La galassia di Madre - 29
Lo sbarco su Madre fu lento, molto lento, spaventosamente lento. Davide Kori lo avrebbe descritto in termini un poco diversi, parlando magari di “piaga in culo” o analoghe espressioni sgradevoli, mentre Kemala Kexin si limitava a roteare gli occhi e sbuffare ogni cinque minuti, ma la sostanza era la stessa per entrambi, così come per tutti gli altri aspiranti coloni: lo sbarco su Madre non finiva più. E il motivo era semplice, per quanto non piacevole: erano molti, a bordo delle navi, e c’era un ordine da rispettare. Un ordine che regolava gli arrivi, gli accessi, l’identificazione e la discesa in ascensore. Un ordine necessario, per controllare ciò che, altrimenti, sarebbe stato puro caos.
Proprio per questo lo sbarco fu una piaga in culo.
Dopo che le sei navi del Teatro di Oklahoma furono attraccate, i passeggeri scesero a scaglioni e si avviarono verso gli edifici a loro destinati, scortati da un gruppetto di militari. Un paio di militari, a essere più precisi: giusto per fare presenza e dare una patina di ufficialità a tutto e ricordare che, pur essendo lontana trent’anni luce, la Terra era sempre lì, a vegliare sui propri figli. Che bel pensiero!
Finita la passeggiata con scorta simbolica, altri impiegati del Teatro, distribuiti dietro e attorno alle scrivanie più sgargianti che molti dei nuovi arrivati avessero mai visto, controllarono i documenti con l’entusiasmo di criceti, per poi indirizzare le mandrie umane verso le stanze successive, dove il personale medico li attendeva a braccia e siringhe aperte, per un’ultima mazurca di vaccinazioni e di richiami. E fin qui, per quanto lento e degno di un rubinetto che perde, lo scorrere dei nuovi arrivi non incontrava problemi. Fluiva, seppure lutulento.
Il cosiddetto collo di bottiglia veniva subito dopo, quando i nuovi coloni, identificati, vidimati e vaccinati, dovevano lasciare la stazione orbitale e scendere sul pianeta. Perché la via che conduceva alla superficie di Madre era una sola e obbligata: l’ascensore spaziale. Che era piccolo. E aveva una capienza limitata. E doveva percorrere cinquantamila chilometri di discesa e altrettanti di risalita, a ogni viaggio. E i coloni non erano l’unico materiale da trasportare, né il più urgente. Un giorno quel problema sarebbe stato risolto, aumentando sia il numero che la taglia delle cabine, ma quel giorno era ancora lontano: adesso Madre era un pianeta spopolato, cantiere dove i lavori erano sempre in corso, e ogni attività doveva ritirare il numerino e sistemarsi in attesa. Come i coloni che dovevano scendere, insomma, e che scesero a gruppi, mentre gli altri rimanevano sulla stazione ad attendere il proprio turno, negli alloggi forniti dal Teatro.
«Ci vorrà più tempo a scendere da ‘sto coso che ad arrivare fin qui dalla Terra,» aveva commentato Sebastian Hahn, scalciando l’aria. Il suo gruppo sarebbe sceso tra cinquanta ore e lui non l’aveva presa benissimo, quando glielo avevano comunicato. Davide, invece, aveva alzato le spalle, con un «Beh, tanto non ci corre dietro nessuno. Godiamoci il posto e aspettiamo,» che aveva irritato ancora di più Sebastian. Alla fine si era dovuto far passare la rabbia e adattare, pure lui.
La stazione orbitale non offriva grandi attività ricreative, per un gruppo di coloni che aveva speso le ultime tre settimane sardinato in una cabina, ma restava pur sempre un ambiente diverso da quello a cui erano abituati. La bassa gravità, il nero dello spazio punteggiato di stelle e la sensazione strana, ma non spiacevole, di avere una intera cittadella tutta per loro, una cittadella sospesa nel nulla, retta in posizione da regole fisiche a loro ignote, dove erano ospiti ben trattati dal personale di servizio. Era l’ultima appendice di quel viaggio, l’ultimo tratto sotto l’ombrello del Teatro, ultimo momento in cui sarebbero stati ospiti e non lavoratori. Quasi tutti lo presero e lo vissero come una vacanza, se non da subito almeno alla fine.
A parte Kemala. Lei la visse come un supplizio medievale, una gogna, una gabbia in cui le facevano sventolare sotto il naso ciò che desiderava, ma tenendolo sempre appena fuori della sua portata. Aveva dovuto indossare la maschera di terrestre per mesi, ormai, e adesso voleva solo farla finita con la finzione e cominciare la propria battaglia. Era impaziente anche perché non poteva smettere di pensare che quella pausa, prima di scendere, fosse causata proprio da lei.
Paranoia, probabilmente, ma ne era proprio sicura? Poteva davvero essere sicura che tutta quella lunga e insensata attesa non fosse solo una trappola per lei? Forse volevano esasperarla e stancarla, per indebolirla. Guerriglia psicologica, il gioco del gatto col topo. O paranoia, appunto. Sul piano logico sapeva che la spiegazione era semplice, lineare, anche banale, ed era quella che avevano dato loro gli impiegati del Teatro: per quanto grande, i posti su un ascensore spaziale sono limitati. Su un pianeta arretrato come Madre era semplicemente impossibile sbarcare in una volta sola i passeggeri di sei navi di quelle dimensioni. I turni erano d’obbligo ed era successo su ogni pianeta. Conosceva pure lei le storie sulla prima colonizzazione di Lakshmi. Eppure...
Eppure vorrei essere già là, pensò. In prigione, magari, ma su Madre. Non mi fido a restare quassù, nello spazio. Ma avrebbe dovuto attendere anche lei per cinquanta ore. Il caso, il destino o qualsiasi altra forza, inclusi un banale sorteggio o il numero di registrazione, i primi sospettati, l’avevano destinata allo stesso viaggio del gruppo di Davide. Cinquanta ore anche per lei, dunque, prima di cominciare in un qualche modo l’avventura su Madre.
E le cinquanta ore passarono.
Altri soldati li scortarono dagli alloggi provvisori fino all’ascensore. Era una stazione civile, sì, ma da quando erano sbarcati avevano visto più militari che civili, in quel posto. Anzi, di civili non ne avevano proprio visti, a parte gli impiegati del Teatro e loro stessi. Di soldati, invece, avevano la collezione completa, incluso qualche doppione da scambiare. Pochi, se paragonati al numero di coloni, ma erano ovunque, come erba infestante.
«Come mai ce ne saranno così tanti?» aveva chiesto Tunde Bohr. «Hanno paura che gli rubiamo qualcosa? Neanche fossimo galeotti...»
«Beh,» aveva risposto Olaf Selke, «non tutti i coloni sono brava gente, no? È un po’ come... sì, hai presente, insomma... come i western e quelle cose lì. Ci sono quelli che sono pionieri normali, no?, ma poi ci sono anche i banditi. Cioè, non proprio banditi, ecco...» Olaf aveva cominciato a tingersi di rosso, nella fatica di spiegare quello che aveva in testa. Muoveva le mani in apparenza a casaccio, con la probabile intenzione di aiutarsi a gesti. Lo guardavano in molti. «Tu fai un crimine, ecco. E poi non ti vuoi fare arrestare, no? Così scappi. Ma se vuoi scappare scappare, è meglio farlo dove non ti prendono, no? E se vai nello spazio non ti prendono.»
Sebastiano Hahn lo aveva fissato in silenzio. «Ci hanno sottoposto a molti controlli, se non te ne sei accorto. Pensi davvero che non avrebbero scoperto un criminale in fuga? Ok che qui sono di bocca buona e pigliano ciofeche di ogni tipo, ma un ricercato tende a dare un pochettino nell’occhio, non ti pare? Ma poco poco, eh?» gli aveva chiesto.
«Beh, ma, cioè, si nascondono. Insomma, non ho detto che ci sono, ma potrebbero esserci, no? Un po’ come per le malattie. Tu ti fai vaccinare anche se non ce l’hai, perché potrebbe venirti.»
«Uhm...» aveva risposto Tunde. «Quindi, secondo te, i soldati sarebbero qui per proteggerci da quei criminali che potrebbero essere saliti, ma forse non ci sono, e che si nascondono per non far sapere che ci sono, anche se poi non ci sono. Ho capito bene?»
«Sì, è proprio così.» Olaf le aveva puntato una salsiccia di dito, sorridendo. «Ci controllano perché non si sa mai e così vogliono essere sicuri. Giusto, Bruno?»
Davide non aveva reagito subito. Soltanto quando si era accorto che tutti lo fissavano, e tacevano, si era ricordato anche che Bruno era lui, Bruno Kitzis. «Ah, sì. Beh, è una misura di sicurezza, no? Un po’ per farci sapere che loro ci sono e che ci proteggono. Se abbiamo bisogno, possiamo rivolgerci a uno dei soldati. Credo.»
«E magari è anche per controllare che non facciamo qualche danno noi,» aveva aggiunto Sebastian. «Questo posto deve essere costato una marea di soldi e non penso che vogliano qualche vandalo in giro a spaccare vetrine o rubare qualcosa. Proteggono la loro proprietà.»
«Sì, probabile,» aveva risposto Tunde, dopo una occhiata a Olaf e Davide (alias Bruno). Il discorso si era esaurito così, ed era un bene. A Davide non erano piaciute le parole di Olaf, per quanto prive di nesso logico e scombinate. Non gli era piaciuto soprattutto il riferimento a criminali che fuggono nello spazio, nascondendosi. Si era sentito tirare per una manica, da un certo punto di vista, anche se di crimini veri e propri non ne aveva commessi. Non lui. Non ancora. Se le cose erano andate male agli altri sulla Terra, però, gli schizzi sarebbero arrivati anche a lui, poco ma sicuro.
Vedere la porta dell’ascensore che si chiudeva e cominciare la lunga discesa verso Madre fu quindi un sollievo per Davide. Non c’erano soldati, lì dentro, anche se ne avrebbero trovati di sicuro molti altri ad attenderli a terra, ma poteva ignorarli, per adesso. Nessuno lo aveva fermato, nessuno si era accorto della sua falsa identità e il traguardo era vicino. Perché mai si sarebbe dovuto preoccupare proprio adesso? Finché l’acqua scorre, lasciamola scorrere, si disse.
Forse sarebbe stato sorpreso, scoprendo che anche un altro passeggero dell’ascensore la pensava in modo non molto diverso. Il passeggero era Kemala Kexin, ferma in un angolo, con le spalle contro il metallo della cabina. Osservava e studiava la gente davanti a lei, le chiacchiere e gli sguardi che si scambiavano, i discorsi scombinati che facevano sul futuro, la vita su Madre, cosa li aspettava e cosa non li aspettava. Avrebbe voluto condividerne l’entusiasmo, ma non poteva. Non ci riusciva.
Fino a qui ci sono arrivata, pensò. Vediamo quanto ci metteranno ad arrestarmi, adesso. Risposta più semplice di quanto si potesse immaginare: cinquantamila chilometri al massimo, la distanza tra la stazione e la superficie del pianeta. Laggiù c’era Oklahoma City, la città più grande della colonia: se nessuno l’avesse arrestata all’arrivo là, sarebbe stata lei stessa a consegnarsi, presentandosi al più vicino ufficio governativo e dichiarando la propria identità e le proprie motivazioni. Sarebbe stato il calcio di inizio, o il primo lancio di dadi. Choi Jaewon, la sua relatrice, doveva avere già contattato l’ambasciata sulla Terra, o almeno doveva aver spedito il messaggio. Nei loro progetti, non avevano potuto calcolare la durata della pausa sulla stazione, ma il tempo fissato era già trascorso.
Meglio così. Le cose dovevano essersi già messe in moto e magari ci avrebbe guadagnato qualcosa, in termini di tempi. Ma non si sentiva tranquilla. Proprio per niente. Per quanto avesse parlato dei suoi progetti, e a volte anche delirato, adesso che era il momento di agire non si sentiva più sicura e tranquilla, preparata a quasi tutto. Adesso capiva di colpo i dubbi e le perplessità di Matteo, là su Lakshmi, e il modo in cui la fissava, come se lei fosse una mina inesplosa. Forse c’era qualcosa che non aveva calcolato, nel suo mirabolante progetto.
Sotto di lei si apriva un pianeta ancora barbarico, dove la colonizzazione e l’umanizzazione erano appena agli inizi, e questo non era rassicurante. Aveva visto militari, sempre militari, niente altro che militari, dal suo arrivo alla stazione, e quasi nessun civile, impiegati del Teatro a parte, e questo era ancor meno rassicurante. Poteva esserci un brutto clima, laggiù, o forse poteva significare che, durante il loro viaggio, la situazione interplanetaria era peggiorata di parecchio. Dopotutto, Madre era l’epicentro della crisi, non lo poteva dimenticare. E la crisi riguardava proprio il suo pianeta di origine, Lakshmi.
Improbabile. La discussione e le tensioni erano state solo tra i due governi e anche in quel caso si erano ridotte al minimo indispensabile. Dispetti e ripicche tra bambini, più che altro. Palare di una crisi significava usare parole molto grandi, troppo grandi. Enormi, addirittura. E tuttavia... lei stava entrando come clandestina lakshmita su un pianeta dove l’accesso era espressamente vietato proprio ai lakshmiti, in nome di una vera o presunta contaminazione ambientale. Esisteva davvero spazio per una negoziazione?
Forse avrei fatto meglio ad aspettare la fine della quarantena, pensò. Vero, ma anche troppo tardi per pensarci. Ormai era lì e qualcosa avrebbe dovuto fare. Qualcosa che non implicasse l’essere rispedita su Lakshmi, se possibile.
Si guardò attorno, nella cabina dell’ascensore.
Erano tanti, lì dentro. Stavano scendendo, adesso, e il meccanismo accumulava energia, che avrebbe poi usato per la risalita, ma i dettagli tecnici non la interessavano, non al momento. Osservava le facce, ascoltava i suoni, fiutava odori non proprio gradevoli, avvertiva sulla pelle il calore di quella massa viva e multicolore. Non era poi così piccola la cabina, ma adesso lo sembrava: sembrava una scatola di sardine, dove tutti sono pressati assieme, che lo vogliano oppure no.
E fuori, oltre le pareti, Madre si avvicinava. O così sembrava, anche se di fatto erano loro quelli che si avvicinavano al pianeta. Oklahoma City e l’area colonizzata si trovavano in quella che poteva essere definita la fascia tropicale di Madre, anche se non assomigliava molto alla fascia tropicale della Terra. Paragonata poi a quella di Lakshmi, era più simile a una steppa. Madre era un mondo più freddo della media, per quanto ne sapeva lei, e non era certa di potersi adattare tanto in fretta al cambio di clima. Ma non sarebbe stato in fretta, probabilmente. Dopo l’arresto, avrebbe avuto tutto il tempo che voleva per acclimatarsi.
Temperatura a parte, quella fascia pseudotropicale era bizzarra. Tanto per cominciare, era una vera fascia, un continente che abbracciava la zona equatoriale di Madre come una enorme ciambella, o un salvagente. Un salvagente irregolare, certo, ma l’immagine era rimasta e aveva colpito i coloni, fino a diventare un nome proprio. Il continente centrale, esteso in orizzontale lungo tutto l’equatore e con frange frastagliate che si allungavano verso nord e sud, era chiamato “il salvagente” dai suoi abitanti. Nome poco rispettoso, certo, me poteva andare peggio. Ciambella, ad esempio.
Era anche la zona con la massima concentrazione di verde e solo un gruppo di pozzi. Dettaglio che i coloni ignoravano, ma i militari no: c’era un motivo, dopotutto, se il secondo ascensore era stato collocato proprio lì, invece che su uno degli altri continenti.
A poco a poco, la massa verdastra che si scorgeva dai finestrini della cabina cominciò a smembrarsi, mostrando altre chiazze di colori diversi, proprio come un quadro lascia vedere i segni del pennello, se ti avvicini troppo. C’erano zone più scure, che dovevano essere le città, e zone più chiare, che in cabina nessuno sapeva cosa fossero. C’erano specchi d’acqua, azzurrini, che si allargavano tra le scarse nubi biancastre, e dovevano essere bacini per l’agricoltura, o forse addirittura laghi naturali: chi poteva dirlo? Sembravano troppo precisi per esserlo, d’accordo, ma in fondo era un pianeta che non conoscevano e che già altre mani (o chele, o tentacoli, o chissà cosa) avevano modellato, molti anni prima. Milioni di anni prima. Si poteva davvero riconoscere il naturale dall’artificiale?
A pochi interessava la risposta, a tutti invece interessava una questione molto più vicina a loro, più concreta e tangibile: che cosa avrebbero fatto, sul pianeta? Come li avrebbero sistemati? A bordo della nave, e poi ancora sulla stazione, durante le vaccinazioni e i controlli dei documenti, il Teatro aveva sempre ripetuto che non si sarebbero dovuti preoccupare, che c’era posto per tutti, che dopo il loro arrivo sarebbero stati aiutati sia dai coloni più vecchi, sia dal personale del Teatro, che avrebbe provveduto a smistarli e ad assegnare i compiti in base alle attitudini e alle competenze di ognuno.
Sembrava troppo bello e troppo semplice per essere vero: quel Teatro sembrava quasi una specie di fratello maggiore, gentile e capace, a cui ti puoi sempre affidare e che pensa a tutto per te. Sembrava più un sogno che una realtà, in effetti, ma per il momento bastava: era un sogno che li aveva spinti a imbarcarsi, in un certo senso, e nessuno voleva che il sogno finisse troppo presto. Così attendevano e non facevano troppe domande.
«Per me, basta che non ci dividano,» disse Olaf, mentre scendevano. «Tanto mi arrangio a far tutto, ma lo voglio fare in mezzo ai miei amici. Non voglio sconosciuti intorno.»
«Avrai gli sconosciuti,» disse Sebastian, «e ne avrai da toglierti la voglia. Siamo in quattro, se non te ne sei accorto: un po’ pochi per fare tutto da soli. A ogni modo, spero anch’io di poter restare con voi. Sarebbe molto più comodo, soprattutto per me, dato che ormai ci conosciamo e sappiamo come collaborare. Giusto?»
Davide annuì, cogliendo lui solo l’ironia dei quel “ormai ci conosciamo”. Beh, sì, in effetti poteva dire che loro lo conoscevano molto bene, no? Pensavano che lui si chiamasse Bruno Kitzis e che si fosse imbarcato per cercare un futuro lontano dalla Terra, dopo aver avuto problemi a scuola. Il che in parte era vero, volendo: aveva abbandonato la scuola e cercava realmente un futuro lontano dalla Terra. Peccato che si chiamasse Davide Kori, con trascorsi in un gruppo che probabilmente era oggi considerato terrorista, e a spingerlo sulla nave era stato soprattutto l’ordine di Zeke Boodie, perché gli Isolazionisti potessero avere un appoggio su Madre. Tra le altre cose. Non la presentazione più adatta, per inserirsi in un gruppo di ragazzi appena conosciuti.
E pensano di conoscermi, si disse. No, non sapevano niente di lui. Conoscevano giusto due o tre cose sulla sua maschera, Bruno Kitzis, ma Bruno Kitzis era una persona semplice, forse un po’ testa calda, forse un po’ testa vuota, ma alla sua età lo sono tutti, no? Uno studente problematico, come si usa dire, che cercava un posto migliore su Madre. Uno come loro. Per questo erano diventati amici.
Guardò Tunde Bohr, incollata al finestrino, a osservare il mondo in avvicinamento, laggiù, mentre con una mano si torceva nervosa una ciocca di capelli scuri. Sebastian era dietro di lei e Olaf era a poca distanza, come un pilastro. Girava la testa da un lato all’altro, quasi cercasse qualcosa, e aveva un’aria più nervosa del solito. Comprensibile, pensava Davide. Stavano per arrivare.
Ancora pochi minuti e Oklahoma City si sarebbe dischiusa sotto di loro. La fine del viaggio, ma anche l’inizio di chissà cosa. Una nuova vita, forse.
La fine del viaggio fu una stanza enorme, dal tetto curvo, che assomigliava un poco a un palazzetto dello sport, senza tribune e senza campo di gioco. Un corridoio la attraversava più o meno al centro, indicato al suolo da un tappeto rosso e ai lati da transenne decorate: correva dalla porta di uscita dell’ascensore fino a una seconda porta, sulla estremità opposta della stanza. Attorno, nello spazio vuoto tra pareti e transenne, gente si muoveva di continuo, portando oggetti, sistemando decorazioni e facendo altre cose che, in un primo momento, a nessuno furono chiare. In un secondo momento, rimanevano non chiare. Erano comunque dipendenti del Teatro, a giudicare dalla divisa.
«Da questa parte,» disse uno di loro, avvicinandosi. Una di loro, anzi: una donna di bell’aspetto, più o meno sulla trentina, alta e magra. La seguirono lungo il corridoio tra le transenne e non pochi tra i coloni in prima fila, soprattutto uomini, apprezzavano con interesse il modo in cui la divisa metteva in rilievo alcune sue porzioni anatomiche. La seconda porta, verso cui camminavano, si aprì poco prima che il loro gruppo la raggiungesse. Dietro la porta, altri soldati.
«Di nuovo?» commentò qualcuno, dal centro della fila.
Di nuovo. Pareva proprio che i militari fossero il prodotto tipico locale, perché un altro reparto li attendeva oltre la porta. Un ultimo controllo dei documenti, forse, o forse chissà cosa. Sì, dovevano essere parecchio paranoici, su Madre. Olaf sospirò, Sebastian brontolò qualcosa di incomprensibile, Tunde alzò le spalle e Davide si preoccupò. Era normale che ci fossero tutti quei posti di blocco? O stavano cercando qualche infiltrato tra i coloni? Qualcuno come lui, per esempio. Ebbe tempo per pentirsi più e più volte di aver parlato della “nuova missione”, che il capo gli aveva affidato: se uno della loro cellula fosse stato catturato, quanto ci avrebbe messo a raccontare tutto? Neppure cinque secondi, se quell’uno era il caro e non rimpianto Philippe.
«Passando dalla stazione militare ne avremmo visti di meno,» mormorò, mentre i primi della fila già sollevavano i propri documenti sotto gli occhi poco vivaci dei soldati.
Lo sentì solo Tunde, forse, perché si girò verso di lui e sorrise. «Non deve esserci molto da fare, su questo pianeta. Lascia che si divertano. Almeno, controllare i nuovi li farà sentire utili.»
Davide non era proprio dello stesso parere, ma lasciò perdere. La colonna di coloni, intanto, aveva rallentato di parecchio il passo scorrevole di poco prima. Adesso, la danza prevedeva due o tre passi avanti, stop, altri due o tre passi avanti, altro stop. E intervalli lunghi, nel mezzo. La donna che li guidava non si vedeva più, almeno dal punto in cui si trovavano loro: doveva essersi fermata oltre il blocco militare, pronta ad accompagnare i coloni verso la tappa successiva, qualunque fosse.
Speriamo che sia fuori di qui, pensò Davide. Non gli avevano mai dato problemi i luoghi chiusi, ma adesso, dopo il viaggio e la stazione orbitale, sentiva che aveva bisogno di una cosa soltanto: di aria aperta, senza muri attorno e senza un tetto sopra. Aria come quella che forse avrebbe respirato sul nuovo mondo, se soltanto gli avessero permesso di uscire. Se, appunto.
Ancora una decina di persone li separava dai soldati, adesso. Prepararono i documenti con tutto l’entusiasmo della rassegnazione, e Sebastian si lasciò andare a un «A saperlo, mi sarei fatto tatuare la tessera in fronte, così facevamo prima». Forse un soldato lo sentì, perché rivolse loro uno sguardo severo ma non troppo, con sfumature di intensa noia esistenziale.
Davide non era tranquillo. I soldati sembravano fin troppo seri, per un controllo di pura routine, e forse non era un controllo di pura routine. Forse cercavano qualcuno. Forse avevano ricontrollato la lista degli Isolazionisti (perché ne avevano una, senza dubbio) e si erano accorti che quel colono dal nome Bruno Kitzis assomigliava un po’ troppo all’Isolazionista Davide Kori. O forse no, forse non sapevano chi fosse, ma solo che aveva un documento falso e così adesso controllavano di nuovo le identità di tutti, magari confrontandole con un elenco. Qualcuno aveva parlato, era chiaro. Oppure...
«Tutto bene?» gli chiese Tunde. Sembrava preoccupata e Davide non le poteva dare torto. Se la sua faccia era davvero un qualche tipo di specchio dei suoi sentimenti, allora doveva essere alquanto brutta. Una faccia da malato, se non da cadavere insonne.
«Tutto bene,» le rispose, «è solo che... Devo essere un po’ stanco, insomma. E poi non ne posso più di questi blocchi e di questi posti,» aggiunse. «Voglio solo uscire e respirare aria vera. Mi sento in scatola, qui dentro.» Ed era ancora più vera, come immagine, perché aveva osservato lo spazio intorno, senza trovare una sola via di fuga. Se volevano arrestarlo, era in trappola. Allegria.
Tunde annuì. «Sì, ti capisco. A forza di restare tappati dentro, credo che siamo diventati un po’ tutti claustrofobici. Ma passerà, vedrai. Abbiamo un mondo intero, davanti, e a sentire cosa dicono è un mondo mezzo vuoto. Aria in abbondanza per tutti.» Sorrise.
Prima del mondo intero, però, c’erano i militari. Ed erano proprio davanti a loro, adesso. Sebastian Hahn mostrò i propri documenti a un soldato abbastanza giovane, ma con la faccia dura, da vecchio; lo stesso soldato che lo aveva guardato male, poco prima. Lo guardò peggio adesso, mentre studiava i suoi documenti e li confrontava con qualcosa sullo schermo di un palmare. Ogni possibile traccia di noia era sparita. Davide era pronto a scommettere la testa di Olaf che il soldatino stava cercando una buona scusa per fare lo stronzo con Sebastian, cioè con lo spiritosone di qualche minuto prima. A occhio, non ne aveva trovate e questo non lo rallegrava.
«Passa,» gli disse infine. «Ma vedi di non fare lo spiritoso. Siamo qui per proteggervi, non certo per divertirci. Capito?»
«Capito,» rispose Sebastian, tutto umile e dimesso, e passò oltre.
Fu poi il turno di Tunde Bohr, che a propria volta mostrò i documenti, attese che il soldato eseguisse qualsiasi operazione di confronto dovesse eseguendo (perché sì, ormai Davide ne era più che certo: li stavano confrontando con qualcosa, cercavano una persona in particolare) e alla fine passò oltre anche lei, andando a raggiungere Sebastian appena al di là del blocco.
Quando toccò a Olaf Selke, questi sorrise al soldato, si girò a dare una robusta pacca sulla spalla di Davide e poi mostrò i documenti. Il soldato li prese, li studiò a lungo, guardò prima in faccia Olaf, poi Davide, restituì tutto e annuì. «Può passare.» Olaf passò.
Davide non si era mai sentito così tranquillo, dai tempi delle interrogazioni di matematica in cui non sapeva nulla. Mostrò i documenti al soldato, si morse il labbro inferiore mentre questi li studiava e si dimenticò un paio di battiti cardiaci per strada, quando gli vide aggrottare le sopracciglia e alzare la testa, come a osservarlo meglio. «Ti aspettiamo qui,» gli disse Olaf, sorridendo come sempre.
Aspetta, aspetta, pensò Davide. Lo avrebbero accompagnato fuori con calma, in modo discreto? O lo avrebbero arrestato lì, armi in pugno, buttandolo a terra e ammanettandolo davanti a tutti? Solo una differenza di forma, certo, eppure si scoprì interessato, col distacco di chi ormai ha infilato la testa nel cappio e si chiede quanto tempo ci vorrà, prima di crepare male.
Non lo arrestarono. Il soldato lo guardò ancora una volta, poi gli riconsegnò i documenti. Davide fu libero, libero di passare oltre e riunirsi agli amici. Forse l’aveva scampata, forse era solo rinviata, ma poteva respirare. Cominciò a camminare verso di loro, incerto, quando Olaf lo afferrò per un braccio e lo trascinò avanti. «Muoviti, dai! Non so te, ma io voglio uscire di qui. Ho la vescica che mi scoppia e non voglio pisciarmi addosso il primo giorno su Madre.»
Davide non aveva problemi di vescica, ma era d’accordo sull’uscire in fretta. Metti che cambino idea e lo vengano a prendere... Via, via, di corsa! Raggiunsero i coloni che li avevano preceduti, in quello che sembrava un enorme e luminoso atrio. Appena più avanti, al di là della vetrata che riempiva una intera parete, c’era Madre. Madre e la luce del sole. Il colono Bruno Kitzis aveva raggiunto il suo futuro, in un modo o nell’altro. Poteva respirare.
Erano già usciti quando ci fu l’arresto, pochi minuti dopo.
Se Davide Kori era stato nervoso, Kemala Kexin lo era molto di più. Aveva il pianeta sotto i piedi, finalmente, quel pianeta che altre forme di vita intelligenti avevano calpestato e modellato, milioni di anni prima, e questo era bene. Aveva anche un ennesimo blocco militare a separarla dal mondo vero e proprio, il mondo fuori dagli edifici e fuori dal controllo umano, e questo era male.
Aveva seguito a testa bassa la processione di coloni, mentre si avvicinavano ai soldati, e le sue varie ipotesi non erano state molto diverse da quelle di Davide. Perché un altro blocco, appena prima di uscire? Era davvero necessario, dopo tutti i controlli che avevano già superato? La logica diceva di no, a meno che... A meno che non avessero qualche sospetto, tanto per cominciare. Oppure, poteva essere arrivata una segnalazione dalla Terra. O ancora, potevano aver notato qualcosa di insolito in un precedente controllo, magari emerso soltanto con un’analisi più approfondita. Potevano esserci mille ragioni e mille motivi, ma il punto rimaneva lo stesso: cercavano qualcuno (o qualcuna) e non volevano che potesse uscire sul pianeta.
In quanto lakshmita e portatrice di pestilenze, secondo la vulgata ufficiale, Kemala Kexin si sentiva la prima indiziata. Niente di imprevisto e niente di strano, in fondo. Che l’avrebbero scoperta era un dato che aveva già messo in preventivo, da tempo: i suoi unici dubbi riguardavano il come, il dove e il quando. Essere arrestata ai piedi dell’ascensore, su Madre, era spiacevole, ma lontano dall’essere il peggiore dei casi. Almeno era arrivata sul pianeta e il suo piano prevedeva comunque, più o meno a questo punto, di annunciare la propria presenza e chiedere formalmente di poter essere aggregata al gruppo degli archeologi.
Presentarsi con le manette ai polsi, però, avrebbe avuto un impatto un po’ diverso.
Kemala aveva sperato di potersi presentare presso una sede governativa, come persona libera (e clandestina, ok, ma erano dettagli); avanzare la propria richiesta da dietro le sbarre di una prigione, invece, sarebbe stato meno piacevole. Molto meno piacevole. Senza contare i misteriosi incidenti che, secondo le tante leggende che circolavano persino su Lakshmi, potevano accadere nelle carceri terrestri ai prigionieri non graditi. Leggende così radicate e apprezzate, da aver prodotto persino un proprio genere letterario: storie immaginarie di lakshmiti che, per un motivo o per l’altro, finivano in galera mentre erano sulla vecchia Terra e dovevano sopravvivere a supplizi terribili e umilianti, che la fantasia dell’autore di turno sfornava in abbondanza. Sperando che fossero tutte fantasie.
Il carcere, però, era quasi una certezza, se stavano cercando lei.
Choi avrà già contattato l’ambasciatore?, si chiese. Dalla risposta poteva dipendere tutto. Le aveva indicato un tempo limite, entro il quale l’avrebbe contattata da Madre, ma non sapeva se fosse già scaduto oppure no. Tra viaggio e permanenza sulla stazione, era stato fin troppo semplice perdere il conto dei giorni e ancora non aveva avuto occasione di vedere un calendario, lì a terra. Erano tutte uguali, le ore dell’attesa...
Più avanti nella fila vide un gruppetto di ragazzi che si attardavano presso il blocco militare. Per un attimo si illuse che non stessero cercando lei, ma qualcun altro, un terrestre, uno che magari era fuggito dopo aver combinato qualcosa, un reato, possibilmente un bell’omicidio. Un assassino in fuga, arrestato dai soldati e malmenato un poco, tanto per rilassarsi: avrebbe restituito un sorriso a tutti, ne era sicura. Un bell’arresto aiuta sempre a sciogliere la tensione e rendere più disponibili le guardie, di questo era sicura. Avrebbe anche alleggerito la pressione che si sentiva addosso, il che era ancora meglio.
Quel ragazzo dai capelli neri, magari? Era ancora fermo davanti al militare, mentre i suoi amici erano passati oltre. Poteva esserci qualcosa nei suoi documenti che... Ma poi lo lasciarono andare e sparì dietro l’angolo, assieme agli altri. Niente da fare. Kemala sospirò e alzò le spalle. Era tra gli ultimi e ciò le avrebbe almeno risparmiato l’umiliazione di un arresto davanti a tutti. Non che le cambiasse molto le prospettive, ma non le piaceva dare spettacolo, neppure davanti a sconosciuti che non avrebbe mai più rivisto in vita propria.
La fila intanto procedeva. Dietro di lei, l’ascensore era ripartito verso la stazione, per il prossimo carico di coloni. Avrebbe consumato l’energia accumulata durante la discesa, in un sistema che era quasi perfetto, almeno sotto il profilo del riciclo energetico; peccato che i sistemi umani non fossero altrettanto perfetti, e in nessun campo, altrimenti a Kemala sarebbero state risparmiate tutte quelle difficoltà. Pazienza, dopotutto se l’era cercata. La responsabilità era soltanto sua.
Ripassò di nuovo il vago progetto che aveva formulato nelle ore precedenti e che, al momento, si articolava attorno a due varianti: arresto immediato e arresto successivo. Il blocco militare era, per il momento, l’ultima possibilità di arresto immediato; se l’avesse scampata, avrebbe potuto eliminare quella biforcazione e concentrarsi sulla rimanente. Se, appunto. Se invece non l’avesse scampata, si sarebbe comunque persa la seconda strada, per cui da un certo punto di vista il percorso ne sarebbe uscito semplificato. Ma era pronta a quella possibile strada?
Più o meno, si disse, ma mentiva. Kemala credeva di essere pronta, ma ogni sua convinzione sparì, quando si ritrovò di fronte al soldato e gli tese i documenti. Karla Koch, dicevano, nata e cresciuta sulla Terra. L’età indicata era ventidue, che non era proprio identica alla sua vera età, anche dopo la conversione degli anni lakshmiti in anni terrestri, ma era abbastanza verosimile. Non aveva resistito alla tentazione di limare qualcosa, già che c’era. Chi vuoi che se ne accorga?, aveva pensato.
Non se n’erano accorti, infatti, o almeno erano stati così discreti da non dirle nulla. Il soldato che aveva di fronte, invece, doveva essersi accorto di qualcosa, perché alzò la testa, la fissò e trafficò un poco col palmare. Kemala poteva sentire i pochi coloni rimasti dietro di lei, che borbottavano e si muovevano impazienti. Aspettate e non rompete!, pensò.
«Lei è la signora Karla Koch?» le chiese il soldato.
«Signorina Karla Koch,» rispose Kemala. «Sì, sono io.»
Nuova pausa, mentre il soldato toccava qualcosa sullo schermo. «La prego di attendere un istante,» disse infine, alzando una mano. Kemala si masticò le labbra, spostando il peso dal piede destro al piede sinistro, e ritorno. Beccata, pensò. Da dietro, qualcuno con una voce stridula e piacevole come un dito in un occhio si lamentò del tempo che gli facevano perdere. Il soldato lo guardò parecchio male, poi si girò di lato e fece un cenno a una collega. La collega si alzò e si avvicinò.
Kemala la studiò con attenzione, fingendo di essere calma, mentre dietro la maschera bolliva come il calderone di una strega. Più una ragazza che una donna (doveva essere coetanee, a occhio), aveva spalle larghe, capelli scuri a spazzola e la faccia di chi non ride mai sul posto di lavoro, neanche per una barzelletta di un collega. Non rideva adesso, chinandosi verso il collega e guardando prima i documenti che le porgeva, poi lo schermo. Si raddrizzò e la sua faccia, squadrata ma non brutta, era ancora meno incline alla risata di quanto non lo fosse un minuto fa. Su una spalla aveva dei simboli che potevano forse indicare il grado: Kemala non li riconosceva. I gradi militai non erano mai stati tra i suoi interessi, neppure per sbaglio.
«Karla Koch, eh?» le chiese la ragazza soldato. «Karla Koch dalla Terra.»
Kemala tentò di sorridere. «I documenti dicono così, no?»
Non funzionò. «Sono abbastanza sorpresa che l’abbiano lasciata arrivare fin qui,» le rispose. «Ma è probabile che non si aspettassero una stupidaggine del genere. O lei è una pazza completa, oppure la sua faccia deve essere davvero identica a un’altra parte della sua anatomia.»
Kemala abbandonò il sorriso. Anche se l’inglese imbastardito non era la sua lingua, capiva lo stesso quando la insultavano. «La ascolto, signora soldato. Mi dica pure.»
«Sergente,» la corresse. «E sono anche io signorina, proprio come lei ha appena puntualizzato di se stessa, parlando col mio collega. Ma mi chiami sergente.»
«D’accordo, sergente. Cosa posso fare per lei?»
«Qual è il suo pianeta di origine? Quello vero, intendo, non il pianeta che hanno scritto su questa roba,» aggiunse, agitando la tessera come se fosse carta igienica usata da un altro.
Kemala considerò se valesse la pena di continuare a fingere, magari mostrandosi indignata, offesa, gridando allo scandalo e così via, come aveva visto più volte sulla Terra. Decise che non ne valeva la pena. Visto che tanto, prima o poi, avrebbe dovuto confessare, era meglio farlo subito e uscire di lì con dignità, invece di farsi buttare fuori a calci, come una piattola terrestre. E poi, che vada come deve andare. «Lakshmi,» rispose a testa alta e un tentato sorriso, che in realtà sembrò più che altro una contrazione nervosa delle labbra.
«Lakshmi!» ripeté il sergente, pronunciandolo come uno sputo. «E come mai qui c’è scritto Terra, allora? Me lo sai spiegare, lakshmita?»
Era passata dal lei al tu, ma Kemala non vi fece caso. Non era molto abituata alle forme di rispetto terrestri e non aveva ancora capito bene come funzionassero. Anche se le avesse capite, però, non vi avrebbe fatto comunque caso. Non adesso. «Certo che glielo so spiegare, sergente. Perché è l’unico modo per poter arrivare su questo pianeta. Avrei preferito arrivarci col mio nome e col mio lavoro, ma mi è stato negato più volte. Così, mi sono arrangiata.»
Il sergente sembrò perplessa. «Arrangiata?»
«Sì, esattamente. Siccome il vostro governo mi ha negato l’autorizzazione a raggiungere Madre con un incarico di archeologa, che sarebbe la mia professione, ho deciso di forzare la mano e venire io stessa qui, per convincervi.»
«Con una falsa identità, e da clandestina.»
«Con una falsa identità, sì, ma non proprio come clandestina. Almeno, non se il termine clandestina ha lo stesso significato che conosco io. Ho nascosto la mia identità, non la mia persona.»
Il sergente sbuffò. «Dettagli. Sei consapevole almeno che è vietato l’accesso a voi lakshmiti? O non ti è mai interessato questo piccolo particolare, eh?»
«No, ne sono consapevole. Avete dichiarato lo stato di quarantena e avete bloccato i contatti con Lakshmi, lo so, ma...»
«Allora perché sei qui, su un pianeta a cui ti è legalmente proibito l’accesso?» La voce del sergente continuava a salire e ormai la fissavano tutti, sia i coloni ancora in attesa, dietro Kemala, sia i soldati che componevano il blocco. Quello che aveva l’incarico di controllare i documenti, seduto lì accanto, sembrava vagamente in imbarazzo e molto meno rigido di quanto fosse stato prima.
«Perché voglio essere accolta come archeologa,» rispose Kemala, guardando il sergente negli occhi. «Il pianeta potrà anche appartenere a voi, ma le rovine sono un patrimonio di tutta l’umanità, non della Terra. Tutti abbiamo diritto a studiarle.»
«Studierai le nostre prigioni. Tutti hanno diritto a soggiornarvi, se infrangono le nostre leggi. Tu le hai infrante, punto. Se non ti va bene, parlane col tuo avvocato. Non hai mai pensato che, forse, c’era un motivo se non sei stata accettata?»
«Un motivo irrilevante. Non mi avete accettata per le mie origini, non per le mie credenziali o per le mie capacità. Quindi, questo giudizio per me non ha alcun valore. Sono su Madre e ci resterò, a studiare.»
«Sei su Madre e ci resterai, in galera. Non so cosa ci sarà da studiare lì, ma buono studio.»
Altri soldati si avvicinarono, con le armi in pugno. Erano puntate verso il basso, certo, ma Kemala sapeva che non ci avrebbero messo molto a puntarle contro di lei. Alzò le mani, senza resistere. «Vi faccio solo presente che su Lakshmi sanno del mio arrivo qui,» disse «Entro breve, sono certa che vi arriverà una comunicazione dal nostro ambasciatore sulla Terra.»
Il sergente la fissò. «Sai cosa me ne frega?» Kemala non rispose: poteva immaginarlo.
Le tolsero il bagaglio, la perquisirono e le bloccarono le mani dietro la schiena. Ebbe solo il tempo di vedere le facce dei coloni dietro di lei, che la osservavano come uno scarafaggio che emerge dal tuo piatto, nel mezzo del pranzo. Si spostarono, quasi fosse infetta, e forse lo era davvero, per loro. Poi la mano nel sergente la spinse al centro della schiena e Kemala Kexin cominciò a camminare scortata dai soldati, verso la prigione. La sua avventura personale cominciava.