La galassia di Madre - 32
Il Direttore George Gemelos entrò nell’ufficio di Leonardi e lo trovò in piedi di fronte alla finestra. Lo trovava spesso in piedi di fronte alla finestra, negli ultimi tempi? Significava qualcosa? Non era facile dirlo, con Leonardi, ma probabilmente sì, significava qualcosa. Che cosa significasse, però, era tutto un altro paio di maniche e Gemelos non ne aveva la minima idea. Né gli interessava. Gli interessava un altro dettaglio, semmai.
Leonardi fissava la città oltre i vetri, piegandosi un poco verso sinistra, e con una mano si teneva la pancia. Non proprio alla Napoleone, per carità: la mano era troppo in basso e premeva proprio sulla zona del suo intestino, come se soffrisse di una qualche forma di colite. O come se avesse bisogno di andare in bagno, volendo. Urgente bisogno, forse. In ogni caso, era un gesto insolito, una posa che Leonardi non aveva mai assunto in precedenza e questo era il dettaglio che lo interessava.
Forse è la volta buona che ci togliamo dalle palle quella mummia, pensò Gemelos. Ma lo pensò piano, sottovoce soltanto, o forse era meglio dire sottopensiero. Troppo pericolosi certi pensieri, con Leonardi proprio davanti a te. Poteva sentirti.
Ciò che non aveva sentito, almeno in apparenza, era l’ingresso di Gemelos in ufficio. O almeno, non si girava verso di lui e non dava alcun segno di essere consapevole della presenza del direttore. Se ne stava lì, davanti alla finestra, come un manichino in decomposizione, come lo spaventapasseri più brutto della storia. Sì, c’era decisamente qualcosa che non andava nel vetusto dottore. Ottima notizia, per Gemelos. Che ci fosse o meno, però, doveva discutere con quella mummia e non voleva restare lì tutto il pomeriggio, a fissarne la schiena curva. Si schiarì la gola, con vago imbarazzo.
Per qualche secondo Leonardi non reagì, poi cominciò lentamente a girarsi. Aveva una faccia più grigia del normale, tra le tremilaseicentosette rughe che la decoravano qui e là. Non stava bene, era chiaro. O era grigio, in effetti, ma il punto rimaneva. Ed era giusto così. Per quanto potente, per quanto rattoppato e plastificato, Leonardi rimaneva pur sempre un vecchio di centonove anni: alla sua età sarebbe dovuto essere sottoterra a decomporsi già da un pezzo. Ammesso e non concesso che le sue parti artificiali fossero biodegradabili. Fino ad allora, però, quei mille rattoppi lo avevano tenuto assieme; per quanto avrebbero continuato? Gemelos si scoprì curioso di verificarlo.
«Abbiamo ricevuto una comunicazione da Madre,» disse, tornando dalle riflessioni alla realtà del suo impegno, «e credo che sia proprio quella che lei stava aspettando. Ho pensato di...»
Leonardi alzò una mano. «Non pensare e siediti,» gli rispose. «Sentiamo le novità, sperando che per una volta siano anche positive. Quando pensi tu, sono sempre cazzate che escono.»
Simpatico come una vomitata sulla schiena. Gemelos sedette, protetto dietro il suo sorriso più mite e servile, continuando a osservare con la cura di un avvoltoio la camminata lenta, faticosa, con cui Leonardi stava raggiungendo la propria scrivania. No, non stava bene. Non stava bene per niente. E il direttore ebbe così la sua prima, vera buona notizia della giornata. C’era qualcosa di meccanico in Leonardi, il che in parte era normale, essendoci molto di meccanico in quel vecchione, ma oggi era più meccanico del solito. Come un antico giocattolo a molla, che sta esaurendo la carica.
Poteva essere solo il freddo, certo, per quanto la Terra non fosse più così fredda come lo era stata un tempo, almeno secondo le vecchie storie. Ma erano i primi di gennaio, periodo che non aveva mai visto Leonardi al massimo delle proprie capacità fisiche. Meglio trattenere le speranze, dunque, in via precauzionale. Sperare, certo, ma non troppo forte, e sottovoce, sempre e solo sottovoce. Il tempo della liberazione poteva essere vicino, con un poco di fortuna.
«Allora?» chiese Leonardi, sedendo a fatica. «Cosa è successo?»
«I negoziati con l’ambasciata lakshmita sono conclusi. Si riprenderanno la loro clandestina e in un secondo momento ci offriranno scuse formali e ufficiali. Su questo secondo punto hanno sollevato qualche problema, ma alla fine si sono arresi. Era anche nel loro interesse.»
«Hah! Ci credo che hanno sollevato qualche problema. Di’ pure che hanno lagnato e piagnucolato come mocciosi. Troppo orgogliosi per abbassare la testa, davanti al cugino scemo. Perché è questo che noi siamo, per loro: il cugino scemo, il parente mentecatto da sopportare e mantenere, ma il più possibile a distanza, perché non si sa mai che sia contagioso.»
Gemelos non commentò. Quel Mukhopadyaya, ambasciatore lakshmita sulla Terra, gli era anche sembrato una brava persona, nel complesso, non certo un arrogante pomposo o l’odioso primo della classe, come Leonardi sembrava voler presentare ogni ambasciatore. Ma obiettare? Far presente al dottore che le sue idee erano vecchie e prevenute, e puzzavano di muffa tanto quanto la persona che le esponeva, però, sarebbe stata una pessima mossa. Era contraria al suo istinto di sopravvivenza.
«Non potevano fare altro che riprendersi quella rompipalle e abbassare la testa, i nostri amichetti di Lakshmi,» continuò Leonardi. «Non avevano alternative, con quello che era in gioco. Se si fossero opposti e avessero sostenuto le risibili ragioni di quella clandestina, avrebbero di fatto sfasciato ogni legge che regola gli accessi ai pianeti. Avrebbero creato un precedente, che sarebbe tornato molto presto a mordergli le chiappe, con la bava alla bocca. No, non potevano farlo. Devono proteggere i loro bei pianetini, loro! Non possono permettere che ogni immigrato puzzolente possa entrare, se non dopo un test accurato per decidere se valga la pena di ammetterlo. E così si sono piegati, con le loro scuse più sentite,» concluse, con un ghigno che forse voleva essere un sorriso.
Gemelos aspettò un poco, nel caso la filippica del dottore dovesse riprendere, ma pareva aver finito, almeno per il momento. «Il secondo passeggero difficile, invece, il terrestre...» cominciò a dire, ma Leonardi lo interruppe subito. Come da copione, in fondo.
«L’isolazionista? Quello indicato da Hass?»
«Davide Kori, o Cori, il passeggero che mi ha segnalato lei, dopo aver discusso col ministro Hass,» rispose Gemelos. «È sospettato di collaborazione con la cellula Isolazionista del...»
E di nuovo Leonardi lo interruppe, stavolta alzando una mano. La sinistra, notò Gemelos, perché la destra era ancora sul ventre. Doveva fargli parecchio male: che peccato! «Sospetto tuo nonno! Era con una cellula mediterranea e se vuoi ti dico anche quale. Si è allontanato appena prima della loro mancata azione, mancata perché l’ho prevenuta io, non tu, è meglio che te lo ricordi, e Hass me lo ha segnalato perché io gli ho detto di tenerli tutti sotto controllo, uno per uno, ed è meglio che ti ricordi anche questo, capito?»
Gemelos chinò la testa in sottomissione viscerale. Capisco, ricordo, so, registro, obbedisco e non discuto mai: ma la mano sul pancino ce l’hai tu, non io. Hai così tanta bua, piccolino? Ma come mi dispiace, davvero! Ma il direttore si morse le labbra mentali e non parlò, spingendo i pensieri vili e piacevoli nei meandri più nascosti della propria mente.
«Dicevo di questo Davide Kori, o Cori,» riprese poi, trascorsa la sfuriata del vecchione.
«Kori, con la kappa,» fu più che lieto di correggerlo Leonardi. Aveva sempre bisogno di correzioni, quel segnaposto parlante. Per fortuna che c’era un consigliere anziano come lui, come Leonardi, sempre pronto a correggere e migliorare i servi di casa.
«Kori, con la kappa. Dicevo, lo abbiamo lasciato passare, proprio come ci ha indicato lei.»
«Lo hanno lasciato passare. Le guardie su Madre, non certo tu. Tu non hai fatto niente.»
«Lo hanno lasciato passare, sì, e adesso lo sorveglieranno per tutta la durata della sua permanenza su Madre, proprio come lei ci ha ordinato. Le guardie sono pronte a intervenire in ogni momento, in caso di azioni sconsiderate o sospette da parte di questo Davide Kori, con la kappa.»
«No! Aspetteranno un mio ordine. Se quel ragazzino farà qualcosa, qualsiasi cosa che non sia stato richiesto o ordinato dal suo supervisore, le guardie lo segnaleranno a me. A me!. E attenderanno un mio ordine, prima di agire. Voglio che questo sia chiaro, chiaro?»
«Ma un suo ordine potrebbe arrivare troppo tardi, su Madre. Non ci è ancora possibile ricevere o spedire messaggi in tempo reale, purtroppo, anche se sarebbe un vantaggio di grande importanza, a mio parere, e forse sarebbe il caso di...»
Gemelos aveva obiettato. Il segnaposto aveva obiettato. Se solo Leonardi avesse potuto incenerire o pietrificare con lo sguardo, il direttore di nome ma non di fatto sarebbe morto nel giro di un paio di secondi al massimo. Non poteva, non ancora. Così si dovette accontentare di fissarlo fino a farlo tacere, cosa che gli riuscì con una certa facilità. Ottenuto il silenzio, poté rispondere.
«Attenderete un mio ordine, chiaro? Qualunque cosa succeda, attenderete un mio ordine. Prima mi farete rapporto e poi attenderete un mio ordine. Chiaro? Hai bisogno che te lo ripeta in qualche altra lingua, se la mia non la capisci? Siamo arrivati dove siamo perché io do gli ordini e voi li eseguite, e continueremo così, chiaro? Gli scacchi si muovono perché la mano del giocatore li sposta. Hai mai visto un pezzo muoversi di testa propria?»
«Beh, nelle simulazioni al laboratorio di...»
Leonardi lo azzittì di nuovo con lo sguardo.
«Questi sono i miei ordini. Li discuti?»
«No. Obbedisco.»
E avrebbe obbedito, George Gemelos. Il più rapido degli sguardi gli aveva confermato che la mano destra di Leonardi era ancora fissa sulla pancia, mentre non aveva bisogno di alcuno sguardo cauto per vedere il grigiore sulla faccia del suo interlocutore. Il suo manovratore. Il suo aguzzino. Il suo capo. Stava male, nessun dubbio. Non avrebbe obiettato. Non valeva la pena di obiettare. Non certo a quel punto. Avrebbe lasciato che fosse la natura a fare il proprio corso.
Alla fine del colloquio, se di colloquio si poteva parlare, il Direttore Gemelos respirò a fondo. Una, due, quindici volte. Anche l’aria sembrava migliore, una volta usciti dall’ufficio di Leonardi. Non che lo fosse davvero, era artificiale in ogni angolo del palazzo e purificata dalle stesse macchine, o almeno in teoria, per cui non dovevano esserci molte differenze tra le varie stanze, non nella qualità dell’aria, no, eppure fuori dalla stanza di Leonardi si respirava sempre meglio. Oggi, soprattutto.
Non so che cos’abbia, ma sta male.
Quel pensiero non lo abbandonava. Il colloquio, gli ordini? Importanti, ma non fondamentali. Come sempre li avrebbe eseguiti e come sempre non li avrebbe discussi, anche se poco prima aveva avuto voglia di discuterli, aveva avuto voglia di obiettare, criticare. Ma si era frenato. Perché aveva visto che Leonardi era debole, sì, debole come mai lo aveva visto, ma ancora forte, più forte di lui. Per cui, meglio non affrontarlo a cornate. Meglio aspettare. Guardare. Sperare. Sedersi sulla sponda del fiume, come aveva detto qualcuno troppi secoli prima.
Aspettare e ipotizzare.
Ipotizziamo, dunque.
Leonardi muore. A centonove anni suonati, non è un evento strano, né imprevisto. Anzi, è un evento che molti sognano. Cosa succede, però? Sul piano teorico, nulla. È morto un consigliere anziano, un dipendente che si è ormai ritirato dal servizio attivo e occupa solo una carica onoraria, senza alcun potere pratico, giusto? Giusto. Funerali di stato, grandi onori, discorsi e celebrazioni, pepperepè, poi tutto prosegue come sempre, senza scossoni, senza cambiamenti. L’Ufficio per la Colonizzazione ha un suo Direttore e quel direttore non è più Leonardi, giusto? Giusto. Nessun problema, dunque.
Sbagliato. Sbagliatissimo. Sbagliaterrimo. Perché Leonardi non ha più cariche formali, d’accordo, ma il controllo della baracca è ancora suo, suo e di nessun altro. E il Direttore, l’esimio, eccelso, immarcescibile George Gemelos, sempre sia ignorato il suo nome, è soltanto un grigio burocrate, con le ambizioni di un mitilo ignoto. Un inetto. Un pollo arrosto, che sarà smembrato e spolpato dal più veloce dei levrieri, i tanti che scatteranno alla morte del vecchione.
Prospettiva entusiasmante, vero? Per Gemelo sì, forse a sorpresa e forse no. Perché la sua carriera e la sua vita lavorativa sarebbero terminate con la morte di Leonardi, questo era ovvio, e lo avrebbero sistemato in un qualche tipo di ospizio, con un orologio d’oro, ad attendere la morte gettando pezzi di pane alle anatre di un laghetto. O qualcosa di simile. Magari non proprio così, magari un poco meno pittoresco, ma la sostanza era quella. E a Gemelos andava benissimo.
Che lottino pure gli altri per ascendere la scala sociale! Che si consumino la vita e le arterie, per una scheggia di potere e di autorità in più! Che si imbottiscano di stress, litigando ogni giorno con mille e più ambasciatori e inviati dalle colonie! Che si buttino nel fuoco, se proprio lo vogliono! Lui, il Direttore George Gemelos, non avrebbe mai voluto diventare direttore: era stato Leonardi a imporlo e imporglielo, consenziente o meno che fosse la vittima. Gemelos, per conto suo, sperava solo in una quieta vecchiezza, in pantofole, senza problemi fisici ed economici, lontano da tutto e tutti. Non era ambizioso ed era contento così. Se la tengano gli altri, l’ambizione! Per quel che vale...
Ricapitolando, dunque. Leonardi schiatta. Si apre la guerra di successione. Gemelos resta per un po’ a guardare. Alla fine il vincitore lo manda in pensione e prende il suo posto come direttore. Ottimo. Fantastico. Favoloso. Fantastivoloso. Cosa chiedere di più alla vita? Gemelos non lo sapeva. Anzi, lo sapeva: che la schiattatura di Leonardi avvenisse il più presto possibile. Sarebbe stato libero, finalmente. Libero di concludere i propri anni nella pace della pianta grassa.
E mentre fantasticava di un futuro forse lontano, sfavillato dalla mano destra che Leonartdi teneva premuta sull’addome e dal generale grigiore della sua faccia da morto, l’ancora Direttore Gemelos quasi inciampò nel tizio che attendeva presso la porta dell’ufficio. Un giovane, che ricordava più o meno di avere già visto da qualche parte, e che adesso pareva volere parlare con lui, per ragioni che Gemelos non poteva immaginare né comprendere. Perché mai qualcuno voleva parlare con lui, che era direttore sì, ma contava come il due di coppe quando la briscola è spade?
Bogdan Stratos, il giovane in questione, era pienamente consapevole che il Direttore Gemelos non valeva un fico secco, ma era altrettanto consapevole, amaramente consapevole, che nessuno che valesse qualcosa lo avrebbe ascoltato. O, se anche lo avessero ascoltato, avrebbero risposto come il professor Vihersalo, il suo superiore, luminare inverso della planetologia. E dunque, nella più grama carenza di alternative, anche parlare con un attaccapanni sarebbe stato meglio di niente. Il che era più o meno ciò che si apprestava a fare.
Bogdan era all’Ufficio per la Colonizzazione da poco tempo, eppure era riuscito nella impresa, a suo modo notevole, di esserne già insoddisfatto. Parzialmente insoddisfatto, almeno. Insoddisfatto delle persone, se non proprio del posto. Perché il posto non era male, sia chiaro. Attrezzature di primo livello, fondi a volontà: bisognava essere pazzi, per lamentarsi. E infatti i problemi di Bogdan non erano col posto, ma con chi vi lavorava. A cosa servivano tutte quelle risorse, se poi non c’era una testa, una sola testa, che le sapesse usare?
Alcune teste c’erano, in realtà: giovani e meno giovani, come lui, che portavano una certa quantità di entusiasmo e innovazione nei vari reparti. In teoria. Che avrebbero dovuto portare, quantomeno, perché di fatto non portavano. Abdicavano alla propria funzione di ammodernatori e innovatori, e tutto per tenersi buoni i boss, i capi dei dipartimenti. Che erano innovatori come il fango. O almeno così la pensava lui, nel suo entusiasmo da nuovo arrivato, che vuole spaccare il mondo o anche la galassia, già che siamo nelle spese. Dopotutto, perché limitarsi?
Perché aveva di fronte un macigno. Un macigno ottuso, come tutti i macigni che si rispettino e sì, anche come molti di quelli che non si rispettano. Un macigno di nome Aaron Vihersalo, appunto.
Capo planetologo, già. Ne sapeva di più il cane di sua nonna, che quel Vihersalo. Ok, sua nonna non aveva mai avuto un cane, ma il punto rimaneva valido: se lo avesse avuto, sarebbe stato più sveglio di Aaron Vihersalo, l’illustre, insigne e magniloquente capo del suo dipartimento. Una persona tanto sveglia, che probabilmente avrebbe dovuto usare il manuale di istruzioni anche per andare in bagno.
Pure, era il suo superiore. Purtroppo. E pure troppo.
La storia dei giganti gassosi di Madre, ecco. Se li analizzavi col solito metodo, quello che avevano già utilizzato duecentotrenta e qualcosa volte, come amava ripetere Vihersalo, non notavi niente di insolito. Se però li analizzi col metodo che aveva proposto lui, e che utilizzavano regolarmente sia su Lakshmi, sia nelle università di almeno sei dei Mondi Coloniali, ecco che ti accorgi subito che c’era qualcosa di diverso in quei due pianeti. Qualcosa di molto diverso. Qualcosa che non andava? Forse, forse no. Avrebbe avuto bisogno di studiarli a fondo, per saperlo. Per studiarli a fondo, però, avrebbe prima dovuto convincere il boss. E lì tutto si impaludava.
Quella mattina aveva tentato di nuovo di fargli capire perché bisognasse utilizzare il filtro Chen-Cohimbra, ma niente. Niente. Come parlare al tappetino del bagno. «Non abbiamo bisogno di quei sistemi, noi,» aveva risposto, con una smorfia schifata. «Non sono efficaci e alterano i risultati di ogni seria analisi spettrografica. Ti fanno vedere cose che non esistono. Esattamente come succede a te, ragazzo mio. Ci siamo già passati, vedi,» aveva concluso, con uno sguardo che dimostrava tutto il più alto rispetto e la profonda stima che provava nei confronti del giovinastro molesto e testa calda, forse un poco scemo (ma idiot savant, ohimè!), che aveva di fronte.
«Non alterano i risultati,» aveva insistito lui. «Li completano, semmai, perché scompongono la luce con una maggiore precisione rispetto ai nostri. Può controllare lei stesso gli studi che ha lasciato Jana Cohimbra, li abbiamo qui in biblioteca, e il successivo lavoro di Hu Chen non ha fatto altro che migliorare i primi prototipi, che sì, lo ammetto, alteravano in parte i risultati, ma i filtri ottenuti da Chen hanno risolto questo problema e permettono di...»
«Noi non lo usiamo,» aveva chiuso Vihersalo, «e sei invitato a fare altrettanto, se vuoi che i tuoi studi abbiano una qualche rilevanza nel nostro dipartimento.»
Così, le anomalie che aveva trovato nei giganti gassosi del sistema solare di Madre rimanevano nel cassetto, ignorate da tutti. Le aveva ricontrollate anche poco prima ed era sicuro, sicuro, che fossero reali. Non erano un errore dei filtri, proprio come non sono un errore dello specchio le rughe che un mattino ti trovi attorno agli occhi. Puoi pensarlo, se ti fa piacere; puoi dare la colpa allo specchio, se non sai accettare l’età, ma le rughe resteranno sulla tua faccia, che tu lo voglia o no. Proprio come le anomalie restavano nei giganti gassosi, che a Vihersalo piacesse oppure no.
Ed erano grosse anomalie. Le analisi mostravano, o almeno suggerivano, che al centro di quei due pianeti ci fosse un tipo di materiale che, secondo la logica, non poteva esistere. Non lì, almeno, non sotto la pressione enorme del nucleo di un gigante gassoso. Per forza: chi aveva mai sentito parlare di strutture organiche nel cuore di quel tipo di pianeti? Nessuno. Anzi, nessuno lo avrebbe preso sul serio, se non fosse stato per i risultati delle analisi. Lì all’Ufficio, poi, non lo prendevano sul serio e basta, analisi o meno. «Hai sbagliato tu,» ripetevano.
Ma non c’erano errori. C’erano invece strutture organiche al centro dei due giganti gassosi. Bogdan aveva trascorso il resto della mattina seduto alla propria scrivania, soffocando un forte desiderio di rimodellare un altro tipo di struttura organica, ossia quella che componeva il cranio di Vihersalo. Il problema era che non poteva, e non solo per gli eventuali fastidi legali che ne sarebbero venuti. Non poteva, perché ogni possibilità di studiare da vicino quei pianeti passava per forza da Vihersalo, il boss. Quindi se lo doveva tenere buono. E poi il desiderio di rimodellarlo era considerato un reato, per l’appunto, se trasferito dal piano ideale al piano reale. Doveva considerare anche questo.
Ne era certo. Ciò che si trovava al centro dei giganti gassosi possedeva una forte concentrazione di carbonio e non seguiva gli schemi di una struttura minerale, come il nucleo di diamante che a volte si genera da una stella che collassa. Era carbonio, ma nello stesso schema e nelle stesse proporzioni che, sulla Terra come su altri mondi (per quanto avevano scoperto finora, almeno), corrispondevano a una forma di vita. Animale? Probabile, ma di questo non era sicuro. Che fosse organica, però, era una certezza ed era sufficiente. Più che sufficiente, per giustificare studi più approfonditi.
Così, in assenza di alternative concrete, aveva tentato una mossa della disperazione: recarsi dal suo Direttore, o meglio dal Direttore dell’Ufficio per la Colonizzazione, e perorare la propria causa al suo cospetto. Il che corrispondeva più o meno a lamentarsi davanti a un pupazzo di gomma, ma un uomo ha pur diritto di sognare, no? Quindi, Bogdan poteva sognare che sarebbe servito a qualcosa.
Il Direttore Gemelos, frattanto, lo fissava pacioso e tranquillo, dietro un sorriso di circostanza che voleva essere benevolo, senza dubbio, ma in realtà lo faceva assomigliare più che altro a uno di quei bambolotti retro, che di tanto in tanto qualche ideologo dell’educazione propone di riciclare per le nuove generazioni di bambine. Non si era mosso, dopo aver quasi calpestato il giovane, e non dava la sensazione di volersi muovere, almeno nell’immediato futuro. Aspettava una mossa dal tizio che si era accampato davanti al suo ufficio, evidentemente, e Bogdan lo accontentò.
«Buongiorno Direttore, la prego di scusarmi per il disturbo, ma avrei bisogno di parlare con lei di una questione piuttosto delicata, all’interno del mio dipartimento. Planetologia, sa...»
Gemelos sorrideva e annuiva. «Sì?»
«Mi chiamo Bogdan Stratos, dipartimento di planetologia, assunto da poco. Da qualche mese. Non so, magari si ricorda, sono stato a colloquio da lei, al mio arrivo. In estate...» Il Direttore sorrideva e annuiva, il nulla negli occhi, il vuoto in volto. «Ma forse non si ricorderà, con tutta la gente che ha al suo servizio, non può certo ricordare ogni giovane neoassunto, ci siamo visti soltanto per qualche minuto...» Vuoto chiamava vuoto, sul volto del Direttore: glassato il sorriso, glassati gli occhi. «A ogni modo, avrei questo programma di studi, che il professor Vihersalo si rifiuta di approvare, dice che è solo una perdita di tempo e che si basa su osservazioni fallate in partenza, per cui insistere su quel percorso sarebbe solo un deleterio spreco di energie, come la mette lui, e...» Un largo iceberg di incomprensione e disinteresse cominciava ad affiorare nelle pupille del Direttore. «Voglio dire, lo so che non è proprio il suo campo, ogni dipartimento è affidato alla gestione del suo personale e il ruolo di un direttore è quello di controllare dall’alto, assicurandosi che tutto proceda a dovere, nella giusta rotta, mentre a gestire i dipartimenti sono i capi che lui ha selezionato e non è considerata una buona politica quella di interferire con le decisioni dei singoli dipartimenti, a meno che non siano di un carattere palesemente erroneo e nocivo, ma...» Una scimmia aveva cominciato a battere i piatti, negli occhi del Direttore, e ogni tratto della sua figura si era fatto distante, remoto, lontano, quasi etereo nel suo fluttuare tra le nubi della divina indifferenza. Bogdan si afflosciò.
«Mi chiedevo solo se lei potesse esaminare la mia proposta e poi, se la dovesse ritenere opportuna o valida, approvare il mio piano di ricerca, ecco,» concluse, nel più blando dei modi possibili.
Una parvenza di vita rientrò nel guscio abbandonato del Direttore Gemelos. «Mio giovane amico,» cominciò, e Bogdan sapeva già di avere perso. Nessuna frase che cominci con “mio giovane amico” potrà mai portare a qualcosa di buono, se pronunciata da un vecchio trombone. Era stata una idea pessima, peggio che pessima, stupida, e adesso voleva solo farla finita il più velocemente possibile. Avvertiva un bisogno fisico di raggiungere il bar del palazzo e bere qualcosa. Qualcosa di forte. Più qualcosa. Una marea di qualcosa, ognuno più forte del precedente. Non lo avrebbe fatto, ovvio, ma ne sentiva ugualmente il bisogno. Ci sono convenzioni troppo forti per essere ignorate, almeno sul piano ideale. Sul piano reale, poi, si possono anche ignorare, ma almeno formalmente devi sentire in te il bisogno di rispettare tutte le convenzioni del caso.
«Mio giovane amico,» diceva frattanto il Direttore. «Posso capire le sue angustie, che sono in parte tipiche di ogni mente fresca di studi e di energie. La voglia, anzi il bisogno di superare chi ci sta davanti, la bramosia di dimostrare ciò che valiamo, la pulsione edipica sì potente a uccidere il padre e sposare la madre, la convinzione invincibile che la gioventù conosce e la vecchiaia langue, già, già, posso capire, posso capire. Ma sa, vede, i limiti di ogni dipartimento sono sacrosanti, già, sono inviolabili. E, vede, sebbene io sia il direttore, anche io, anche la mia posizione ha limiti, limiti in parte autoprodotti, certo, autoimposti, ma pur sempre limiti sono, vede. Ragazzo mio,» e lì Bogdan quasi si accartocciò, come dopo un calcio nella pancia, «sono problemi che devi risolvere tu stesso col responsabile del tuo dipartimento. Io non posso entrare nelle vostre diatribe, non voglio. Non oso! La libertà della scienza è sacrosanta, per noi.»
La pantomima continuò ancora per un poco, mentre Bogdan si faceva più verde dell’erba e sentiva la suddetta erba crescergli quasi fisicamente sulla pelle, le ossa, lo spirito (ammesso e non concesso che uno spirito esistesse, cosa di cui lui medesimo era tutt’altro che convinto). Sì, era stata proprio una pessima idea e sì, adesso aveva davvero bisogno di bere qualcosa. Convenzioni o meno, non si sentiva la forza di rientrare nel dipartimento, non adesso, non così, non in uno stato di piena e totale lucidità. Avrebbe detto o fatto qualcosa di ancora più stupido. Ammesso che, beninteso.
Così, quando fu finalmente libero di ritirarsi, con passabile dignità se non con la palma della vittoria (e come aveva potuto, lui, sperare di ottenerla? Pazzo, pazzo!), Bogdan Stratos si infilò in ascensore e fuggì nella cosa più simile a un bar che il palazzo possedesse, ossia un piano quasi intero dedicato a rinfreschi, mense e quant’altro possa essere infilato nell’apparato digerente dal personale che ivi lavorava. Infilato passando dagli orifizi adibiti all’alimentazione, sia chiaro: per altre necessità, la sede dell’Ufficio non era ancora attrezzata adeguatamente, almeno per quanto lui ne sapesse, ma un certo margine era sempre lasciato alla creatività dei singoli, come il Direttore gli aveva ricordato.
La zona di rinfresco, relax, attesa e cazzeggio assortito era sempre brulicante di vita, con tutti quelli che lavoravano lì dentro. C’era anche una tizia del suo stesso dipartimento, un’altra planetologa un po’ meno giovane di lui, ma ancora libera nel proprio pensiero, per un dato valore di libertà: serviva il professor Vihersalo, come ogni altro, ma non servilmente, non ancora. Si spingeva addirittura alla critica, in alcune occasioni. Dopo avere ordinato, Bogdan si accomodò accanto a lei: aveva bisogno di un orecchio in cui riversare le proprie lamentele e la collega sarebbe andata bene, anche perché non vedeva molte alternative, lì attorno. O meglio, vedeva molte alternative, ma nessuna disposta ad ascoltarlo, perché nessuna di quelle alternative lo conosceva, neppure alla lontana.
Saluti, convenevoli, come va, come non va, eccetera eccetera, la loro conversazione presentò tutti i crismi e gli ammennicoli considerati necessari dalla maggior parte degli esemplari di homo sapiens, il buffo primate che, da un certo punto di vista, può essere considerato animale sociale, ma solo se prima si definisce con cura il significato dell’aggettivo “sociale”.
Anna Lindtner era il nome della sua collega, la planetologa, l’unica nei paraggi che fosse disposta ad ascoltarlo, almeno per quanto ne sapeva Bogdan. Si sbagliava, in effetti, ma questo non lo poteva sapere, né prevedere: altre orecchie erano disposte ad ascoltarlo, più che volentieri, ma questo non lo avrebbe mai scoperto, anche se in seguito avrebbe incontrato il proprietario delle orecchie, che di lì a poco si sarebbero sintonizzate sulle sue parole. Per adesso c’era soltanto Anna Lindtner, donna di trenta e qualcosa anni, almeno a occhio (Bogdan non aveva mai chiesto l’età, né lei l’aveva mai dichiarata: certi argomenti semplicemente non si affrontano), altezza media, paffuta media, capelli di un blando e amorfo castano. Un’ascoltatrice, niente di più.
«Allora, qual è il problema?» gli chiese, quando il rivolo di convenevoli era ormai in secca.
«Non è che ci sia proprio un problema...» borbottò Bogdan, che adesso si accorgeva di non sapere bene da dove e come cominciare. E neppure se fosse saggio lamentarsi del capo con una collega.
«Ah, capisco. E bevi sempre quella roba, a quest’ora?» E accennò col capo al bicchiere che Bogdan teneva in mano. «Te lo chiedo così, per pura curiosità.»
«Ok, c’è un problema. Più o meno.» Respirò a fondo. «Vihersalo.»
«Ma non mi dire... Una risposta inaspettata, davvero. Ha cestinato di nuovo il tuo progetto?»
«Non lo vuole capire. Si rifiuta di ascoltare. È come se... se avesse un tappo di cemento armato in quelle sue orecchie del...»
«Sì, credo di avere afferrato il concetto,» lo interruppe lei. «E il tuo famoso progetto inapprovabile è sempre quello studio dei giganti gassosi di Madre, giusto?»
«I giganti gassosi del sistema a cui appartiene anche Madre, sì,» puntualizzò Bogdan. «Se soltanto quella crapa marcia di Vihersalo si decidesse a utilizzare i filtri Chen-Cohimbra, noterebbe subito che i risultati dei miei studi preliminari impongono uno studio più accurato e approfondito. Non si può fare finta di niente, non è qualcosa che puoi spazzare via con un cenno della mano! Le strutture al centro di quei giganti gassosi sono... bah!» Agitò le mani, in piena frustrazione.
«Filtri Chen-Cohimbra, eh?» sorrise Anna Lindtner. «Hai utilizzato la parola proibita, proprio come immaginavo. Te la sei andata a cercare, insomma.»
«Parola proibita? Cosa intendi?»
«Cohimbra. Jana Cohimbra. È la parola proibita. Nominarla quando Vihersalo è nei paraggi è come prenderlo a calci nel basso ventre. Con forza. E con cattiveria. E ammesso anche che ci sia qualcosa da scalciare nel suo basso ventre, area su cui preferisco non indagare, se permetti.»
«Non capisco.» Ed era vero. Non capiva. Anche se un sospetto...
«Storia vecchia, prima della prima spedizione su Madre. Quella che è andata a finire male, ricordi? C’era da imbarcare un planetologo e lui e la Cohimbra sono rimasti in ballottaggio fino alla fine, ma poi hanno scelto lei. Perché era la migliore, all’epoca. Vihersalo non era male, sia chiaro, ma le era inferiore. È stato scartato, e siccome volevano imbarcare il planetologo migliore, questo significava che il planetologo migliore non era lui, ma lei. Sono passati più di trent’anni, ormai, ma ancora non l’ha digerita. Lo hanno scartato, capisci? È una grave offesa, per uno come lui.»
«E così, adesso, ogni volta che uno nomina Jana Cohimbra, lui dà di matto, giusto?»
«Non la metterei proprio in questi termini, io, ma sì, più o meno funziona così. Per cui, ricordati che se vuoi andare d’accordo con lui non devi mai usare quel nome. Non in sua presenza.»
«Ma Jana Cohimbra è stata una planetologa migliore di lui.»
«Sì, e questo non migliora le cose, anzi. Se tu riuscissi a ottenerei i tuoi risultati in un modo diverso, uno che non richieda i filtri Chen-Cohimbra, che dalle nostre parti sono vietati, e chissà come mai, guarda, allora magari il boss ti prenderebbe sul serio, o almeno ti ascolterebbe fino alla fine.»
«Ma non posso ottenerli senza quei filtri! Sono gli unici che permettano di disegnare con precisione il nucleo di un gigante gassoso! E studiare il nucleo di quei giganti gassosi è il mio progetto! Come posso realizzarlo, senza usare il solo strumento che lo renda possibile?»
«E il nucleo di questi due giganti gassosi è davvero così importante, come dici tu? Non ho mai visto i tuoi studi preliminari, ma da come ne parli...»
«Importante è riduttivo. È vitale studiarli. Le implicazioni di quelle anomalie sono...»
«E potresti riassumermele in due parole, così mi faccio una idea?» chiese, agitando un dito nell’aria.
Bogdan Stratos gliele riassunse, anche se di parole ne usò una potenza piuttosto elevata di due. Fu più o meno a quel punto che un altro ascoltatore, seduto poco distante da loro, si sintonizzò davvero sulla discussione, passando dal sentire distratto all’ascolto mirato. All’ascolto molto mirato. Ma il loro ascoltatore è argomento per un altro giorno.
«Strutture organiche al centro di un gigante gassoso,» ripeté Anna Lindtner, col tono di chi non è del tutto disposto a riconoscere ciò che la bocca sta dicendo.
«Strutture organiche al centro di due giganti gassosi. Sì, lo so che sembra folle, e non posso ancora escludere che sia davvero folle, ma è proprio per questo che voglio approfondire lo studio, capisci? È per questo che devo convincere Vihersalo ad autorizzare il mio progetto. Se poi ho sbagliato, ok, mi assumerò le mie responsabilità, nessun problema. Ma se invece non ho sbagliato? Capisci cosa significa, vero? Dimmi che lo capisci, ti prego. Comincio a pensare di essere diventato davvero pazzo, a questo punto. Sto parlando di una cosa incredibile e nessuno mi crede.»
«Beh, trovo del tutto normale che nessuno voglia credere a una cosa incredibile. Se tutti credessero, non sarebbe più una cosa incredibile, no?»
«Sto parlando sul serio, dai.»
«E io ti rispondo sul serio. I tuoi dati non contengono errori, giusti?»
«Nessuno che io sia riuscito a localizzare.»
«E che qualcun altro sia riuscito a localizzare?»
Bogdan sbuffò. «Vihersalo non si degna neppure di guardarli. Appena gli ho nominato il filtro che ho usato, è partito subito con la sua tiritera del noi non usiamo quella roba, sono metodi fallaci, la sua è pseudoscienza, non vale neppure la pena di prenderla in considerazione, è tutta colpa di quei filtri se i risultati sono assurdi, anche un neonato se ne accorgerebbe, pepperepè, papparapà, e così via, fino a esaurimento corde vocali.»
«Vihersalo, decisamente,» rise Anna Lindtner. «Caro mio, finché usi il nome della sua cara nemica, non hai speranze di essere ascoltato da lui. Ti conviene metterti il cuore in pace e lasciare da parte lo studio, almeno finché Vihersalo è a capo del dipartimento.»
«E non sono in programma sostituzioni entro breve, vero?»
«No, salvo morte improvvisa, o qualche malattia gravemente invalidante. Ma puoi sempre provare ad assassinarlo tu, se davvero la ricerca ti sta così a cuore. Io non testimonierò contro di te.»
«Non indurmi in tentazione, per favore.»
Risero. Non era certo un modo soddisfacente per concludere la chiacchierata, ma in fondo non c’era un modo soddisfacente. Non senza che qualcuno approvasse il progetto di Bogdan, almeno. Per cui, una risata era meglio di molti altri modi: non il migliore, ma neppure il peggiore, di gran lunga.
Ci fu ancora spazio per altre chiacchiere banali tra colleghi, ma il grosso era andato. Così Hideki Einarsson, funzionario del ministero della difesa e fidato collaboratore del ministro Hass, si alzò dal tavolino dietro il loro, spazzolò con cura le maniche della sua giacca e si incamminò a passo lento e silenzioso verso l’ascensore. Era ancora presto per l’appuntamento col Direttore Gemelos, ma aveva ascoltato qualcosa di interessante. Molto interessante. E forse era opportuno procedere subito con un rapporto per il ministro Hass. Poteva essere importante. Poteva essere molto importante.
Poteva significare nuovo lavoro per i servizi.