi era un uomo vecchio. Simile attira simile, no?
Zeke aveva guardato e alzato le spalle. Poco dopo, si era fermato a un distributore automatico, poi aveva deviato, per allontanarsi dalla stazione. In fin dei conti, non sembrava un buon momento per viaggiare. O almeno, non in treno. Pazienza, non era certo la fine del mondo. Fischiettando, si era avviato lungo un viale elegante, sostando a intervalli irregolari davanti a una vetrina, ad ammirarne il trascurabile contenuto. Avevano fatto un buon lavoro, stavolta, ed era opportuno ricordarlo per il futuro. Erano informazioni, appunto, e le informazioni erano sempre preziose, in ogni circostanza. Nel complesso, però, ne aveva viste di peggiori. O almeno, Zeke Boodie le aveva viste.
La retata di trentatré anni prima, per esempio. Quella sì che era stata brutta. Era comprensibile che Leonardi non si aspettasse di rivedere qualche Isolazionista, dopo quella volta. Invece gli era andata male almeno in parte. Qualcuno lo aveva dovuto rivedere: poca roba, d’accordo, ma qualcosa era sempre più di niente. E poi, giocare con tipi come Leonardi era sempre un gran piacere, per lui.
Zeke Boodie ricordava ancora tutti i dettagli di quella fuga e poteva confrontarla con la presente, vedendone subito i vantaggi e i progressi. Tanto per cominciare, lui adesso era un’altra persona, una persona molto diversa rispetto al giovane di allora, che aveva tanti ormoni in corpo e poco cervello nel cranio. Era vecchio, adesso: non vecchio come Leonardi, per carità, nessuno era vecchio come lui, ma comunque vecchio e aveva accumulato la sua buona dose di esperienza. E poi, altre cose lo avevano cambiato, un altro spirito lo guidava, un’altra mente guardava da quegli occhi.
Adesso, per esempio, sapeva fiutare le trappole in anticipo e aggirarle. Meglio, neppure vi entrava. Lo Zeke Boodie di oggi non si sarebbe più fatto sorprendere in un palazzo assediato, con soldati ovunque e i suoi stessi compagni che perdevano la testa. Non sarebbe più stato costretto a fuggire per le fognature, strisciando per chilometri tra merda e ratti, ratti enormi e mutanti, spesso affamati, che ancora oggi infestavano alcuni sogni. Non sarebbe stato costretto a scardinare la griglia di un depuratore, in campagna, risistemarla poi con la massima cura, cancellando ogni traccia, e soltanto per continuare a scappare, senza meta, senza testa. Aveva imparato la lezione. Era cambiato.
Quando progetti qualcosa, parti sempre dalla via d’uscita.
L’orologio aveva scandito uno dopo l’altro i fallimenti delle poche squadre. Gli orari in cui le varie bombe sarebbero dovute esplodere, secondo il programma, erano trascorsi senza il più piccolo dei botti. Una manica di imbecilli, incompetenti dal primo all’ultimo, ma non si era potuto permettere di meglio e il risultato era quello. In fondo, sarebbe stato ancora più stupido sprecare il meglio lì, sulla Terra, in una operazione che era soltanto copertura e fumo negli occhi.
Significava comunque che le forze di sicurezza erano migliorate, molto migliorate, e di questo avrebbe dovuto tenere conto per il futuro. Altre informazioni da schedare e immagazzinare. Poi le prime esplosioni erano arrivate, come botti di capodanno anticipati. Poco più di botti, in effetti, per il rumore che avevano fatto. Le più deboli, dunque, le meno efficaci, le meno pericolose. Con ogni probabilità, le avevano lasciate esplodere apposta, invece di disinnescarle, per dare una scusa vera e concreta all’operazione militare in corso. C’erano davvero terroristi, non vedete? Dunque adesso ci lascerete rimuovere tutte le vostre libertà che decideremo di rimuovere, giusto? È per il vostro bene.
Zeke Boodie ne avrebbe potuto ridere, ma aveva scelto di continuare a camminare, a testa bassa, rilassato come pochi, naturale come pochi. Giusto un barlume di curiosità e di sorpresa, al rumore degli scoppi, e un paio di parole scambiate in fretta con altri passanti nei paraggi. «Ma cos’è stato?» «Un incidente?» «Un petardo?» «Sì, l’ho sentito anch’io.» «Ma già, forse.» «Chissà!» «Eh, che roba! Di questi tempi...» «Ma già, ma già, che ci vuole fare...» Eccetera eccetera, di vuoto in vuoto, persona anonima tra persone anonime.
Il botto più forte era stato quello della centrale elettrica, e Zeke Boodie se lo aspettava. Era Masser a guidare quella squadra e Masser faceva sempre un buon lavoro. Povero, stupido, fedele Masser. Da ovest si era alzata una sottile colonna di fumo, sopra i tetti e ancora più su, verso il cielo azzurro e luminoso di dicembre. Zeke aveva cominciato a contare allo scoppio, per fermarsi alla prima sirena. Vigili del fuoco? Polizia? Entrambi? Non importava. Aveva potuto misurare i tempi di reazione e li aveva trovati piuttosto scadenti. Per sicurezza, aveva incluso anche un possibile rallentamento, causato dalle forze mandate dall’Ufficio: anche questo era da calcolare, come informazione.
Sì, il gruppo di Masser aveva fatto un buon lavoro, come previsto. Erano gli unici su cui avesse contato davvero ed erano stati anche gli unici a non deluderlo. Forse li avevano lasciati agire, forse no: il risultato e basta contava e il risultato era stato positivo. L’attenzione sarebbe rimasta sulla Terra, almeno per un paio di giorni, almeno qui. Il resto lo avrebbero fatto le pedine spedite altrove: fra tutte, scelte tra le più adatte nelle varie cellule, almeno una sarebbe arrivata, probabilmente. In caso contrario, avrebbe dovuto ricominciare da capo. Pazienza.
Era sparito, poco dopo, e nessuno aveva seguito le sue tracce. Di questo era sicuro. E adesso era lì, in un alberghetto da poco, non lontano dalla sede dell’Ufficio, e attendeva. Perché proprio in quel posto, praticamente nella tana del nemico? Zeke non lo sapeva, non di preciso. Aveva agito più che altro di istinto, o almeno con quello che poteva essere definito istinto, in assenza di termini migliori. A razionalizzarli, c’erano validi motivi, ma c’erano sempre validi motivi per ogni azione, quando si decideva di razionalizzarli. Questo però non li rendeva validi, né razionali.
Giusto per passare il tempo, contò qualche spiegazione più o meno razionale, sulle dita della mano destra. Primo, il Nordamerica era vantaggioso per chiunque pensasse alla via dello spazio, una via di fuga sempre aperta e sempre buona. Possedeva i migliori collegamenti con l’ascensore, unica via verso la stazione orbitale, unica via verso le stelle. Dunque, se aveva in programma di fuggire su un altro pianeta, era stata la scelta più confortevole. Ancora più confortevole sarebbe stato sistemarsi ai piedi dell’ascensore, ma era zona troppo pericolosa, troppo. Meglio stare a una certa distanza.
Ma non aveva in programma di fuggire su un altro pianeta.
Secondo, era la regione giusta anche per chi attendeva l’arrivo di qualcosa, da un altro pianeta. Il motivo era lo stesso: ottimi collegamenti, vantaggioso rapporto tra controllo e libertà. Ma aspettava qualcosa, lui? Non proprio. Non a livello conscio, almeno. Però poteva sempre arrivare qualcosa di interessante, giusto? Certo, era un evento che si poteva verificare. In un luogo di scambi e viaggi, poteva sempre arrivare qualcosa di utile o interessante, per te.
Ma aspettava davvero questo?
Terzo, il fulmine aveva già colpito e aveva colpito proprio lì, proprio in città. Zeek Boodie era un nome caldo, anche se non per il grande pubblico, ma le ricerche si erano concentrate nel bacino del Mediterraneo, per adesso. Forse si sarebbero allargate al Nordeuropa e all’Africa, entro breve, ma era improbabile che arrivassero fino al Nordamerica, almeno per il momento. Inoltre, nascondersi in casa loro era una sfacciataggine di cui forse non lo avrebbero considerato capace. C’erano parecchi forse e i forse non gli erano mai piaciuti, ma poteva funzionare come spiegazione.
Era anche vera?
Quarto, era lì che viveva il nemico ed era proprio da lì che avrebbe dovuto ricominciare a costruire un gruppo, se mai avesse deciso di ricominciare e se mai ne avesse avuto la necessità. Non aveva senso lavorare lontano, perché il vero luogo da colpire era proprio attorno a lui, la città dove adesso riposava. Lavorarci era più pericoloso, certo, ma gli avrebbe permesso di risparmiare tempo, fatica e soldi. Sempre che avesse deciso di ripartire.
Sarebbe ripartito con gli Isolazionisti, versione tre?
Disteso sul letto, Zeke Boodie fissava il soffitto chiazzato di umidità. Aveva molte idee, molti piani e molte ambizioni, ma gli mancavano le risposte. Ed era male. Era male soprattutto perché, almeno per adesso, non possedeva neppure uno scopo. Uno scopo preciso, qualcosa a cui lavorare. Aveva sì mandato Davide su Madre, con un ordine che forse avrebbe eseguito e forse no, ed era vero che altri burattini erano stati preparati da altre cellule, ma il futuro ancora appariva nebuloso, vago, incerto, perché erano troppi gli angoli bui che aveva davanti. Madre, per cominciare. Davide gli avrebbe potuto dire di più, se fosse tornato, e quel di più poteva essere il tassello che mancava al mosaico. Oppure poteva essere inutile. Poteva anche non tornare affatto, o non arrivare mai.
No, non era un buon momento per lui, ma ne aveva superati di peggiori. L’istinto da sopravvivente gli suggeriva le mosse, gli consigliava cosa fare e gli ordinava cosa non fare, per mantenersi vivo, e Zeke lo seguiva. O forse non era l’istinto da sopravvivente, ma qualche altra cosa. Dettagli di poco conto. Il risultato era stato lo stesso ed era stato ottimo. Lo avrebbe seguito anche adesso, e al resto avrebbe pensato poi. Il resto non era urgente. Prima doveva mettere al sicuro se stesso.
Si alzò con un grugnito e raggiunse lo specchio del bagno. Non un grande specchio, non un grande bagno. Ripulì il vetro con un asciugamano, cancellando il vapore accumulato dopo la doccia e qualche strato di lerciume. L’immagine che vi vide riflessa lo soddisfaceva e lo preoccupava allo stesso tempo. Un viso anonimo, sì, ma anche un viso che raccontava troppo sul passato. Diceva che l’anonimato non era naturale, ad esempio, ma artificiale. Diceva che non ricordava più neppure lui stesso il proprio aspetto originario, specificando però che non gli importava granché. Diceva infine che quel volto non sarebbe stato l’ultimo, ma altri ancora attendevano appena sotto la creta, pronti per essere rimodellati dal prossimo chirurgo.
E il prossimo chirurgo sarebbe arrivato presto.
«Hanno la mia faccia,» disse allo specchio, a bassa voce, «così me ne serve una nuova.» Si poteva ancora fidare del vecchio chirurgo, oppure era meglio cercare altrove? Ecco un problema concreto, da affrontare con mezzi concreti e interamente nelle sue mani. Cambiare faccia e identità, forse per la quinta, forse per la sesta volta. Il resto poteva attendere.
«Che ne dici? Quale potrebbe essere la faccia giusta, per qualcuno che vuole ibernarsi per un certo periodo?» chiese allo specchio, che naturalmente non gli rispose. Una faccia poco appariscente, sì, una faccia che magari non si portasse in giro così chiari i segni degli interventi. Un nonnetto in pensione, ecco, di quelli che puoi ancora vedere dietro le transenne di un cantiere, a spiare, le mani unite dietro la schiena e un commento sempre pronto sulle labbra. Inoffensivo, banale, goffo.
Zeke Boodie strinse le labbra e ci pensò, provò a immaginarsi con quella faccia, ma soprattutto con quella personalità. Poteva essere difficile, all’inizio, ma era convinto di potersi adattare in fretta. Sì, gli piaceva. Affondiamo per un po’ in provincia, assieme agli altri avanzi della pensione, e vediamo come andrà il mondo, si disse. Quando ci sarà di nuovo bisogno di me, sarà il mondo stesso che mi richiamerà in servizio. Per adesso, però, è meglio sparire.
Scelta saggia. Dall’esterno giungevano i suoni tranquilli della strada, gente che camminava, gente che chiacchierava, in mille accenti e mille dialetti diversi. Era quasi impossibile trovare ancora una traccia di vero inglese, lì sotto, eppure c’era. Doveva esserci. E se poi non c’era... beh, pazienza!
La data gli diceva che ormai la nave per Madre doveva essere arrivata. Adesso avrebbe scoperto se Davide era davvero la persona adatta, se si era davvero bevuto tutte quelle storie sul padre, il vago e fantomatico Ettore Cori, e se avrebbe agito di conseguenza, come Zeke si aspettava da lui. E se poi Davide era la persona sbagliata, ne avrebbe pescata un’altra. Il fratello stesso, magari, se capitava da quelle parti. Avrebbe potuto riciclare molte storie, faticando così di meno. Un nuovo progetto cominciava a prendere forma nella sua mente, riempiendo il vuoto di iniziativa che così forte aveva avvertito.
Cambiare faccia. Sparire. Osservare da vicino, ma non troppo vicino. E aspettare. Presto o tardi, gli sarebbe capitato qualcosa tra le mani e allora avrebbe saputo che il tempo di riemergere era giunto. Al resto avrebbe pensato strada facendo. Aveva mesi davanti, da dedicare soltanto a se stesso.
Con un sorriso, Zeke Boodie cominciò a cambiarsi.
Bogdan Stratos era nervoso. Non troppo nervoso, niente unghie rosicchiate, mani che si agitavano a risistemare cose già sistemate mille volte, peso che si spostava da una gamba all’altra, eccetera. Un sano, normale nervosismo, del tutto sotto controllo. Per adesso. Ma poteva anche sfociare in rabbia, a breve, perché Bogdan non era contento. Proprio per niente.
Seduto nell’ufficio del professor Aaron Vihersalo, capo planetologo dell’Ufficio, suo superiore e, su un piano puramente teorico, suo maestro, aveva ogni ragione per sentirsi nervoso, soprattutto perché aveva appena presentato a Vihersalo il risultato dei suoi ultimi studi, il suo primo studio completo da quando era all’Ufficio, e adesso attendeva di sentire il parere del capo. Gli avrebbe creduto? O avrebbe riciclato anche lui la solita scusa di un difetto negli strumenti o di un errore nella sintesi del computer, come gli altri con cui ne aveva discusso?
Ne l’una ne l’altra, grazie, pregò tra sé. Aveva già sentito quella cantilena da Karsten Lösing, che si occupava appunto di filtrare ed elaborare le immagini inviate dai telescopi; non avrebbe sopportato di sentirla anche da Vihersalo. Gli avrebbe fatto perdere il poco rispetto che ancora provava verso quell’individuo. Se anche Vihersalo avesse notato la stessa cosa che aveva notato lui, invece...
Il dottor Lösing gli aveva passato le immagini senza un secondo sguardo, con l’interesse di chi vede per la milletrecentesima volta lo stesso, insignificante paesaggio. Quando Bogdan era tornato da lui, due giorni dopo, con le stampe in mano e due occhi che facevano luce, Lösing si era girato verso il giovane, si era alzato in tutta la sua torreggiante bassezza, aveva aggiustato la pancia che penzolava sulla cintura dei pantaloni, si era sistemato quella inquietante capigliatura rossa, pettinata come una parrucca del Re Sole e fetida più o meno allo stesso modo, e aveva sbuffato.
«E allora?»
Bogdan aveva teso le stampe, indicato le analisi spettrografiche, puntato il dito qui e qui, parlato per quasi mezz’ora dell’anomalia individuata, con le guance rosse di eccitazione, e alla fine, quando era sicuro di avere convinto il collega, quel ciccione lo aveva scacciato con un gesto e la vecchia scusa di un errore del computer. Tutto qui. Così aveva raccolto i dati, li aveva riordinati, aveva eseguito il quinto controllo, per assicurarsi che non ci fossero errori, e adesso sedeva lì, nello studio di Aaron Vihersalo, capo planetologo della Terra. E attendeva.
Il professor Vihersalo scorreva le immagini sullo schermo, una dopo l’altra. Di tanto in tanto, per un breve periodo si fermava e due volte aveva avvicinato la testa, come a voler vedere meglio. Si era accarezzato l’ampia pelata, così simile a una chierica, al centro della massa di fini capelli grigi, per poi scendere a sistemarsi la frangia grottesca, che arrivava fino a metà fronte. Come può pettinarsi così?, pensò Bogdan, sempre più schifato dall’aspetto dei colleghi. Pareva quasi che ci fosse un tipo di legame tra la pessima pettinatura e l’incompetenza boriosa, che sempre più spesso dimostravano. Un virus si aggirava nella sezione dei planetologi? Se era davvero così, poteva soltanto augurarsi di non esserne mai contagiato.
Per quasi dieci minuti Vihersalo lo aveva fatto attendere, in silenzio, mentre controllava prima in un senso e poi nell’altro le varie immagini. Alla fine, con un sospiro, si raddrizzò, girò la sedia verso il giovane apprendista e si lasciò andare contro lo schienale. «Ebbene?»
Bogdan lo osservò perplesso. «Ebbene cosa?»
Vihersalo sospirò di nuovo. «Ebbene, che cosa mi voleva mostrare? È un assortimento di immagini molto interessante, non ne discuto, e di certo dimostrano un notevole gusto nell’accostamento delle inquadrature. È presente anche un pregevole lavoro di campionatura, sì, ma... e allora? Voglio dire, abbiamo già ottimi studi sui giganti gassosi di Madre,» continuò, «e sinceramente non capisco cosa lei voglia provare, con questo suo contributo. Voleva forse mettersi in mostra? Se è così, la posso capire, il tipico entusiasmo del novellino, ma la devo anche esortare a non ripetersi in futuro, perché non è questo il modo in cui lavoriamo, qui.»
Bogdan aprì la bocca, la richiuse, respirò a fondo, si passò una mano sulla faccia, si passò una mano sulle labbra, respirò di nuovo a fondo e provò a riaprire la bocca. Stavolta ne uscì qualcosa. «Non è mia intenzione mettermi in mostra,» rispose, scegliendo con cura certosina le parole, «ma siccome ho notato una traccia anomala nell’analisi della struttura dei due giganti, anomalia di cui non avevo sentito ancora parlare, ho ritenuto doveroso segnalare a voi questa traccia. Se mi dite che si tratta di una caratteristica normale e naturale per questi pianeti, allora non ho nulla da aggiungere, se non una certa sorpresa nel non averlo saputo prima, ma a me sembra piuttosto che...»
Vihersalo alzò una mano a interromperlo. «A lei sembra, certo. Ha per caso avuto l’occasione, negli ultimi tempi, di esaminare le analisi spettrografiche già condotte sui pianeti in questione? Ne potrà trovare una discreta quantità, nei nostri archivi. Ebbene, come lei stesso avrà modo di osservare, in nessuna di esse si accenna a qualsivoglia anomalia nella loro struttura. Al contrario, sono descritti come due perfetti esempi di pianeti gassosi regolari. Quasi da manuale, in effetti.»
«Sì, lo so, ma nella mia analisi si può notare che...»
«Nella sua analisi, certo. E la sua analisi, logicamente, mostra la presenza di qualcosa che nessuna delle precedenti duecentotrentasei analisi aveva localizzato. Interessante, non trova? E naturalmente è la sua analisi a essere corretta, anche se è smentita da altre duecentotrentasei. La possibilità che le altre duecentotrentasei siano corrette, e la sua sbagliata, suppongo che non abbia neppure sfiorato la soglia della sua coscienza, non è vero, ragazzo?»
«No, lo so che potrebbe benissimo essere la mia a sbagliare. Tuttavia, il fatto che in essa appaia così chiaro lo spostamento della...»
Vihersalo chiuse gli occhi. «Vogliamo per il momento lasciare da parte gli spostamenti, le analisi e tutto il resto? Mi farebbe una grande cortesia, lo sa?»
«E allora di cosa dovremmo parlare?»
«Vede, io posso capire il suo entusiasmo. Si è laureato da poco, ha appena cominciato a lavorare qui da noi, vuole dimostrare tutto il suo valore, e così via. Posso capire, le dico: ci sono passato anch’io, anni fa. Il punto è: una prova a favore e duecentotrentasei contro? E lei pensa che abbia ragione proprio la sua, mentre le altre duecentotrentasei sarebbero sbagliate? Ragazzo mio, posso anche non discutere la sua competenza, ma resta molto da dire sul suo metodo scientifico.»
Bogdan strinse le mani a pugno, sotto la scrivania (dove Vihersalo non poteva vedere), respirò di nuovo a fondo, sentendosi quasi uno speleologo polmonare, e soltanto allora rispose. «Forse perché le duecentotrentasei osservazioni precedenti non avevano utilizzato lo stesso strumento utilizzato nella mia unica osservazione.»
Aaron Vihersalo allargò le braccia. «E quale sarebbe, dunque, questo strumento miracoloso?»
Bogdan si schiarì la gola. Lo avrebbe ascoltato, adesso? «Ecco, l’algoritmo che ho implementato nella mia tesi di specializzazione, unito al filtro Chen-Cohimbra, che garantisce...»
«Il filtro Chen-Cohimbra!» Uno sbuffo, seguito da una risatina irritante come poche. «Ci mancava giusto questo, davvero. La cara Jana è stata una ottima persona, per carità, ma quanto a scienziata... no, no, davvero, non mi faccia parlare male dei morti. Credevo che fortunatamente fossero spariti tutti, quei filtri inutili che lei aveva progettato assieme a quel cinese. Ne è rimasto ancora qualche esemplare? Una rarità da museo degli orrori, mi creda.»
«Sì, in effetti non ne ho trovati, qui all’Ufficio, ma ho utilizzato quello che possiedo io. Me lo sono procurato su Lakshmi, all’università, dove invece sembra che il filtro Chen-Cohimbra goda di una fortuna ben maggiore, rispetto a qui sulla Terra. A ogni modo...»
Vihersalo agitò una mano. «Sì, sì, posso capire. Gli Altri.»
Bogdan ebbe bisogno di tutta la propria forza di volontà, per non alzarsi e rimodellare il naso del suo superiore con un intervento chirurgico di nocche. Era surreale. Peggio, era ridicolo. Se ne stava lì, nell’ufficio di quello che doveva essere il miglior planetologo del pianeta, un quasi settantenne col centro della testa pelato e una frangetta da subnormale sulla fronte, ad ascoltarlo mentre rideva di un metodo scientifico utilizzato con successo su altri dieci pianeti. Perché hanno mandato proprio Jana Cohimbra in missione?, si chiese. Non potevano spedirci questo qui e tenersi lei? Saremmo di almeno trent’anni più avanti, nella planetologia. E invece, alla prima spedizione su Madre, aveva partecipato Jana Cohimbra, mentre Vihersalo era rimasto sulla Terra, a scaldare la sua poltrona. E il risultato si vedeva: il reparto di planetologia ridotto a un centro per rifiuti accademici, con pettinature da gibboni lobotomizzati.
«A ogni modo,» riprese, «dal grafico si può notare come la composizione dei due giganti gassosi sia profondamente diversa rispetto a quella di ogni altro pianeta dello stesso tipo. Se ne potrebbe quindi dedurre che i pianeti del sistema di Madre abbiano...»
Vihersalo alzò di nuovo un mano, serio in volto. «Vedo che lei non mi ha ascoltato bene. Qualunque risultato lei abbia ottenuto, coi suoi metodi pseudoscientifici, non mi interessa. Non ha alcun valore, capisce? Qui cerchiamo verità, non fantasie, e lei mi propina questa... questa roba, ottenuta con un sistema fallace, progettato da gente di dubbia competenza. Queste sono favole, capisce? I fatti sono quelli attestati dalle duecentotrentasei analisi attendibili, che abbiamo già compiuto. Se poi lei vuole credere alle favole, si accomodi pure; non cerchi però di vendermele come verità scientifica.»
Vihersalo si alzò, sospirando, come se reggesse sulle spalle di sessantaseienne il peso dell’universo, o almeno della galassia. «Ragazzo mio, non ci siamo. Non è questo il modo giusto di presentarsi al proprio superiore. I risultati del suo primo studio, dal suo arrivo al nostro Ufficio, non possono che lasciarmi molto deluso e amareggiato. Le sue credenziali sono ottime, certo, ma mi chiedo davvero se lei sia la persona adatta per lavorare con noi.»
Me lo chiedo anch’io, pensò Bogdan. E mi chiedo soprattutto se valga la pena di lavorare con una massa di tromboni rimbambiti come voi. Scelse però di rispondere con un diplomatico sorriso, una lieve alzata di spalle e la testa rispettosamente chinata. «Ricontrollerò i miei risultati. Può darsi che, con l’entusiasmo di un principiante, abbia visto più di quanto mi fosse lecito vedere.»
«Può darsi, può darsi. Succede spesso, a voi novellini: vi lasciate portare dalle vostre idee balzane e dalla voglia di cambiare il mondo, e così finite per immaginare le cose. Lasci perdere questi studi, le dico. Non fanno per lei e abbiamo compiti più importanti a cui dedicarci, qui.»
Per esempio, guardare quante caccole riuscite a togliervi da una narice, pensò Bogdan. Oppure vi dedicate a studiare nuove pettinature da idioti. «Capisco. Credo proprio che, in effetti, farei meglio a dedicarmi a un altro settore. Ma sa com’è, volevo provare le attrezzature e...»
«Sì, sì, lo so,» e lo liquidò con un cenno della mano. «La prossima volta, però, cerchi di usare meno fantasia e più realtà scientifica, grazie.»
Bogdan Stratos uscì senza replicare, con un umore che si accordava alla perfezione coi suoi capelli neri. Aaron Vihersalo lo seguì con lo sguardo, poi chiuse la porta dell’ufficio, raccolse il materiale che il ragazzo gli aveva consegnato, lo sistemò con ordine e lo distrusse.
«Ma guarda questo imbecille,» disse. «Sarà meglio che il Direttore si decida a farlo controllare a dovere, prima che ne possa combinare altre. Pivellini... tanto stupidi quanto pericolosi.»