Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 4

Matteo non era del tutto sicuro di cosa si sarebbe dovuto aspettare da una lezione universitaria su un mondo coloniale, ma era moderatamente sicuro che non fosse quello che si trovò davanti, nel suo primo giorno da studente. Era troppo... banale. Normale.

Lo avevano avvisato. Due volte aveva chiesto informazioni su come si svolgessero lezioni e corsi, prima a Bogdan e poi a Sharma, e in entrambi i casi aveva ricevuto grossomodo la stessa risposta, ma non ne era stato convito. Su un pianeta come Lakshmi, dove più o meno tutti facevano quel che avevano voglia di fare, lasciando che le macchine si occupassero di ciò che era necessario per la vita, e spesso anche di ciò che era facoltativo o superfluo, lezioni universitarie in cui gli studenti si radunavano in un’aula, per ascoltare un professore seduto a una cattedra, sembrava così... vecchio, così medievale. Deludente, soprattutto.

«Dipende molto dai corsi di laurea e dal tipo di lezione» aveva risposto Bogdan, durante il viaggio verso Varshi, mentre fuori dal finestrino si srotolava un paesaggio interessante, ma poco variegato: ciò che si vedeva erano soprattutto campi coltivati e aree boschive, nei chilometri che separavano una città dall’altra. Non proprio alieno, se si ignorava l’aspetto degli alberi locali.

«Nel caso di un corso come il tuo,» aveva continuato Bogdan, «ci sarà un qualche professore che chiacchiera dietro la cattedra e voi studenti seduti davanti a lui, ad ascoltare, prendere appunti, filmare la lezione o quello che preferite. Non è che ci siano molti altri modi per insegnare filosofia, letteratura e roba simile.»

«Tutto qui?»

«Tutto qui. A quanto pare, è una di quelle cose che non cambiano, ovunque tu vada e in qualunque epoca tu viva. Più o meno come le stanze da bagno sono sempre state fatte nello stesso modo, da quando esistono le stanze da bagno: puoi modificarne un poco il disegno e la struttura, ma non è che puoi farci molto altro, coi componenti essenziali per una stanza da bagno.»

Paragone non proprio lusinghiero, dal punto di vista di Matteo, ma funzionante. In effetti, doveva ammettere che i bagni lakshmiti erano uguali a quelli terrestri, una volta rimossi gli inutili orpelli di designer che avevano scaricato la propria discutibile creatività nel punto sbagliato della stanza. Più elegante e completa era stata la risposta ricevuta da Sharma alla stessa domanda, durante il secondo dei giri tra le sedi universitarie, a sistemare piani di studio e ultimi dettagli burocratici.

«Sì, le lezioni medie funzionano esattamente così» aveva spiegato. «Capisco che possa sembrarti poco originale e, magari, alquanto banale, ma è il sistema che abbiamo verificato essere più efficace e piacevole.»

«Piacevole?»

«Piacevole, sì. Come ti abbiamo spiegato in precedenza, il lavoro di produzione e distribuzione di beni e servizi è svolto quasi completamente dalle macchine: a esclusione di alcuni lavori essenziali, che sono ancora svolti da certi umani, come è il caso dell’attività medica, per il resto siamo liberi di dedicare tutto il nostro tempo a ciò che preferiamo fare.»

«Sì, me lo hai già detto, ma...»

Sharma aveva sollevato una mano, a interromperlo. «Attività nel campo della istruzione sono tra le preferite da noi; alcuni amano studiare e apprendere, altri amano insegnare. Una distribuzione di incarichi, in cui chi ha la passione di insegnare insegna a chi ha la passione di apprendere, è quella che si è dimostrata più efficace e redditizia, almeno per noi. Se vuoi conoscerne le ragioni, le dovrai chiedere a uno psicologo, ma i fatti ci dicono questo. Di conseguenza, un sistema educativo in cui il grosso del lavoro è svolto da umani, e macchinari di vario genere occupano un ruolo ancillare, è il più efficiente che abbiamo trovato.»

«Insomma lezioni normalissime, vecchio stile.»

«Se vuoi metterla in questi termini, sì.»

E adesso Matteo lo vedeva coi propri occhi. Come aveva detto Bogdan, ci sono cose che rimangono uguali in ogni tempo e in ogni luogo: anche se l’involucro si era modificato nel corso dei secoli, alla base rimaneva sempre lo stesso sistema, dove chi sa spiega a chi non sa. Banale.

Tralasciando però la pura meccanica educativa, c’erano aspetti più interessanti da notare, almeno dal suo punto di vista. Numero e qualità degli altri studenti, per esempio. Per quanto potesse vedere, i suoi colleghi erano tanti ed erano in prevalenza ragazze. Niente di strano neppure qui, considerato che pure sulla Terra i corsi di lettere e letteratura erano a maggioranza femminile, per ragioni che lui non aveva mai capito. Non che la cosa gli dispiacesse, ma il numero degli studenti poteva essere un problema, per lui: incapace di farsi notare e conoscere nuove persone in un piccolo gruppo, Matteo aveva grossi dubbi che la situazione sarebbe stata migliore, in mezzo a tutte quelle facce anonime e straniere. Ne parlò quella sera con Bogdan, nel locale che il compagno gli aveva indicato come il luogo dove trovarlo più facilmente.

«La grandezza della classe dipende dal numero di docenti disponibili e dal numero di studenti interessati» gli spiegò l’amico. «Per alcune materie, ci sono più docenti che studenti; altre, invece, hanno più persone interessate a imparare che a insegnare. Si vede che nel tuo campo va così.»

«Pensavo ci sarebbero state classi più piccole e più insegnanti, visto che qui è tutto volontariato.»

«Non proprio volontariato, o almeno non come lo definiresti sulla Terra.»

«È quasi la stessa cosa, in fondo.»

Bogdan scrollò le spalle. Non era particolarmente puntiglioso sulla terminologia, almeno su quella usata in campi non di sua competenza. Il letterato è lui, si disse. «Nel mio corso funziona così» gli rispose a voce alta. «Non c’è grande bisogno di planetologi, da queste parti, e quasi tutti quelli che studiano planetologia, poi, si ritrovano con troppo tempo libero e spesso lo usano per insegnare ai nuovi. In pratica, escono dall’università da una porta e rientrano subito dopo da un’altra.»

«Non molto divertente.»

«Se questa è la tua passione nella vita, allora lo è: puoi dedicare tutti i tuoi anni allo stesso campo di studi che ti affascina tanto. È inutile sul piano pratico, semmai, ma i lakshmiti non sembrano essere molto preoccupati dal lato pratico delle cose. Funziona così, da queste parti.»

Strano popolo, senza dubbio, ma con uno stile di vita non così spiacevole. Dopo la Terra, dove tutti si preoccupavano invece di questioni molto concrete e si calpestavano l’un l’altro per avanzare, un luogo in cui gli abitanti preferivano prendersela comoda e vivere in un pacifico otium letterario o scientifico, a seconda dei casi, a Matteo appariva molto attraente. Non si sarebbe trovato male, lì.

«Comunque io sono l’unico terrestre del mio corso» disse poco dopo, cambiando in parte discorso. «Oltre a essere tanti, gli studenti di letteratura sembrano essere quasi tutti ragazze.»

«Buon per te» rispose Bogdan. «A planetologia è il contrario: oltre a essere pochi, siamo quasi tutti maschi. Docenti inclusi. Trovare una studentessa tra gli iscritti è più difficile che trovare un pianeta abitabile, puntando a caso il dito su una mappa di questo settore della galassia.»

Comparazione che a Matteo non disse molto, alla luce delle sue misere competenze astronomiche, ma la considerò come un evento molto raro, a giudicare dal contesto. Chiacchierarono ancora per un poco di vari argomenti, non tutti necessariamente di elevato livello culturale e accademico, prima di salutarsi e dirigersi ciascuno al proprio alloggio. Nella tiepida sera primaverile, che profumava di una qualche sostanza ignota a Matteo, ma presumibilmente i pollini di piante e fiori locali, si ritrovò a pensare alla Terra, che in quel periodo doveva ormai essere entrata nell’autunno. Probabilmente ottobre, forse quasi la metà del mese. Quando era partito lui, settembre era cominciato da poco, ma ormai era passato... Quanto era passato, sulla Terra? Due settimane le aveva spese in viaggio, più il tempo su Lakshmi, che equivaleva a...

«Non hai studiato il nostro calendario, prima di partire? Curioso» disse Sharma, quando Matteo gli espose i propri dubbi sulla differenza di tempo tra Terra e Lakshmi.

«Non avevo pensato che fosse così importante» rispose Matteo, sentendosi più stupido del solito. Come può una persona sana di mente pensare che non sia importante informarsi sul modo in cui si calcola il tempo nel pianeta in cui vivrà per i prossimi quattro anni? Eppure lui non si era posto il problema, troppo impegnato a preoccuparsi di cose che, una volta arrivato, si erano dimostrate superflue o inutili. I soldi, ad esempio.

Qualcosa sapeva, in realtà. Sapeva che il giorno di Lakshmi durava venticinque ore e quaranta e qualcosa minuti, e sapeva che l’anno era più breve, ma aveva trascurato di approfondire, pensando che tanto non avrebbe contato. Non aveva mai fatto molto caso al calendario terrestre, perché mai si sarebbe dovuto preoccupare di quello di altri pianeti? Il tempo è tempo, almeno per lui. Il compagno di stanza, studente di filosofia, non era decisamente della stessa opinione.

Sharma gli spiegò che l’anno su Lakshmi durava trecentosedici giorni lakshmiti, il che rendeva la sua rivoluzione un poco più veloce rispetto a quella terrestre, mentre la sua rotazione era un poco più lenta. L’anno non era diviso in mesi, perché i satelliti erano due, Uma e Parvati, e non era stato trovato un accordo su quale usare; a ogni modo, la suddivisione in mesi era stata considerata poco funzionale e così si era passati a un sistema più razionale, come la suddivisione in stagioni, ognuna delle quali durava all’incirca ottanta giorni lakshmiti. Il primo giorno di primavera marcava l’inizio dell’anno; dopo ottanta giorni cominciava l’estate, che ne durava ottantasei, poi ottanta giorni di autunno e infine settanta giorni di inverno. Almeno nell’emisfero boreale, il più popolato.

«Possiamo fermarci qui» supplicò Matteo, alzando una mano in segno di resa. C’era un limite alla quantità di cifre che poteva ingoiare in una volta sola, ma soprattutto un limite al tempo in cui il suo cervello poteva concentrarsi su argomenti diversamente interessanti.

«Come preferisci. A ogni modo, niente di tutto questo ti servirà, se vuoi calcolare quale sia il tempo sul tuo pianeta, a meno che tu non lo voglia calcolare a mente. Controlla su un qualsiasi terminale e avrai la tua risposta in un attimo» concluse Sharma, sferrando l’ultimo colpo all’autostima ormai in rapido inabissamento di Matteo.

Perché non ci aveva pensato da solo? Sulla scrivania luccicava il suo dispositivo portatile, ma al momento allungare un braccio e afferrarlo gli pareva una fatica eccessiva, superflua. «Ci penserò domani, semmai. Adesso me ne andrò a dormire» disse.

«Buonanotte, dunque.»

Strana persona, il suo compagno terrestre. Sharma poteva capire molto bene, ora che vi si trovava coinvolto direttamente, perché fosse ritenuto necessario assegnare una guida lakshmita a ognuno degli stranieri, che si recavano a vivere per un certo periodo sul pianeta. Se anche gli altri avevano idee simili a quelle del suo compagno, era inevitabile che fosse necessario un certo lavoro, per farli adattare alla società locale. E ancora non aveva affrontato gli aspetti etici...

Mi farò aiutare da Indira, pensò. Non che Indira ne sapesse più di lui, in fatto di etica, ma sembrava che Matteo fosse meglio disposto ad ascoltare lei che lui. O meglio, più disposto a farsi convincere senza troppe discussioni. Tanto di guadagnato. Sarebbe stato poi opportuno incontrare anche quel Bogdan Stratos di cui Matteo parlava spesso, il terrestre con cui aveva viaggiato: da quanto aveva sentito, pareva essere abbastanza in linea con l’etica della società lakshmita, ma era sempre meglio verificare di persona, per evitare spiacevoli sorprese. Alla prima occasione favorevole, avrebbe di certo chiesto a Matteo di presentarglielo.

Sharma sospirò. Amava il proprio pianeta e non sapeva immaginarne uno che offrisse stili di vita migliori: neppure Svarga, la prima delle colonie, in termini di vecchiaia e potenza. Eppure... eppure ogni tanto aveva la sensazione che la sua struttura fosse inutilmente stretta e rigorosa. Un approccio più rilassato avrebbe forse reso tutto molto più semplice, a suo parere, ma chi era lui per deciderlo? Se era richiesto che gli stranieri fossero adeguati in tempi rapidi alla società lakshmita, Sharma lo avrebbe fatto. In quanto compagno di stanza, la responsabilità di Matteo era sua e avrebbe fatto del proprio meglio, per renderlo responsabile di se stesso nel tempo più breve possibile.

Essere solo amici era meglio che essere amico e controllore. Di tanto in tanto, poteva quasi credere che i due ruoli si escludessero a vicenda, ma non aveva l’esperienza necessaria, per esserne certo: la prima esperienza come controllore la stava vivendo adesso e le esperienze di seconda e terza mano, ricevute dai racconti di altri, valevano ben poco. Ne avrebbe saputo di più alla fine. Su questo non aveva dubbi.

Aveva molti dubbi Davide Kori, invece. Seduto al tavolo della cucina, la vaschetta di cibo precotto aperta davanti a sé, contemplava una nuova vita da figlio unico e non la capiva. Non sapeva ancora ritrovarsi, in quello stato. Perché Davide, adesso, era di fatto figlio unico.

Oh, certo, Matteo c’era ancora, lassù da qualche parte nel cielo, su un altro pianeta, e naturalmente un giorno sarebbe ritornato a casa, lì sulla Terra. Lo aveva promesso, in fondo. Un giorno, appunto. Questa era la parola chiave: un giorno. Fino a quel giorno, Matteo non esisteva più. Se avesse scelto un’altra regione sulla Terra, sarebbe stato facile mantenersi in contatto, vedersi anche di continuo, se proprio lo si voleva: non proprio di persona, sì, ma la differenza era minima ed era come trovarsi davvero l’uno di fronte all’altro, anche con migliaia di chilometri nel mezzo.

Finché rimani sullo stesso pianeta. Quando però sei in un sistema solare diverso, allora la distanza c’è e la senti fino all’ultimo centimetro. Non puoi chiacchierare con una persona che vive attorno a una stella differente, non la puoi vedere; puoi solo spedire un messaggio verso il ricevitore, ai limiti del tuo sistema solare, e aspettare che possa essere inviato a un altro ricevitore, ai limiti di un altro sistema solare. Tempi paragonabili a un’antica lettera, ma con prezzi schifosamente alti, almeno lì sulla Terra. Soluzione impraticabile, per lui.

No; da quando era partito, Matteo era come se non esistesse più, per quelli rimasti indietro. E certo la Terra era come se non esistesse più, per lui che stava su un altro pianeta. Quindi, lui era diventato figlio unico, con un appartamento vuoto per la maggior parte del giorno, perché la madre usciva la mattina presto per lavorare e tornava di sera, stanca, con poca voglia di parlare e ancora meno di cucinare. Quindi, precotti a volontà e silenzio ventiquattr’ore su ventiquattro.

Davide stuzzicò con poco entusiasmo il materiale che aveva di fronte, una qualche sostanza non ben precisata, di colore verdastro, ma dall’odore decente. Forse era stata un tipo di verdura, un tempo, ma certe striature rossicce suggerivano che non fosse soltanto un piatto vegetariano. Davide preferì non indagare troppo e lo mangiò così com’era, in silenzio. O quello, oppure saltare il pranzo.

Sembrava vuota, la casa. Cioè, era effettivamente vuota, vuota e silenziosa, a parte il tenue rumore di risucchio che produceva lui stesso, mangiando, ma a questo ci era abituato. Era normale che sua madre non ci fosse. Ciò che non era normale, invece, era che non ci fosse Matteo. Lui era sempre a casa. Era sempre in casa, per la precisione, e neanche con catene e argani riuscivi a levartelo dai piedi. Adesso, però, si era levato davvero e Davide si sentiva solo. Ottenere ciò che si desidera può essere brutto, soprattutto quando ti accorgi di non averlo ottenuto come lo desideravi.

Finì di pranzare, gettò la vaschetta nel riciclatore e si affacciò alla finestra. Fuori, il quartiere era tranquillo e silenzioso, come lo era sempre nel primo pomeriggio. Un quartiere tranquillo, di una città tranquilla, di una provincia tranquilla, in un’area tranquilla, ossia la regione Mediterranea. In distanza, gli arrivava il mormorio del traffico, ma lì, davanti a lui, tutto era calmo e vuoto. Nessuna persona in strada, nessun suono dalle case, soltanto il sole che illuminava le vie e gli edifici. C’era odore di umidità e forse, più tardi, la nebbia avrebbe preso il posto di quel sole, ma era l’unico cambiamento che si potesse prevedere, da quelle parti. Davide sospirò.

Dicevano che un tempo fosse stata molto più agitata, la regione, ma adesso il mar Mediterraneo era tornato una tranquilla pozzanghera, che raccoglieva le genti di una sponda e dell’altra e le univa in una sola area amministrativa. Dopo l’esperimento fallito dei cinque grandi continenti, si era deciso di ridisegnare le zone sulla base dell’affinità storica e culturale. Funzionava meglio. Forse in futuro si sarebbe scelto un altro sistema, ma per adesso poteva andare bene così.

Davide era d’accordo, per quanto aveva potuto capire a scuola. Sapeva che oggi viveva in una città tranquilla, di una provincia tranquilla, di una regione tranquilla. In passato non era stata sempre così tranquilla, e allora? Erano cose passate. A lui interessava il presente e il presente era tranquillo, per cui il sistema funzionava, se la tranquillità era ritenuta il requisito fondamentale.

Anche se...

Per la prima volta da quando suo fratello era partito, Davide si ritrovò a pensare allo spettacolo che aveva visto sulla stazione orbitale, quel Teatro di Oklahoma. Pensava alle parole della donna con la fascia al braccio. Un mondo nuovo, aperto, da costruire con le nostre mani. Un mondo senza tutte le vecchie strutture. Aveva detto qualcosa del genere, giusto? Più o meno, non ricordava ogni parola e forse qualcuna l’aveva aggiunta la memoria, ma il concetto doveva essere grossomodo rimasto: un mondo nuovo, da plasmare liberamente, senza anticaglie ereditate da millenni. Guardò il quartiere che si apriva sotto di lui, nella pace del primo pomeriggio. Il quartiere tranquillo.

«No,» disse alla casa, «le solite chiacchiere da pubblicità.»

Probabile. Così l’avrebbe messa Matteo, se non altro: quel Matteo che se n’era andato su un pianeta già pronto, perché era più comodo e non avrebbe avuto voglia di lavorare per costruirne uno nuovo. E lui, ne avrebbe avuto voglia? Davide se lo chiese, serio come raramente si mostrava ad altri.

Non lo sapeva, ma sapeva che, per adesso, non lo avrebbe potuto verificare. Più avanti, forse, ma non adesso. Perché per i prossimi anni doveva pensare alla mamma, che lo volesse o meno. Matteo era lontano anni luce e Davide non se ne era preoccupato poi molto, all’inizio, mentre era ancora in viaggio assieme a Manuel e Nikola, i due ex compagni di liceo di Matteo, nonché suoi amici. Il viaggio di ritorno era stato piacevole, a chiacchierare e scherzare su cosa avrebbe combinato quello scemo, su un altro pianeta. Il ritorno a casa non lo era stato. Quelle due settimane dal ritorno a casa gli avevano confermato che lui, adesso, era davvero figlio unico. E toccava a lui preoccuparsi della propria madre, un dovere da cui Matteo era fuggito. Non era stata quella la sua intenzione, certo, ma era quello il risultato e a contare erano solo i risultati, non le intenzioni.

Brutta storia. Davide avrebbe preferito non pensarci, ma era difficile evitarlo, per lui, era difficile non pensare a quella carretta di carne e rughe, ai piatti insapore che gli preparava la sera, quando ne aveva voglia, e allo sguardo da manichino con cui si perdeva davanti allo schermo, quando era in casa. Se prima c’era stato anche Matteo a dividere con lui quelle ore, adesso Davide era solo.

Larisa Elfridi poteva anche essere stata giovane e interessante, un tempo, ma quel tempo era sparito da molto, agli occhi di Davide. Più o meno come era sparito Ercole Cori, marito di lei e padre dei due fratelli, un’altra di quelle personcine da raccomandare, possibilmente alla più vicina stazione di polizia. Era stato proprio lui, infatti, a sparire alla nascita di Davide, ma ancora prima aveva avuto il colpo di genio di modificare il cognome, cambiando la C in K, seguendo la moda di quegli anni. La moda dei deficienti, secondo il modesto parere di Davide. Così Larisa si era ritrovata con una K nel cognome e due figli da allevare, da sola: una esperienza che, di solito, lascia segni duraturi su una persona. Li aveva lasciati su di lei.

La prima immagine della madre che Davide ricordava di avere, nelle nebbie della memoria, non era molto diversa dalla immagine attuale: meno rughe, meno carne, ma identico il portamento, identica la grazia. Una di quelle donne intagliate nel sughero, che un tempo avresti potuto trovare in una cascina in campagna, seduta a gambe larghe nell’aia, a gettare briciole alle galline, con un cane che abbaiava poco distante. Non c’era l’aia, non c’erano galline, ma due figli a cui gettare metaforiche briciole e uno schermo davanti a cui perdersi. E adesso che Matteo era lontano, e per quattro anni non si sarebbe certo fatto sentire, sembrava ancora più assente del solito. Larisa, sua madre.

E se anche lui, Davide, se ne fosse andato nello spazio a cercare fortuna, abbandonandola? Prima il marito, poi un figlio, infine l’altro figlio. E lei lasciata indietro, come un rifiuto non combustibile. No, non poteva. Prima avrebbe dovuto attendere il ritorno di Matteo e poi, forse, sarebbe arrivato anche il suo momento. Ma non era facile.

Davide uscì, nel tepore del primo pomeriggio. Non era sano restare troppo in casa, da solo; meglio prendere un poco di aria fresca, anche se fresca non lo era poi così tanto. La strada alberata era tranquilla, in perfetto accordo col resto dell’ambiente, e pochi passanti dividevano con lui la via. La città dormicchiava tranquilla e il fioco brusio dello scarso traffico era il suo russare. Quanta pace ti dovevi ingoiare, prima di cominciare a odiare l’aggettivo “tranquillo”? Davide se lo chiese, ma non si rispose. Per adesso andava bene così, aveva solo voglia di camminare, senza pensare.

Ma i muri gridavano. Le vetrine gridavano. I cartelloni gridavano. Persino il cielo pareva gridare, con quella scritta che qualcuno aveva tracciato e abbandonato lassù, come una nuvola deforme. E il grido era «Madre!», quella sirena che Davide avrebbe preferito non sentire, ma che aveva sentito già più volte nei mesi precedenti, senza mai curarsene. Poi c’era stata la stazione, lo spettacolo, e qualcosa in lui era cambiato. Prima lo vedeva e lo sentiva; adesso lo guardava e lo ascoltava.

«Certo che c’è pieno di quella roba!» disse Amir Cavalli, più tardi, quando Davide gli domandò di tutte quelle pubblicità a proposito di Madre. «Te ne sei accorto adesso?»

«Più o meno.»

«Sarà qualche mese che ne continuano a mettere. Da quando hanno fatto quell’incontro alla nostra scuola, o giù di lì. Non mi ricordo.»

Amir era un suo amico e compagno di classe. Non esattamente un genio e con un livello culturale più o meno pari a quello di un cetriolo di mare, ma una brava persona, a modo suo, e di sicuro un tipo simpatico. Si conoscevano da una vita e ormai Davide era abituato ad averlo attorno, nel bene e nel male. Si completavano, da un certo punto di vista, o almeno a lui piaceva pensarla così.

«Tu cosa ne pensi?» gli chiese Davide. «Ti sembra interessante?»

Amir alzò le spalle, storcendo la bocca. «Boh, forse. Mio papà ogni tanto parla di andarci, così, per cambiare aria. Dice che là sarà meglio per noi, che ci saranno più possibilità e roba simile. Ma lui dice anche che un tempo era ricco e poi lo hanno imbrogliato, lo sai, per cui...»

«Ma a te piacerebbe andarci? O non te ne frega niente?»

«Fra qualche anno, magari... dopo la scuola, sai com’è. Metti che non trovo niente qui... magari da quelle parti un lavoro lo trovi. Dicono che ci sia ancora tutto da fare.»

«Dopo la scuola.»

«Sì, perché no? Alla conquista dello spazio!» Rise. «Come ha fatto tuo fratello, no?»

«No, mio fratello è andato su un mondo uguale a questo» rispose Davide. «Magari un po’ più ricco, ok, ma uguale a questo. Madre invece dovrebbe essere ancora quasi tutto vuoto, no? Una specie di antico far west o roba simile, da quello che dice la pubblicità. E anche Matteo aveva detto qualcosa del genere.»

Poteva ricordarla quasi parola per parola, quella breve discussione qualche mese prima, poco dopo l’incontro in cui avevano parlato di Madre alle scuole. Matteo voleva andare su un altro pianeta e così Davide gli aveva chiesto perché avesse scelto una vecchia colonia, invece della nuova.

«Perché su Madre non c’è niente che mi interessi» gli aveva riposto Matteo. «È una specie di far west ed è quasi tutto deserto. Vuoto, anzi, non deserto. I primi coloni sono arrivati lì da poco più di quindici anni, e poi sono pochi. Devono partire da zero e devono lavorare come bestie, per arrivare a qualcosa di decente. Non ci sarà niente di interessante per i prossimi cinquant’anni almeno.»

«Quindi vai a cercarti la pappa pronta, su un pianeta che altri hanno già sistemato prima di te.»

«Vado a studiare, non a fare il pioniere, quindi vado su un mondo dove si possa studiare. Certo, se fossi interessato all’archeologia o alla exologia, allora Madre andrebbe bene, ma quello non è il mio campo, lo sai.»

Avevano continuato per un poco sullo stesso tema, ma poi la discussione era morta da sola, come spesso accade alle discussioni superflue. A Madre non aveva probabilmente più pensato, fino alla scena sulla stazione, quando aveva visto lo spettacolo di acrobati e trampolieri. Teatro di Oklahoma, come lo avevano chiamato. Chissà perché.

«Madre è quel pianeta dove ci sono anche gli alieni, no?» chiese Amir, poco dopo, come seguendo un filo di pensieri del tutto autonomo.

«Le rovine aliene» corresse Davide. «O almeno i resti di costruzioni che sembrano artificiali, poi non so di preciso. Non è che me ne freghi molto.»

«Quindi c’erano gli alieni.»

«Può darsi, se sono vere. Vuoi diventare un professore e andarle a studiare?» chiese Davide, con un sorriso. Amir professore era un pensiero che superava la fantascienza, per proiettarsi direttamente nel surreale più estremo. Neanche Kafka lo avrebbe mai saputo immaginare, anche perché Kafka era morto già da diversi secoli.

«Professore io? Ma va’... però mi piacerebbe vederle, sai com’è. Sono un po’ curioso. Non è roba che trovi da tutte le parti, no?»

«Direi proprio di no. È la prima volta che troviamo segni di altre civiltà intelligenti nello spazio. O così diceva Matteo» aggiunse. «La prima volta che troviamo tracce di alieni, insomma.»

«Se dopo la scuola non troviamo niente, qui...»

«Ce ne andiamo su Madre? Emigriamo all’estero in cerca di lavoro e di alieni?»

«Potrebbe essere una idea...»

Non ne parlarono più, per quel giorno, né per i giorni successivi, ma il pensiero rimase da qualche parte nella testa di Davide. Aspettare il ritorno di Matteo e poi mollare tutto e fuggire fuori. E dare una occhiata a cosa ci fosse davvero nello spazio. Cosa ci fosse per lui su Madre. Ma dopo. Adesso altre responsabilità avevano la precedenza: una madre da sopportare, con le sue mille lamentele e brontolamenti infiniti. Non poteva abbandonarla anche lui e partire alla scoperta dello spazio, con la mamma al seguito... no, orribile. Ma quando fosse tornato suo fratello...

Una staffetta nello spazio. Sorrise al pensiero, mentre la sera autunnale cambiava in notte attorno a lui. Una tranquilla notte di ottobre, di nebbia.