Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 3

«Matteo Kori, ti presento Lakshmi: per i prossimi quattro anni, questa sarà la tua casa. A meno che tu non decida di fuggire in anticipo, è ovvio. Che te ne pare?»

Ma le parole di Bogdan era soltanto un brusio di sottofondo, per Matteo. Le sentiva e il suo cervello le registrava, in un qualche modo, ma la sua attenzione era altrove. Era fissata sullo spettacolo che si apriva sotto di lui, circa quarantamila chilometri più in basso, e verso cui l’ascensore li portava rapidamente. Lo stesso spettacolo che Bogdan gli indicava, oltre i pannelli. Lakshmi.

Aveva visto la Terra dalla stessa prospettiva, due settimane prima, ma non lo aveva colpito tanto. Un panorama splendido, certo, ma anche un panorama a cui era abituato da sempre. Chi non aveva mai visto almeno una volta, nella propria vita, una immagine della Terra dalla stazione orbitale, o da un qualche altro satellite? Nessuno. Era quel tipo di immagine con cui tutti sono familiari, fin dalla nascita o dai primi giorni di scuola, come la forma del paese in cui sei nato. Un’immagine tanto familiare, quando il proprio volto allo specchio. Vederla dallo spazio era stata solo una conferma.

Lakshmi era diversa.

Era diversa non per l’aspetto, per la forma, per il colore, che invece assomigliavano parecchio alla Terra, come probabilmente è il caso per ogni altro pianeta abitabile dall’uomo. I colori erano più o meno gli stessi della Terra, anche se ovviamente erano distribuiti in modo diverso, come diversa era la forma delle masse continentali, la loro posizione, la loro estensione. Pareva anche che ci fosse più acqua rispetto alla Terra, ma quello era probabilmente dovuto alla posizione in cui si trovava il loro ascensore: se qualcuno avesse raggiunto la Terra calando sul Pacifico, avrebbe di sicuro pensato che il pianeta fosse fatto solo di acqua, con qualche sputo di roccia qui e là.

L’aspetto di Lakshmi era diverso rispetto alla Terra, ma era diverso in un modo familiare, che non colpiva Matteo più di tanto. Ciò che lo colpiva davvero era una idea. Quel mondo, disteso sotto di loro, era un mondo alieno. Non il pianeta su cui l’umanità era nata e si era sviluppata, il pianeta che occupava legittimamente, ma un pianeta che l’uomo aveva conquistato e addomesticato, un pianeta che dell’uomo non sapeva nulla e a cui, forse, non interessava nulla. Un pianeta che aveva prodotto altre forme di vita, ma che la razza umana aveva fatto proprio. Lakshmi, una Colonia, prima colonia che Matteo avesse mai visto.

Soltanto adesso, su una stazione orbitale sospesa sopra un mondo alieno, Matteo Kori cominciava a capire davvero cosa fosse una Colonia. Non era come fondare una nuova città, o come costruire una nuova casa; non era nulla che avesse un termine di paragone comprensibile, per chi non aveva mai lasciato la Terra. Colonizzare un altro mondo era un’opera immensa, la più grande di tutte le Grandi Opere. Eppure ci erano riusciti, ci erano riusciti più volte, ormai. A un prezzo schifosamente alto, se era vera anche solo la metà di ciò che aveva sentito, ma ci erano riusciti.

«Scenderemo nella città di Mathurnath, che si trova sul continente settentrionale» disse Bogdan. «La nostra meta finale, Varshi si trova più a nord, abbastanza vicino al golfo che vedi là» e indicò la zona a cui si riferiva. Matteo la registrò di sfuggita. «Come ho detto, ce la potremo cavare in sei ore di viaggio, se riusciamo a prendere il primo collegamento. Dovremmo riuscire a prenderlo, almeno in teoria, se non ci saranno problemi» aggiunse, controllando l’orario. «Di solito non ce ne sono, ma è sempre meglio aspettare di essere a bordo, giusto per precauzione.»

Matteo annuì distratto. «Quello sarebbe un polo?» chiese, indicando una zona biancastra ai margini, resa più confusa e imprecisa da quelle che lui riteneva nuvole, o roba simile.

«Polo nord, sì. Più piccolo di quello terrestre, come vedi. O come non vedi, forse» si corresse subito dopo. «Non so quanto tu sia abituato a vedere pianeti da questa distanza. A ogni modo, è un polo ed è più piccolo di quelli terrestri. La temperatura media di Lakshmi è superiore a quella terrestre, per cui è probabile che ti ci vorrà un po’ per abituarti, sopratutto se non ami molto l’estate.»

«Io vengo dalla zona Mediterranea.»

«Varshi è più calda tutto l’anno. Ma ti abituerai. Ci siamo abituati tutti, anche se per chi viene da zone più fresche è una bella botta.»

Matteo annuì, senza molto interesse. Lakshmi correva verso di loro e si ingrandiva pian piano, un dettaglio alla volta. I contorni diventavano più precisi, negli spazi senza nubi, e il verde che prima appariva omogeneo, coprendo quasi ovunque le aree continentali, adesso si sfilacciava, altri colori vi si mischiavano, nuove sfumature nascevano. Emergevano le montagne, catene marrone con varie spruzzate di bianco, più frequenti nella parte alta del panorama, più rare verso il centro, quasi una muraglia in alto a destra. Bogdan probabilmente avrebbe saputo indicargli i rispettivi punti cardinali e la direzione in cui era orientato il panorama, ma per adesso non avevano importanza. La scena da sola era più che sufficiente, per Matteo.

«A Varshi troverai tutto ciò che ti serve» continuava Bogdan, nel suo ruolo di cicerone. «Ciò che non trovi lo puoi sempre ordinare, ma è improbabile che capiterà, a meno che tu non abbia interessi e passatempi davvero strani. Come ho detto, è principalmente una città universitaria, per cui dovrai andare in una delle città vicine, se vorrai cercare divertimenti più intensi: nessuno te lo vieterà, ma è possibile che alcuni dei lakshmiti più rigorosi non apprezzeranno l’idea. Se scegli di dedicarti a qualcosa, ci si aspetta che tu lo faccia seriamente, dato che dovrebbe essere qualcosa che fai perché ti piace e perché vuoi farlo.»

Matteo continuava ad annuire, ascoltando a metà. Dovevano essere ormai vicini all’arrivo, anche se non avrebbe saputo dire quanto, e in qualunque direzione c’era spazio solo per Lakshmi, nella parte di esterno visibile dalla cabina. Sperava di poter vedere anche la sagoma dei maggiori agglomerati urbani, ma non aveva idea di che aspetto avessero, né di dove fossero. Secondo quanto gli aveva raccontato Bogdan, durante il viaggio, dall’alto apparivano più piccole delle città terrestri, ma anche molto più precise e ordinate nella loro disposizione. Il che non era strano, dato che le città non erano spuntate a caso, come sula Terra, né avevano attraversato una fase di selezione naturale, che aveva permesso di prosperare solo ad alcune, mentre altre si erano spente in villaggi. Qui avevano prima scelto il posto in cui fondarle e poi le avevano costruite. Razionalmente, con metodo.

Avrebbe avuto altre occasioni per vederle. Inoltre, la zona verso cui stavano scendendo sembrava avvolta da nubi, come gli spiegava Bogdan in sottofondo, per cui non poteva sperare che ci fosse molto da vedere. Dettagli secondari: per adesso, si accontentava di abbracciare quanto più possibile del pianeta dall’alto. Il suo primo pianeta alieno. Grossomodo.

Ai margini della sua attenzione, Matteo coglieva anche i suoni degli altri passeggeri, che come lui guardavano il panorama e commentavano. Alcuni parlavano in lakshmita, ma troppo veloci per i suoi gusti: capiva un certo numero di parole e aveva più o meno una idea di cosa stessero dicendo, ma la lingua viva era molto diversa da ciò che aveva studiato sulla Terra. Un altro problema per lui e un’altra cosa a cui si sarebbe dovuto abituare. Altri parlavano in lingue che gli erano ignote e che supponeva essere i dialetti sviluppati sugli altri pianeti coloniali. Come sarebbe stato più semplice avere una lingua sola per tutti...

Tentativi erano stati fatti, ma con limitato successo. Esisteva una sorta di lingua artificiale comune, poco più di un meltingpot delle vecchie lingue locali più diffuse, ed era studiata come prima lingua straniera più o meno ovunque, per quanto ne sapeva lui, ma i risultati effettivi lasciavano parecchio a desiderare: non erano migliori di quelli ottenuti dall’inglese, qualche secolo prima. In un futuro più o meno lontano, forse, si sarebbe arrivati a una reale soluzione, ma per adesso ci si arrangiava alla meno peggio.

Matteo aveva studiato il lakshmita, che era fondamentalmente un miscuglio di hindi e inglese, con una spruzzata di cinese cantonese e sfumature raccolte strada facendo: rappresentava i primi coloni, indiani per la maggior parte, ma rappresentava anche gli oltre due secoli trascorsi da allora, che sul piano linguistico avevano lasciato un segno profondo. Non semplice da digerire, certo, ma non la cosa più difficile che lui avesse dovuto studiare, anche se il dialogo restava una brutta bestia: non si trovavano madrelingua lakshmiti con cui esercitarsi, sulla Terra, o almeno non dove viveva lui.

Adesso ne avrebbe avuti a volontà. Poteva solo augurarsi che il suo compagno di alloggio, nonché suo tutore durante il primo periodo lakshmita, fosse una persona comprensiva e disponibile, come Bogdan gli aveva assicurato che sarebbe successo (normalmente). Gli restavano solo poche ore per scoprirlo.

Quando Matteo Kori ebbe aperto la porta della sua nuova stanza, in una delle tante residenze per studenti di Varshi, due cose lo colpirono, prima di tutto il resto: i bagagli e il ragazzo. Entrambe le cose erano previste, entrambe normali, entrambe anticipate in portineria, quando aveva presentato le proprie referenze e chiesto della camera che in teoria sarebbe dovuta essere stata preparata per lui. Eppure, entrambe le cose lo sorpresero, confermandogli ciò che tutto il resto del viaggio gli aveva già urlato in faccia. Era su un altro pianeta, in un’altra società, ed era inutile cercare le sue abitudini terrestri, in quel luogo: non le avrebbe trovate.

I suoi bagagli erano stati sistemati con cura accanto a un armadio, presumibilmente quello destinato a lui: Bogdan gli aveva ripetuto che era inutile preoccuparsi delle valigie, perché sarebbero state recapitate a destinazione prima di lui, ma verificare che tutto ciò era successo davvero gli giunse come una sorpresa. All’uscita dall’ascensore, Matteo si era preoccupato per il suo bagaglio, come era abituato a fare sulla Terra. A parte la valigetta con gli effetti personali, che aveva usato durante il viaggio, tutto il resto doveva ancora essere sulla nave. Lo scaricavano sempre dopo. Ma quando? Come avrebbe fatto a ritirarlo? E dove doveva andare a ritirarlo?

«Non ti preoccupare» aveva detto Bogdan Stratos, sorridendogli mentre lui si agitava. «Lo troverai nel tuo futuro alloggio, già là che ti aspetta. Lo hanno scaricato prima che noi scendessimo e adesso sarà in viaggio verso Varshi, assieme alle mie valigie. Il sistema di trasporti è molto efficiente, qui su Lakshmi» aveva aggiunto. Era vero, a quanto pareva. Primo punto per la colonia.

Il ragazzo aveva all’incirca la sua età e doveva essere il suo compagno di stanza, la famosa balia che si sarebbe occupata di lui. Un giovane di media altezza, forse sul metro e settanta, coi capelli neri e lisci, gli occhi neri e la pelle scura, di una tonalità tenue di marrone. Origine indiana, sicuramente. Su Lakshmi, la popolazione originaria dell’India e del Sudest asiatico costituiva il gruppo di maggioranza, anche se le vecchie etnie si erano mescolate liberamente, sul nuovo mondo, ed era frequente trovare miscugli insoliti, agli occhi tradizionalisti di un terrestre. Il suo compagno, però, sembrava abbastanza indiano, almeno per quanto ne poteva capire Matteo.

Qualunque fosse il paese di origine dei suoi antenati, però, aveva un’aria tranquilla. Sorrideva e si avvicinava con la mano tesa, in segno di amicizia, o forse per presentarsi. Era un buon inizio, per Matteo. Se poi avesse anche scoperto che il suo compagno era taciturno, studioso e magari iscritto al suo stesso corso di laurea, poteva addirittura credere all’esistenza degli dèi, oppure all’esistenza di amministratori preparati ed efficienti, su Lakshmi, il che era ancora più incredibile, per il metro terrestre. Si sarebbe però accontentato di un tipo che non lo disturbasse troppo, mentre studiava.

Scoprì che, chiunque lo avesse scelto, aveva fatto un ottimo lavoro.

«Tu sei Matteo Kori, giusto? Io sono Rabindranath Sharma, piacere di conoscerti» si presentò il suo nuovo compagno, chinando leggermente la testa. Parlava lentamente, scandendo con cura le sillabe, e per questo Matteo gli fu più che grato.

«Già, sono Matteo Kori. Piacere di conoscerti, dunque... ehm... Sharma.» Dubitava di riuscire mai a pronunciare correttamente il primo nome del compagno. Poteva solo sperare che usare il cognome non fosse una offesa, su Lakshmi.

«Sì, corretto. Siamo abituati a utilizzare il secondo nome, per chiamarci, ma non credevo che questa usanza fosse nota anche su altri pianeti. Complimenti per la tua preparazione.»

«Ah, no, non sono così preparato» si scusò Matteo. «È solo che dubito di saper pronunciare il tuo primo nome. Io invece sono più abituato a essere chiamato col primo, ma fai pure come preferisci, non è un problema.»

Il sorriso di Sharma sembrò più divertito, adesso. «Vada per Matteo, dunque. Me lo ricorderò. Come puoi vedere» aggiunse, «questa è la nostra stanza. Non esattamente spaziosa, ma noi lakshmiti non siamo proprio un popolo da interni, come scoprirai. Le aree comuni della residenza sono molto più ampie e confortevoli, non ti preoccupare. Spero che ti potrai trovare bene, qui.»

Matteo si guardò attorno con più attenzione. Adesso che vi faceva caso, la stanza era piuttosto larga, più di quella che aveva a casa sua. Anche i mobili erano di qualità migliore rispetto a quanto si sarebbe aspettato. Paragonata poi alla cabina in cui aveva speso le ultime due settimane, durante il viaggio, era praticamente una suite imperiale. Dunque era considerata poco spaziosa, lì? Piuttosto interessante. Quel pianeta aveva una scala di valori tutta da esplorare, fra le altre cose.

«Mah, direi che come dimensioni non è male» commentò. «Gli alloggi destinati agli studenti, sulla Terra, sono decisamente più piccoli e... non molto belli, in media. Non mi posso certo lamentare.»

«Ottimo. Hai bisogno di aiuto, per sistemare i tuoi bagagli? Hai qualche domanda sulla università, sul pianeta, su altro? Chiedi pure. Il mio dovere è anche di aiutarti a inserirti in questo mondo.»

«Per i bagagli ci penso da solo, grazie. Non è molto. Avrei però parecchie domande. Il compagno che avevo durante il viaggio mi ha anticipato un po’ di cose, ma ci ho capito ben poco. Mi pare però che il vostro pianeta funzioni in un modo un po’ diverso, rispetto al mio.»

«Possibile» disse Sharma, sempre sorridendo. «Non mi è molto nota l’attuale società terrestre, ma il nostro pianeta possiede peculiarità che lo distinguono anche dalle altre colonie, per cui è probabile che a te possa apparire alquanto strano. Spero non sgradevole, tuttavia.»

«No, no, sgradevole no» si affrettò a rispondere Matteo, mentre cominciava a sistemare nei cassetti i suoi vestiti. «Insolito sì, almeno per me. Soprattutto... la questione del denaro. O meglio, l’assenza di denaro.»

«Sì, immaginavo. È vero, quando Lakshmi è stata fondata, si è ritenuto opportuno non includere il denaro, nella struttura della società. Lo si è ritenuto un elemento superfluo, per non dire dannoso. È una questione alquanto filosofica, alla base, e non so quanto ti possano interessare questi dettagli, se non è il tuo campo di studi, ma gli aspetti pratici sono molto più semplici da spiegare.»

«Per caso la filosofia è il tuo campo di studi, invece?»

«Sì, esatto. Studente al primo anno.»

«Capisco. Io invece sarò al primo anno di letteratura, ma usa pure la filosofia. In piccole dosi.»

«Come preferisci. Su un piano pratico, tutti i beni sono prodotti dalle macchine: vestiti, cibo, case e così via. La macchine sono considerate parte del pianeta, in termini di diritto, proprio come lo sono gli alberi, i fiumi e tutte le altre risorse naturali. Di conseguenza, prendere e utilizzare i beni prodotti dalle macchine non è diverso dal cogliere un frutto o bere a una sorgente. Sono cose prodotte per chiunque ne abbia bisogno e a cui tutti hanno diritto di attingere.»

Matteo annuì. Non aveva mai bevuto a una sorgente o colto un frutto da un albero, in diciannove anni di vita, ma capiva l’analogia. Non appariva molto più convincente del discorso fatto da Bogdan sulla nave, ma a quello avrebbe pensato poi.

«Come forse saprai, il denaro è fondamentalmente un’astrazione del valore. A ogni oggetto, a ogni prodotto, è assegnato un certo valore, che è calcolato sulla base di utilità e preziosità dell’oggetto, a cui si unisce il lavoro necessario per produrlo. Sono stime piuttosto arbitrarie, nel complesso, che dipendono da tempi, luoghi e molto altro: in un luogo e in un tempo, un oggetto può essere stimato di maggior valore, rispetto allo stesso oggetto in tempi e luoghi differenti.»

«Uhm, ok.» Matteo non si era mai trovato molto a proprio agio con economia e roba simile e il suo compagno di stanza stava virando troppo in quella direzione, per i suoi gusti. Non aveva parlato di un discorso filosofico? Dove era finita la filosofia? Forse su quel mondo ne avevano un concetto diverso, rispetto a quello a cui lui era abituato.

«Vedo che il discorso non ti affascina particolarmente» disse Sharma, senza perdere quel sorriso serafico che Matteo aveva già cominciato a identificare come una parte della sua natura.

«Beh, sono più orientato verso la letteratura, che la filosofia o l’economia. È molto interessante, sia chiaro, ma non è proprio il mio campo. Preferirei qualche aspetto più... pratico, sì. Come regolarmi quando mi serve qualcosa, insomma.»

«Come preferisci. In pratica, quando hai bisogno di qualcosa, ti rechi in un centro di distribuzione per quel particolare bene che ti serve – un negozio, se ti è più chiaro – e lo prelevi. Quando non ti serve più, ti rechi in un centro di raccolta per quel particolare bene e lo depositi lì.»

«Quindi è come prendere in prestito qualcosa.»

La fronte di Sharma si aggrottò. «Non è proprio come lo avrei descritto io e non è proprio corretto, ma se questo ti facilita la comprensione, allora puoi immaginarlo così. In ogni caso» aggiunse, «se ti serve qualcosa, avvisami: ti accompagnerò e ti mostrerò in concreto come funzioni il sistema, così in futuro potrai provvedere da solo.»

Sì, questo era un buon compromesso. Era probabile che gli sarebbe occorso parecchio tempo, prima di comprendere tutti i più oscuri e strani meccanismi di quel mondo, ma per il momento Matteo si poteva accontentare di imparare a utilizzare l’interfaccia di Lakshmi: agli ingranaggi e alle basi di quella società, al limite, avrebbe pensato in futuro, se mai si fosse rivelato necessario.

«Altre domande?» chiese Sharma.

Matteo sedette sul letto a lui destinato, cercando di rimettere ordine nei pensieri. Domande? Una persona appena arrivata su un altro mondo ne ha a migliaia, ma da dove cominciare? E soprattutto, fino a dove arrivare? D’accordo che Sharma era il suo nuovo compagno di stanza e che uno dei suoi ruoli era di fargli da balia, ma non voleva abusare di lui, almeno non dal primo giorno. Ripercorse il viaggio fino a Varshi, in compagnia di Bogdan, e ripensò a tutto ciò che aveva visto. Quale era il particolare più urgente?

Qualcosa relativo a Varshi, dove avrebbe vissuto per i prossimi quattro anni. Era grande, molto più grande di quanto si sarebbe aspettato. Era davvero una città, non un campus molto largo, come lo aveva immaginato lui. Raggiungendo il suo alloggio, aveva visto diversi tipi di negozi, o di centri di distribuzione, come li aveva chiamati Sharma; aveva visto palazzi con l’aspetto di condominî, un palazzetto dello sport, e anche quello che sembrava un centro commerciale, ma che probabilmente era un’altra cosa o aveva un altro nome, dato lo strano funzionamento dell’economia sul pianeta. E qua e là, sparsi in mezzo al resto, spuntavano sedi universitarie, contraddistinte dallo stesso simbolo che compariva sui documenti di iscrizione di Matteo.

L’architettura richiamava in effetti quella che, sulla Terra, era considerata arte indiana, soprattutto nel disegno delle cupole e nelle decorazioni delle case. Comprensibile, se davvero il pianeta era a maggioranza indiana. Il clima era gradevole, tiepido anche al tramonto, quando loro erano arrivati: più una fresca giornata estiva che un giorno di primavera, come invece sarebbe dovuto essere. Per la precisione, inizio primavera, come gli aveva spiegato Bogdan, e se quello era solo l’inizio, allora era chiaro che su Lakshmi non si sarebbe mai dovuto preoccupare per il freddo, ma soltanto per il caldo. La prospettiva non lo entusiasmava.

Di fronte all’ingresso della stazione, Matteo aveva ammirato la città nella luce del tramonto, i suoi tetti e le sue statue che luccicavano come oro, il gioco di riflessi nella fontana della piazza, accesa dagli ultimi raggi del sole e dai primi fari delle strade. Capiva le differenze di clima, capiva anche le differenze di architettura, ma ciò che ancora non aveva capito, e che davvero gli sembrava urgente, era la differenza di cultura. Di politica, forse. Di trasporti, si corresse. Imparare a muoversi in quel posto era certo una delle priorità del momento. Non poteva pretendere che Sharma gli facesse da guida in ogni momento del giorno. Quindi...

«Come funzionano i trasporti pubblici?» chiese al compagno.

Sharma lo fissò per un momento con occhi vuoti, poi si riprese. «Ah, i trasporti. Non mi è nota la struttura del tuo mondo, ma presumo che abbia una qualche distinzione tra pubblico e privato, sulla base delle tue parole, dove per “pubblico” intendi qualcosa messo a disposizione dal governo e per “privato” un servizio offerto autonomamente da gruppi di cittadini.»

«Uhm, qualcosa del genere, sì.»

«In questo caso, puoi dimenticare la distinzione, soprattutto se implica differenze di prezzi, o una qualche spesa. Come ho già detto, il denaro è stato omesso dalla struttura della società, per cui ogni altra distinzione analoga non si applica.»

«Sì, capisco.» Matteo cominciava a sentirsi come il personaggio di un dialogo socratico, il cui solo apporto alla discussione consiste nel dire «Perbacco!», «È davvero così!», «Hai proprio ragione, o Socrate». Una prospettiva poco gratificante, ma ciò che lo impensieriva davvero era il modo in cui Sharma parlava. Aveva ingoiato un vocabolario? Era la forma colloquiale del lakshmita? Oppure il linguaggio così formale era un modo per venire incontro alle scarse capacità linguistiche che aveva attribuito al compagno, cioè il signor Matteo Kori? Forse era meglio non chiedere.

«Ci sono vari mezzi di trasporto, che puoi utilizzare liberamente» proseguiva Sharma. «Alcuni sono individuali e sono quella specie di tricicli coperti, che probabilmente hai già visto all’uscita della stazione. Li chiamiamo risciò, anche se hanno poco a che vedere coi risciò storici. È un nome che è stato scelto più che altro per ragioni sentimentali, all’inizio, ma ormai ha attecchito. Per usarli, tu entri e dichiari il luogo che vuoi raggiungere: il veicolo provvederà al resto. È estremamente sicuro, per cui non hai nulla di cui preoccuparti.»

Matteo annuì di nuovo. Questo era plausibile e non gli giunse come una grande novità: veicoli privi di pilota erano diffusi più o meno ovunque anche sulla Terra, con la differenza che a casa non erano gratuiti. Erano sicuri e la passeggiata attraverso Varshi, al seguito di Bogdan, gli aveva confermato che anche su Lakshmi non davano problemi. Anzi, da come manovravano, era probabilmente ben più sicuri di quelli terrestri, per i pedoni.

«C’è anche la metropolitana, se preferisci» continuò Sharma, «e in molti casi può essere più utile di un risciò. Se devi percorrere un itinerario fisso, ad esempio, o se ti vuoi spostare in un gruppo più numerosi della capienza massima di un risciò, allora la metropolitana è la scelta migliore. A meno che tu non soffra di claustrofobia, beninteso. Ne puoi trovare una fermata anche qui, scendendo nei piani interrati, e l’accesso è ovviamente libero.»

Ovviamente, si ripeté Matteo. Ovvio e superfluo da specificare per un lakshmita, ma per un terrestre appena arrivato era sempre meglio non dare nulla per sottinteso. Sì, glielo avevano assegnato come balia, senza dubbio, proprio come preannunciato da Bogdan.

«Hai altre domande?» chiese poi Sharma, alzando un sopracciglio, tecnica che come sempre accese in Matteo una vaga invidia. Gli ricordò anche Davide, per in attimo, ma il pensiero svanì presto.

«Una sola, per adesso: dov’è la mensa? E come funziona?»

«Siamo arrivati» disse Sharma, mentre la porta si apriva.

L’odore di spezie e di altre cose non ben definibili colpì Matteo, quasi stordendolo. Poi arrivò anche l’odore di cibo e il suo stomaco reagì positivamente. Ora di cena, senza dubbio, ma soprattutto ora di sperimentare la cucina lakshmita e scoprire se la mensa universitaria fosse pessima, come tutte le mense scolastiche. Sempre ammesso che quella fosse proprio la mensa universitaria.

Come gli aveva spiegato Sharma strada facendo, quasi nessuno su Lakshmi si prendeva la briga di cucinare in casa. Le città brulicavano di ristoranti, mense o come altro si volessero chiamare i posti in cui andare a mangiare: erano aperti tutto il giorno, erano automatici e il cibo era buono. Cosa chiedere di più alla vita? Ovviamente erano gratis, idea a cui Matteo cominciava ormai ad abituarsi. Alcune di queste mense erano rivolte a particolari clienti, come era il caso delle mense universitarie, ma era soltanto un modo per razionalizzarne l’utilizzo, in base alla sezione di città in cui erano state collocate, e comunque non erano separazioni così rigorose.

«Se non sei studente, ma hai fame e ti trovi da queste parti, puoi entrare ugualmente» aveva detto Sharma. «Nessuno te lo vieterà. Il fatto che sia universitaria significa soltanto che si trova vicino a una struttura universitaria e i suoi utenti saranno, per la maggior parte, studenti dell’università.»

Così sembrava. Al banco, una fila ordinata di studenti selezionava e ritirava i piatti da un sistema automatico, come sulla Terra; si vedeva una sola inserviente, una donna di mezza età che sedeva in un angolo e osservava con un sorriso gli studenti, ma aveva più che altro l’aria di essere una custode o qualcosa di simile. Più in là, si apriva una sala che poteva contenere almeno un centinaio di tavoli, attorno ai quali sedevano gruppetti di diverse dimensioni, dai singoli alle tavolate da venti persone. Mangiavano tranquilli, educati, e da loro saliva solo un brusio lieve di conversazione, più una risata occasionale. In questo non assomigliava alle mense terrestri.

«Se non sei pratico, seguimi e guarda quello che faccio» disse Sharma. «Imparerai in fretta, ma per la prima volta è più facile se imiti qualcuno.»

Matteo annuì. Ritirò il proprio vassoio, si sistemò dietro a Sharma e attese che la fila scorresse, per raggiungere le portate. Era tutto piacevolmente fluido e veloce, c’era giusto qualche rallentamento quando si trattava di scegliere cosa ordinare fra le opzioni disponibili, ma i gesti con cui ognuno ritirava il proprio piatto erano fluidi, quasi automatici quanto la mensa stessa. Si dedicò a studiare le attività di chi lo precedeva.

In apparenza, era tutto molto semplice. Procedevi lungo il banco, osservando le immagini dei piatti disponibili; quando ne trovavi uno di tuo gradimento, premevi l’immagine stessa e, di lì a poco, lo potevi ritirare dal nastro scorrevole. Automatico, pratico, privo di interazione umana e incidenti di pronuncia, sempre rischiosi per uno straniero come lui. Era già più difficile capire cosa ci fosse nei vari piatti, ma in questo si lasciò guidare dai suggerimenti del compagno, sperando in bene.

Giunto alla fine del banco, raccolse il vassoio e si incamminò dietro a Sharma, il quale si incolonnò a propria volta dietro la fila degli altri studenti (supponendo che fossero tutti studenti). C’era una calma strana, per Matteo, e non sentire la solita confusione da mensa terrestre lo metteva quasi a disagio, ma pensò che si sarebbe potuto abituare a quel clima. Sì, l’ambiente gli piaceva.

«Vieni, guardiamo se ci sono altri» disse Sharma, guidandolo nella sala, in uno stretto slalom tra un tavolo e l’altro. I ragazzi che incrociarono erano in gran parte di origine indiana, dalla pelle marrone e i capelli neri, più o meno come Sharma, ma c’erano anche alcuni gruppi di orientali, come Matteo era abituato a chiamarli, ed era quasi certo che quello non fosse il nome giusto, almeno non su quel pianeta. Come preannunciato da Bogdan, c’era anche una nutrita schiera di persone dai lineamenti misti, scena molto più insolita per un terrestre come lui.

Il loro percorso si fermò davanti a un tavolo, occupato solo da una ragazza, che sorrideva a Sharma. La sua ragazza? Nel caso, Matteo era pronto a fargli i complimenti per il gusto, anche se l’aspetto di lei era piuttosto strano. Insolito, per meglio dire. Aveva una pelle ambrata, non proprio scura e non proprio gialla; gli occhi, però, avevano un taglio orientale, a mandorla, ma i capelli castani e crespi non sembravano appartenere a nessun gruppo etnico che lui avesse visto finora. Matteo non poté far a meno di fissarla, con la speranza di non comportarsi in modo troppo maleducato per quel luogo.

«Arrivi tardi, stasera, e non da solo» disse lei, guardando Sharma. «Lui sarebbe il tuo famoso nuovo compagno, il terrestre?»

«Arrivo tardi perché porto un ospite» rispose. «Ed è il mio nuovo compagno di stanza, come dici tu, giunto proprio poco fa. Si chiama Matteo Kori.»

«E io mi chiamo Indira Qi Yong. Ìndira con l’accento sulla prima i» disse lei, alzandosi e porgendo la mano a Matteo, che la strinse ancora confuso. Non sapeva di essere così famoso. Non sapeva soprattutto che Sharma avesse conosciuto l’identità del proprio futuro compagno in anticipo ma, a pensarci, non era insolito. Con tutta probabilità, per uno straniero appena arrivato avevano scelto una persona che fosse adatta al ruolo di balia e dovevano anche averlo avvisato in anticipo, perché si potesse preparare. Niente di strano, se poi ne aveva parlato con un’amica.

«Piacere» disse, ricambiando la stretta. Vedendo Sharma che si sedeva al tavolo, lo imitò. «Quindi ti devo chiamare Yong, giusto?» chiese, sistemando il vassoio.

Lo sguardo della ragazza gli spiegò subito che aveva commesso un errore. Ma Sharma non gli aveva detto che utilizzavano il secondo nome? O c’erano altre informazioni, che non gli erano state ancora comunicate? «Ho sbagliato qualcosa?» chiese, imbarazzato.

«Mi devi chiamare Indira, col primo nome» rispose la ragazza. «Si usa così, qui da noi, ma non ti preoccupare. Succede.»

«Ma... Sharma mi aveva detto che...»

«Che con me devi usare il secondo nome, già» disse Sharma. «La responsabilità è mia, ti prego di scusarmi: ho omesso inavvertitamente una informazione. Con le donne si utilizza spesso il primo nome, in particolare quando il nome stesso è composto da più di due elementi, come in questo caso. Non saprei dirti esattamente il perché, ma è una tradizione. Non pensarci troppo.»

Matteo finse di non pensarci troppo, mentre sistemava i piatti nel vassoio e si preparava a mangiare. Ci pensava moltissimo, in realtà, ma non solo alla regola del nome: praticamente dietro a ogni angolo di quel mondo c’erano errori che lo attendevano. Era normale, era logico, ma era anche una di quelle (tante) cose a cui non aveva pensato, quando aveva scelto di lanciarsi in quell’avventura. Alla faccia della ingenuità...

«A che corso sei iscritto?» gli chiese Indira.

«Letteratura» rispose, senza guardarla negli occhi. L’errore lo metteva ancora a disagio. «Mi vorrei specializzare in letteratura dei Mondi Coloniali, se possibile.»

«Curioso. Di solito, i terresti che vengono qui sono tutti scienziati, o al massimo qualche linguista. I letterati sono una rarità; anzi, credo che tu sia il primo. Comunque, io sono iscritta a Lettere, per cui saremo quasi compagni di corso. Il tuo amico Sharma, invece, saprai già che appartiene alla genìa infernale dei filosofi. Con noi non ha nulla a che fare, anche se geograficamente la sua facoltà è nelle vicinanze del nostro blocco.»

«Sì, mi ha accennato al suo corso. Ha anche buttato sul filosofico alcune delle sue spiegazioni.»

«Ho risposto ad alcune sue domande sul funzionamento del nostro mondo» spiegò Sharma. «Ed è possibile che mi sia lasciato prendere un poco la mano. Spero di non aver esagerato.»

«Sono così tanto diversi i nostri pianeti?» chiese Indira. «A dire il vero, non mi sono mai interessata molto al funzionamento del vecchio mondo, ma in effetti potrebbe tornare utile per il seminario di sociologia, se il programma sarà quello annunciato. Tieniti libero per il dopocena e ne discuteremo un po’. Non che mi sarà di qualche aiuto, fino a che non saranno cominciate le lezioni, ma è sempre utile prepararsi in anticipo. Lo hai inserito anche tu nel tuo piano, per caso?»

«Ehm... credo di non avere ancora un piano» rispose Matteo, vergognandosi un poco. L’accento con cui parlava Indira era piuttosto diverso da quello di Sharma e tendeva a mangiarsi le ultime lettere delle parole. Tendeva a mangiarsele un po’ troppo, per i suoi gusti: seguirla non era facile. Se aveva capito bene, però, il piano di cui parlava doveva essere il programma di studi, e il suo non esisteva ancora, se non nei vaghi progetti che aveva in testa. Ecco un’altra cosa da fare.

«Devi ancora prepararlo?» chiese Sharma. «Allora domattina ti accompagnerò dal responsabile del tuo corso, così potrai sistemare le scartoffie. Non è strettamente obbligatorio, ma è meglio averne uno, quando devi discutere con qualche docente. Ti fa sembrare più serio.»

«E allora io credo di non esserlo molto» commentò Matteo. Il riso era buono, anche se gli lasciava in bocca un retrogusto sospetto, su cui preferì non indagare. Probabilmente stava dando a entrambi l’impressione di uno studente impreparato, ma non poteva lamentarsi più di tanto: era la verità. «Mi potreste parlare di tutte le altre cose che potrei dover fare, già che ci siamo? Credo di avere parecchi impegni a sorpresa, per i prossimi giorni...»

«Ci penseremo noi, non ti preoccupare» disse Indira.

Mantennero la parola. Quella sera, tutti e tre rimasero fino a tardi a discutere, in una saletta al piano terra dell’alloggio universitario. Parlarono della Terra, di Lakshmi e delle tante differenze tra i due pianeti, come bambini che si scambiano racconti dell’orrore, attorno a un fuoco. Nei quattro giorni seguenti, fino all’inizio dei corsi, Sharma si incaricò di guidare il compagno di stanza lungo tutti gli impegni che lo attendevano, con cortesia e senza perdere il sorriso: il piano di studi, l’incontro coi docenti del suo corso e tutti i dettagli burocratici ancora da sistemare. Erano più di quanti Matteo ne avesse immaginati.

«Dici che sono pronto, adesso?» chiese al compagno, dopo l’ennesima spedizione tra troppi uffici, indistinguibili l’uno dall’altro.

«Parrebbe di sì» rispose Sharma. «E tu, ti senti pronto?»

«Non lo so, ma lo scoprirò domani.»

Lo avrebbe scoperto l’indomani, primo giorno di lezioni della sua nuova vita su Lakshmi.