La galassia di Madre - 36
Bogdan Stratos stava lavorando in ufficio, stanzetta riservata a lui nel palazzo di un Ufficio ben più grande e rilevante, quasi da scrivere con tutte le lettere maiuscole, quando ricevette la visita che gli avrebbe cambiato la vita. Che quella visita gli avrebbe cambiato la vita, ovviamente, ancora non lo poteva sapere, anche se un piccolo cambiamento lo aveva già causato. Il suono della porta gli aveva fatto tremare la mano e l’applicazione del filtro all’immagine era risultata sbavata, imprecisa, fuori posto. Di poco, ma fuori posto lo stesso. E adesso doveva rifare da capo. Bogdan sbuffò.
Non era un lavoratore felice, Bogdan. Non adesso. Non da quando aveva avuto quel colloquio col suo superiore, il capo planetologo Vihersalo, e il suo superiore aveva preso a fiocinate l’affascinante teoria che Bogdan stava edificando a poco a poco sulla natura dei due giganti gassosi presenti nel sistema solare di Madre. Fiocinata con tutta la barbarie possibile e molta di quella inimmaginabile. E proprio dal boss, il suo presunto maestro. Vihersalo, il signor «i filtri Chen-Cohimbra qui non li usiamo, perché sono brutti e cattivi, gné gné».
Non li usavano perché vi aveva lavorato una precedente collega di Vihersalo, una che era stata ben più competente di lui, e a Vihersalo non piaceva. Il resto erano balle, tutte balle, solo balle. I filtri li usavano regolarmente su tutti i mondi coloniali, e con ottimi risultati; solo la Terra li rifiutava, o per essere più precisi solo l’Ufficio per la Colonizzazione. Solo Vihersalo.
Così quel vecchio caprone con la chierica naturale e la frangetta artificiale gli aveva respinto tutto il lavoro, bollandolo come errore. Lo aveva accusato di non essere scientifico. Non scientifico! Parla lui! Proprio il pulpito più adatto per predicare. Bogdan non l’aveva digerita e ancora non la stava digerendo: gli galleggiava inchiodata al centro dello stomaco, come una peperonata avariata che hai mangiato in piena notte, spinto dal demone della perversità. E, sempre come la suddetta peperonata, lo teneva sveglio in modo sgradevole.
Aveva attraversato varie fasi emotive, nel corso di quei primi mesi: dalla rabbia, allo sconforto, alla contemplazione distaccata dell’infinita vanità del tutto, per poi attestarsi sul più classico sentimento di rivalsa, all’insegna del “te la faccio vedere io”. Adesso stava proprio cercando di fargliela vedere lui, ma i risultati latitavano. Aveva recuperato il suo studio sui giganti gassosi di Madre, sistemato con cura le immagini iniziali e proceduto con la non applicazione dei filtri Chen-Cohimbra. Se quel vecchio caprone malpettinato si rifiutava di accettare il progetto, perché i filtri erano brutti e cattivi, allora lui gli avrebbe dimostrato che si poteva ottenere lo stesso risultato anche senza usare i filtri. Sarebbe stato costretto a dargli ragione, Vihersalo, che lo volesse oppure no.
Il problema era che, senza i filtri Chen-Cohimbra, non otteneva gli stessi risultati. Ma neppure per sbaglio, neppure lontanamente gli stessi. Neppure con tutte le acrobazie che riusciva a pensare e con molte di quelle che non riusciva a pensare, ma provava ugualmente.
Il che aveva un senso. Proprio Vihersalo gli aveva sottolineato come esistessero già più di duecento studi sui giganti gassosi, tutti condotti senza i filtri Chen-Cohimbra e tutti che negavano i risultati che lui aveva ottenuto. Risultati che dunque si potevano ottenere solo coi filtri Chen-Cohimbra. Che però il caprone non avrebbe mai accettato, perché i filtri no. E dunque? Come fare ad afferrare il boss per il collo e sbattergli la sua espressione bovina contro i risultati, per costringerlo ad accettare che sì, al centro di quei due giganti gassosi esistevano strutture organiche? Quasi organiche. Simil-organiche, almeno. Qualcosa del genere, ecco.
Qualcosa che lui avrebbe voluto approfondire e studiare per anni, maledizione, se soltanto gli fosse riuscito di infilare quel concetto nella crapa del suo capo. Era una scoperta fantastica, una scoperta rivoluzionaria, una scoperta impossibile! Quale ricercatore sano di mente avrebbe rifiutato anche solo una piccola possibilità di verificarlo e collegare il proprio nome a quella che sarebbe potuta essere la più grande rivoluzione nella storia della planetologia, qualcosa che avrebbe forse cambiato per sempre il modo in cui l’umanità guardava ai corpi celesti? O almeno la piccola parte di umanità che li guardava e li riconosceva come qualcosa di più serio che puntini luminosi, sparpagliati nella notte per dare lavoro a poeti di serie z.
Vihersalo lo rifiutava. Lo disprezzava. Lo derideva! Era dunque in un insano miscuglio di rabbia e frustrazione che Bogdan Stratos ricevette la visita inaspettata, quella mattina. La visita che, come si diceva in apertura, gli avrebbe rivoluzionato la vita. Che la sua vita volesse essere rivoluzionata, oppure no.
Con un sospiro infastidito, di fronte all’errore che il suono improvviso aveva provocato, Bogdan si alzò e raggiunse la porta. Prima di aprire guardò come sua abitudine nel visore, giusto per sapere cosa aspettarsi e come riceverlo, ma il visore non gli fornì alcuna informazione utile. Gli mostrò invece un volto sconosciuto, ma non del tutto sconosciuto: quel genere di volti che sai di avere già visto da qualche parte, forse, ma non ti ricordi né dove, né come. Il nome che si accompagna a quel volto, poi, è più volatile di una pozzanghera di etere. Alzando le spalle, Bogdan lo fece entrare. Era pur sempre un visitatore, chiunque fosse.
Il quasi sconosciuto entrò. Un uomo abbastanza alto (ma meno di lui), dalle spalle larghe e piene, il fisico agile e giovanile nonostante dovesse essere ormai sulla mezza età. Portava una barbetta sottile e curata, da filosofo moderno, ma non sembrava un filosofo. O meglio, poteva anche sembrarlo, ma in quel caso sarebbe stato il genere di filosofo che, in tarda età, scrive trattati sull’arte della guerra, sul sistema per sfruttare le debolezze dell’avversario, su come gestire con efficacia un esercito in tempo di crisi, eccetera eccetera, il tutto decorato da qualche perla di saggezza qui e là. Quel genere di filosofo che spesso si porta in giro anche un titolo nobiliare, tanto per fare scena.
«Signor Bogdan Stratos, è un piacere incontrarla.»
Bogdan non poteva proprio dire la stessa cosa, non avendo idea di chi fosse quel tizio che lo aveva interrotto nel mezzo del lavoro, ma sfoderò un sorriso da commerciante e rispose in automatico con quei convenevoli precotti che si usano sempre, mentre si aspetta di arrivare al vero argomento della conversazione. Il vero argomento arrivò piuttosto in fretta, assieme alla presentazione del visitatore, che Bogdan chiese alla prima occasione utile e non troppo scortese.
«Ha perfettamente ragione, ho dimenticato di presentarmi,» gli rispose il visitatore, con un sorriso così affabile da spingerti a cercare una uscita di sicurezza. «Andrea Hass, Ministro della Difesa.» E tese una mano, ad accompagnare le parole. Fu più o meno a quel punto che Bogdan smise di cercare di capire cosa gli stesse succedendo e si abbandonò alla corrente, perché quando un ministro della difesa ti si presenta alla porta e dichiara di conoscerti, c’è qualcosa di estremamente fuori posto nel mondo ed è inutile lottare. Meglio lasciarsi trascinare, appunto.
Prima o poi lo avrebbe depositato da qualche parte, giusto?
Leonardi era pazzo. Su questo, Andrea Hass era stato costretto dalle circostanze ad abbandonare i dubbi residui e ad accettare la realtà dei fatti. Leonardi era stato geniale, grande, aveva fatto molto per la Terra, più di chiunque altro, ma la chiave era proprio nel tempo verbale: era stato, aveva fatto. Trapassato prossimo. Un fatto del passato, anteriore a un altro fatto pure del passato. Qualcosa di doppiamente passato, un tempo ormai andato e straandato, almeno secondo l’interpretazione data dal non grammatico Hass. In altri termini, Leonardi era superato.
Niente di strano, in questo. Alla veneranda età di centonove anni, molte persone si sarebbero piegate all’anagrafe, accettando il fatto che la loro epoca di gloria fosse ormai finita. In molti, se non tutti, non ne avrebbero neppure fatto un dramma. Dopo decenni e ancora decenni spesi a lavorare per il tuo pianeta, e lavorare duro, chi mai avrebbe rifiutato un riposo ben retribuito, per dedicarsi ai propri interessi e attendere nella quiete e nel benessere la fine della propria vita? Attesa breve, vista l’età, ma attesa lo stesso.
La risposta era Leonardi. Il dottor Vito Leonardi, già Direttore Vito Leonardi, già chissà quante altre cose ancora, accumulate in una carriera che si rifiutava di finire. E se almeno avesse continuato a fare un buon lavoro, nessun problema. Cioè, qualche problema sì, ma nulla di grave. Ma non stava continuando a fare un buon lavoro. Non più. Non da tempo.
Dai tempi della seconda spedizione su Madre? Possibile, ma Hass non si spingeva a tanto. Era stata una brutta storia, quella spedizione, e lui non ne poteva dubitare, essendone stato il comandante. Ma non era solo quello. Era il modo in cui Leonardi aveva agito durante la storia della quarantena e la quasi crisi con Lakshmi. Il modo in cui aveva gestito i presunti Isolazionisti. Il modo in cui anche adesso si ostinava a chiudere gli occhi, non vedere, non capire, non.
Un tempo era stato un maestro di politica interplanetaria e Hass aveva imparato parecchio da lui, nel bene e nel male. Adesso non lo era più. Aveva già commesso errori, nei rapporti coi pianeti coloniali, e altri errori sarebbero arrivati a breve, Hass ne era sicuro. Ma Leonardi non cedeva, non mollava. Leonardi era un pilastro crepato e fragile, che non accetta la propria fragilità. Era anche un rudere che non si voleva levare dalle palle, per dirla in modo meno poetico e più concreto.
Perché Leonardi era vecchio, sempre più vecchio, e i suoi giorni migliori appartenevano al passato. Ma lui non lo accettava, appunto. Era stato costretto ad accettare di fare un passo indietro e cedere la poltrona di direttore, d’accordo, ma era stata pura forma, senza sostanza. Non vi sedeva, ma la controllava da fuori. Quindi nulla era cambiato, di fatto. Poteva rinunciare all’apparenza, ma non al potere. Non alla sensazione di essere l’uomo al centro di tutto, attorno a cui tutto ruota.
Che la Terra potesse cavarsela anche senza il signor Vito Leonardi era una idea che non si sarebbe mai affacciata alla sua vecchia mente, una idea che non era programmato per accettare, o anche solo per elaborare in via del tutto ipotetica. La elaborava spesso la mente di Andrea Hass, accompagnata da un avverbio: bene. Meglio, a volte. La Terra se la sarebbe cavata bene (o meglio) anche senza il signor Vito Leonardi. Perché non togliere il disturbo, dunque?
Madre era la sua reale ossessione, adesso, la sua ossessione di antico. Madre e quello che c’era su Madre. Quello che era Madre. Vi erano stati assieme, Hass e Leonardi: Hass col proprio corpo, come comandante della missione, Leonardi con la propria mente, come coscienza copiata su un supporto esterno. Erano stati assieme su Madre, assieme sotto Madre e assieme avevano deciso. Per un dato valore di assieme, ovviamente. Leonardi aveva deciso e lui aveva dato il proprio consenso, perché al momento era sembrata la cosa migliore da fare.
Adesso non lo sembrava più. Adesso aveva dubbi, molti dubbi, e quei dubbi erano diventati quasi certezze, soprattutto dopo il suo terzo e ultimo viaggio su Madre, per tutt’altra ragione. Che poi era ancora la stessa ragione, da un certo punto di vista. O lo era diventata.
E mentre Hass rifletteva sulla ossessione che stava divorando la mente di Leonardi, spingendolo a scelte che, con una certa compassione, potevano essere descritte come azzardate e non stupide, ecco che gli arriva la relazione di Hideki Einarsson, uno dei suoi collaboratori più fidati. Uno che, come lui, aveva imparato nell’esercito e per questo era uno dei più fidati. Ma Hideki non è importante, adesso; è importante la sua relazione.
Parlava di un giovane planetologo, assunto da poco, un certo Bogdan Stratos, con allegata tutta la lista delle sue referenze e il suo curriculum, che riguardava soprattutto gli studi, al momento. Un neoassunto che aveva avuto subito uno scambio di opinioni con Aaron Vihersalo, per una ricerca che quello Stratos avrebbe compiuto sui giganti gassosi di Madre. E lì si era fermata l’attenzione di Hass: sulla ricerca e sui risultati della ricerca. Su quello che Leonardi avrebbe detto, dopo aver visto quei risultati. E su quello che avrebbe fatto.
Così il ministro Hass aveva deciso di incontrare per primo quel giovane. Per ascoltarlo. Avvisarlo. Consigliarlo. E avvertirlo, anche. E magari, a seconda di come si fosse svolto il colloquio, esortarlo a osservare la situazione da una prospettiva diversa. Una prospettiva distanze quattro anni luce circa, che non erano tanti, ma potevano essere sufficienti, soprattutto perché erano anni luce pesanti. Giusto per andare sul sicuro, sapete.
E adesso sedeva nel piccolo ufficio di quel giovane, che lo guardava e non capiva. Ah, la gioventù! Ma bisognava sempre spiegare tutto, e per bene, se si voleva che capissero qualcosa. I suggerimenti non li coglievano proprio: volavano sopra le loro teste.
«Signor Stratos, le sto dicendo che io ho avuto occasione di visionare la sua ricerca e l’ho trovata molto interessante. Molto istruttiva, senza dubbio. Non tutti, però, condivideranno la mia opinione, qui dentro. Alcuni potrebbero essere più... rigidi, ecco.»
«Ah, signor ministro, su questo ha proprio ragione! Quando io l’ho presentata al capo planetologo Vihersalo, mi ha praticamente riso in faccia, accusandomi di avere sbagliato tutto e di non essere aderente alla verità scientifica delle cose, o qualcosa di simile, non ricordo le parole precise, ma...»
Andrea Hass alzò una mano. «Capisco la sua insoddisfazione, mi creda, ma non è a questo che mi stavo riferendo, nello specifico. Pensavo più che altro che il clima dell’Ufficio potrebbe non essere adatto allo studio che lei vuole portare avanti. Come ben sa, o almeno come dovrebbe sapere, tra questo Ufficio e Madre c’è un rapporto molto... particolare, ecco.»
«Perché è la prima delle nuove colonie terrestri e perché l’Ufficio ha guidato l’esplorazione e poi la colonizzazione, capisco, ma...»
«Anche per questo motivo, sì, ma non solo per questo. È Leonardi, vede? È una ossessione quasi viscerale quella che lo lega a Madre. Molto viscerale e molto ossessiva. E lui non apprezza molto gli studi che cercano di cambiare la sua percezione di quel pianeta o di tutto ciò che a esso è in un qualche modo collegato, vede? Inclusa la sua molto istruttiva ricerca sui giganti gassosi.»
Bogdan Stratos rimase in silenzio. Il ministro della difesa si era presentato nel suo ufficio e quella era già una cosa parecchio strana, ma da un certo punto di vista la poteva accettare. Sapeva che tra il governo e l’Ufficio c’era un legame piuttosto forte e che l’Ufficio stesso era di fatto un organo del governo, anche se formalmente non lo era. Che un qualche politico, fosse pure un pezzo grosso, se ne andasse in giro per il palazzo dell’Ufficio era un pensiero accettabile.
Diventava molto meno accettabile quando quel pezzo grosso non solo era un ministro (della difesa, poi, il che non era proprio rassicurante), ma conosceva il nome di un insignificante neoassunto, e lo veniva a cercare in ufficio, e cominciava a parlagli di una ricerca che neppure il diretto superiore di quel neoassunto aveva preso sul serio. Se poi il suddetto pezzo grosso cominciava a fare riferimenti vaghi ma non troppo a una possibile disapprovazione da parte di Leonardi, il capo di tutto, allora si passava direttamente al paranoico allucinato, con venature kafkiane.
Che avesse inavvertitamente infilato il naso in un qualche segreto militare? L’ipotesi, che la figura del ministro seduto davanti a lui sembrava volere rafforzare, non era incoraggiante. No, neanche un poco. Era agghiacciante. E quindi...
«Sta dicendo che potrebbe succedermi qualcosa di brutto, se continuassi con questa ricerca?» chiese Bogdan, riuscendo quasi eroicamente a suonare neutrale e un poco curioso, quando invece il tratto terminale del suo intestino era sull’attenti, pronto a scaricare tutto il proprio contenuto lì sul posto.
Il ministro sorrise. «Non la sto minacciando, per carità, anche se capisco che il mio discorso possa suonare così.» Perché è così che voglio che suoni, non aggiunse. «Le sto solo dicendo che il suo campo di ricerca, nello stato attuale dell’Ufficio, non incontrerà né approvazione né aiuto, ma solo reazioni come quella di Vihersalo. Il quale, peraltro, è stato anche piuttosto cortese, lasci che glielo dica. Tanto per cominciare, non ha diffuso i risultati.»
«Ma lei li ha saputi lo stesso.»
«Ma io li ho saputi lo stesso, naturalmente, ma da altre fonti. Mantenermi informato fa parte del mio ruolo, dopotutto, come lei potrà capire.»
Visioni di polizia segreta e interrogatori in stanze buie, sepolte negli abissi della terra, correvano da un angolo all’altro della mente di Bogdan. I servizi segreti rispondevano al ministro dell’interno? O a quello della difesa? O a qualcun altro ancora? Dettagli secondari, al momento: chiunque fosse il loro capo, tutti i servizi segreti immaginabili si erano accampati nel cranio di Bogdan e celebravano attorno a un falò. Senza specificare di chi fosse il falò o cosa stessero celebrando. «Quindi io dovrei smettere con queste ricerche, vero?» chiese, non del tutto certo di voler conoscere la risposta.
Il ministro si fece serio. «No. Come le ho detto, io ho trovato molto interessante e molto istruttivo il suo progetto. I risultati del suo progetto, in particolare. Sono in linea con una mia teoria, che magari un giorno avrò occasione di esporle. Sì, penso che un giorno avremo occasione di parlarne anche a lungo, magari quando entrambi saremo meno occupati.»
E anche quella poteva suonare come una minaccia non troppo velata, almeno alle orecchie pronte a coglierne tutte le intonazioni sottintese. Le orecchie di Bogdan lo erano. «Ma quindi come posso io continuare il mio studio, se qui all’Ufficio lei mi dice che...»
«Continuandolo all’esterno dell’Ufficio, naturalmente. Oh, non per sempre e non a lungo,» spiegò, vedendo al reazione sul volto di Bogdan. «Le sto solo suggerendo un breve viaggio di studi altrove, per chiarirsi le idee e trovare menti più aperte e pronte a recepire le sue novità. Le interesserebbe studiare col professor Hu Chen, per esempio?»
Nel cervello di Bogdan qualcosa si bloccò. Il professor Chen, lo scienziato di Svarga che aveva non solo collaborato con Jana Cphimbra, ma aveva proseguito in proprio il lavoro, dopo la scomparsa della collega. Lo scienziato a cui si doveva la versione finale dei filtri Chen-Cohimbra e che ancora continuava ad aggiornarli e perfezionarli, nella sua fondazione. Gli chiedeva se gli sarebbe piaciuto studiare assieme a lui? Avrebbe venduto la propria madre per farlo.
«Poter proseguire i miei studi alla fondazione Chen-Cohimbra, e magari sfruttare le versioni più recenti o anche i prototipi dei nuovi filtri, sarebbe molto interessante, sì,» rispose, cercando di non sbavare troppo, «ma non so se il professor Vihersalo accetterà di lasciarmi andare.»
«Accetterà, accetterà. Accetterà di levarsi dalle scatole il ragazzino che ficca il suo naso dove non dovrebbe, credimi. E se poi dovesse avere qualche rimostranza, lo faremo accettare noi. In fondo è quasi una tradizione per i nuovi assunti compiere un viaggio di formazione su Svarga, giusto?»
Su Svarga. Il primo pianeta a essere colonizzato dall’uomo, il mondo coloniale più vicino alla Terra, attorno ad Alpha Centauri, l’unico mondo a essere interessato alla Terra per quello che era oggi e non per quello che era stata secoli prima, almeno secondo Matteo, che a propria volta citava il capo del centro culturale terrestre di Varshi, su Lakshmi. Ci aveva scherzato, lui, raccontando che era una tradizione andare a studiare su quel pianeta, per i nuovi assunti dell’Ufficio. Ci aveva scherzato. E adesso gli offrivano di andarci davvero. Lo offrivano a lui. Glielo offriva un ministro. E gli offriva di poter studiare assieme al professor Chen, o almeno nelle vicinanze del professor Chen, che era la cosa più vicina a un dio della planetologia che Bogdan potesse immaginare, almeno quando non stava immaginando un ipotetico se stesso qualche decina di anni nel futuro.
C’era qualcosa di totalmente sbagliato in quella giornata, qualcosa di così fuori posto da diventare quasi a posto, ma arrivandoci dall’altra parte. Che cosa stava succedendo al mondo? Che cosa stava succedendo a lui? Qualunque cosa fosse, era meglio che continuasse a succedere.
«Se avrò una possibilità di andare a studiare col professor Chen su Svarga, allora la accetterò molto volentieri, questo glielo assicuro,» rispose.
«Perfetto! Allora possiamo preparare la sua partenza. Ah, le lascerò anche il contatto di uno dei miei uomini, che la accompagnerà nel viaggio e col quale voglio che lei comunichi regolarmente, mentre sarà su Svarga. Come le ho detto, sono molto interessato ai risultati delle sue ricerche e non voglio perdermi i nuovi sviluppi, quando arriveranno. Molte cose potrebbero dipendere da questi risultati. Mi capisce?» E sorrise.
E quello era già meno incoraggiante, perché significava che il ministero della difesa lo avrebbe di fatto tenuto sotto controllo, ma ehi! Gli permetteva anche di studiare con Chen, invece che con quel caprone di Vihersalo. Fra la minestra e la finestra, lui sceglieva la minestra, anche se qualcuno ci poteva avere aggiunto un additivo speciale. Era molto meglio che restare lì, in quel palazzo, ad ammuffire e rimbambirsi, fino a che non avesse cominciato anche lui a studiare pettinature assurde per passare il tempo e fingersi vivo.
«La capisco e accetto le sue condizioni.» Che conosceva solo in parte, è vero, ma con l’esca che gli avevano fatto ballare sotto al naso avrebbe accettato più o meno di tutto. Rifiutare sarebbe stato come... come rinunciare a se stesso, da un certo punto di vista. Abbandonare tutto e diventare un nuovo Vihersalo, o un nuovo Lösing, il tecnico con una pettinatura da corte del re Sole, e quello era peggio che morire. Era morire restando vivi. Almeno secondo il modesto parere di Bogdan.
Così cominciarono i preparativi per il suo soggiorno su Svarga, con tutto quello che ne sarebbe venuto poi. Ma il poi era ancora lontano, quel giorno. Quel giorno c’era solo l’offerta del ministro, che gli avrebbe cambiato la vita. Che Bogdan lo sapesse oppure no.
Quello stesso pomeriggio, Bogdan Stratos sedeva nel bar del palazzo. O nel settore per accoglienza e relax del personale dell’Ufficio, a seconda di come preferivi chiamarlo. C’era un lungo bancone, dove servivano alcolici e varie altre cose; c’erano tavolini dove accomodarsi e bere, mangiare o solo chiacchierare; c’era musica e c’erano schermi televisivi. Il nome era un dettaglio, ma nella mente di Bogdan era il bar e probabilmente lo sarebbe rimasto sempre. Almeno fino a che lui fosse rimasto lì, il che significava poco, a giudicare dall’incontro di quella mattina.
«Un viaggio su Svarga?» chiese Anna Lindtner, seduta di fronte a lui. Lo guardava con un misto di divertimento e incredulità, che Bogdan trovava alquanto fastidioso, ma era una delle poche persone nel suo reparto con cui riuscisse a parlare, senza provare il desiderio di strangolarla dopo sei minuti. Era comunque determinato a cancellare sia incredulità che divertimento da quella faccia, se poteva.
«Un viaggio su Svarga, sì. Per studiare col professor Chen.»
«Quello del filtro? Non sapevo che insegnasse ancora.»
«Beh, l’insegnamento non è più la sua attività principale, in effetti, ma potrò comunque studiare nella sua fondazione, il che è più o meno la stessa cosa, no?»
Anna Lindtner alzò le spalle. «Se lo dici tu. Ma come mai questa novità? Cosa hai combinato per farti spedire su Svarga? Litigato di nuovo col vecchio?»
«No, Vihersalo non c’entra.» Falso. «Ok, magari c’entra, ma solo in parte,» si corresse. «È che mi è stato proposto questo viaggio, perché a quanto pare cercavano qualcuno per uno scambio culturale o una roba simile, non ho capito molto bene, e così... beh, sempre meglio che restare qui a litigare col vecchio, no?» Con qualche piccola improvvisazione, era la versione ufficiale della storia, che Hass gli aveva chiesto di utilizzare. Per un valore molto forte di chiesto.
«Su Svarga. E quanto ci resterai, scusa?»
Quanto ci sarebbe rimasto? Nell’entusiasmo della proposta, Bogdan aveva dimenticato di chiedere quel piccolo, trascurabile dettaglio. «A dire il vero non lo so. Mi sono dimenticato di chiederlo.»
«Sarà meglio che la prossima volta te lo ricordi,» rise Anna. «Se no va a finire che ti lasciano là, per avere un rompiscatole in meno tra i piedi. Un giovane rompiscatole in meno.»
Ottimo appunto. In effetti, la maggioranza degli studiosi dell’Ufficio sembrava essere composta dal persone che, nel migliore dei casi, potevano essere descritte come giovanili, e questi membri così giovanili non guardavano mai con grande favore chi giovane lo era davvero. Non lì, almeno. Stava diventando una specie di triste gerontocrazia, l’Ufficio, il che era deprimente. Pensare che una volta aveva rappresentato il vertice della cultura terrestre e il centro delle sue speranze...
C’era parecchia gente nel bar, attorno a loro. Quasi tutti i tavolini erano occupati e altri ancora si potevano vedere allineati davanti al bancone, o contro le pareti, o anche raggruppati davanti a uno degli schermi. Era strano che ci fosse tanta gente, in effetti, ma a Bogdan non interessava proprio. Aveva ben altro per la testa. Un viaggio su Svarga, per esempio.
«Di’, ma perché dovrebbe essere una punizione un viaggio su Svarga?» chiese dopo un poco. «Io avevo capito che fosse una specie di iniziazione per i nuovi assunti. Vai su Svarga e guardati un po’ attorno, cose del genere, no?»
Anna Lindtner appoggiò il bicchiere. «Perché dovrebbe essere una punizione?»
«Beh... l’hai detto tu, no? Mi hai chiesto se mi mandavano perché avevo litigato col vecchio.»
«Ma era una battuta, dai! Mi hai presa sul serio?» rise la collega. «No, no, per carità. Sei davvero troppo quadrato, tu. Comunque sì, è vero che una volta lo usavano come viaggio di iniziazione per i nuovi assunti, o una cosa simile, ma parliamo di almeno dieci, venti anni fa. Quando hanno assunto me era già passato di moda. Non mi hanno mandata da nessuna parte, da quando sono qui.»
«Un viaggio di iniziazione su Svarga.»
«Iniziazione per modo di dire. Da quello che ho capito io, era di fatto spionaggio, più o meno. Non militare, sia chiaro, ma il genere di spionaggio che si fa tra centri di ricerca: io cerco di rubare i tuoi brevetti e tu cerchi di rubare i miei, capito? Ti mandavano su Svarga con la scusa di approfondire questo o quello, e tu intanto cercavi di arraffare il più possibile e portarlo qui. Da Svarga ogni tanto arrivava qualcuno dei loro, che faceva la stessa cosa qui. O così mi hanno detto i veterani, ma sai anche tu come sono fatti, quelli...»
Sì, lo sapeva anche lui. Pallari dal primo all’ultimo, quando ne avevano voglia. Bogdan non sarebbe stato sorpreso di scoprire che si erano inventati quella storia di spionaggi, per fare bella figura con la neoassunta. Non che valesse poi la pena di fare bella figura con una come Anna Lindtner, almeno a suo parere, ma i gusti erano gusti e a una certa età probabilmente ti accontenti di quello che trovi.
«Quindi era solo una leggenda metropolitana, più o meno,» concluse, finendo il proprio bicchiere e sparandosi una manciata di salatini in gola, tanto per favorire.
«Più o meno, sì. Ma tu ci andrai davvero, giusto? Mi saprai dire al ritorno.»
«Oh sì, ne avrò da raccontare.»
Il che era probabilmente vero. Soltanto due giorni più tardi, però, la sua mente si fu raffreddata a sufficienza da suggerirgli che sì, ne avrebbe avute parecchie al suo ritorno, ma non era certo che si potessero raccontare tutte. O anche solo che un ritorno ci sarebbe stato, se era per questo.
Sarebbe andato su Svarga, il che era ok. Sarebbe andato a studiare col professor Chen, il che era fantastico. Il suo viaggio era stato deciso dal ministro della difesa, il che era meno ok. Il ministro della difesa lo conosceva, aveva indagato su di lui ed era interessato alle sue ricerche, il che non era ok, ma neanche per sbaglio. In viaggio avrebbe avuto un accompagnatore, col quale poi si sarebbe dovuto tenere in costante contatto, durante gli studi su Svarga. Un accompagnatore che era uno dei collaboratori del ministero della difesa. Avrebbe dovuto fare rapporto, se si voleva essere precisi. E questo non solo non era ok: era pessimo. Puzzava di spionaggio lontano un anno luce.
Ma lo era? E che lo fosse o meno, aveva alternative? Oh, sì, certo che le aveva: restare all’Ufficio e fare la muffa, fino a ridursi come Vihersalo. E tanti saluti alle sue ricerche e alla scoperta che, una volta provata e approfondita, lo avrebbe potuto rendere lo scienziato più famoso dell’epoca, l’uomo che aveva riscritto la planetologia, e forse anche l’astronomia e chissà quante altre scienze ancora. È sempre meglio abbondare, quando si sognano i propri successi futuri.
Messa in quei termini, un poco di spionaggio tra potenze confinanti e moderatamente pacifiche era il più piccolo e accettabile dei prezzi, almeno a suo parere. Che poi lui era uno scienziato e non gli interessavano le beghe tra pianeti: le lasciava volentieri ai direttori, ai ministri e compagnia bella. A lui interessava poter studiare, il posto era indifferente. Filosofia che lo aveva condotto all’Ufficio, è vero, ma stavolta il risultato sarebbe stato migliore. Ne era certo. Lo poteva sentire nelle ossa. E poi quel ministro Hass sembrava una brava persona, tutto sommato.
E la brava persona ministro Hass, proprio in quel momento, sedeva nell’ufficio di Leonardi, carico di tutto l’entusiasmo che una trota prova, quando è sbalzata sulla riva del fiume, a boccheggiare e morire in un’atmosfera aliena e nemica.
«Le dico che non c’è nessun pericolo su Madre,» ripeté, più stanco che mai. «La presunta infiltrata lakshmita era soltanto una ragazzina stupida, che voleva aggirare la quarantena per unirsi agli altri archeologi sul pianeta. È stata rispedita a casa, assieme a una specie di suo tutore, e l’ambasciatore in persona è venuto a scusarsi da noi per il disturbo causato. Non la rivedremo più.»
«Era una spia, te lo dico io!»
«Quel Davide Kori, il presunto inviato degli Isolazionisti, è sorvegliato costantemente su Madre. Se mai dovesse decidere di fare qualcosa, saremo i primi a saperlo e quando lo sapremo lui sarà già stato arrestato e pronto per un interrogatorio.»
«Per la tortura, altro che interrogatorio! Cosa vogliono da Madre quegli Isolazionisti, eh?»
«E le ricerche di quello Zeke Boodie, qualunque sia il suo nome e la sua faccia al momento, sono ancora in corso, ma non hanno portato alcun risultato. Sfortunatamente.» Per me, aggiunse tra sé.
«Siete incompetenti, una manica di incompetenti!» Leonardi batté un pugnetto sul tavolo. Il pugno sinistro, notò Hass: il destro era rimasto sempre sotto alla scrivania, nascosto. Premuto sull’addome, di sicuro. Lo aveva già visto più volte premersi la mano sull’addome e ancora più di frequente non lo aveva visto premersi la mano sull’addome, ma l’angolazione del braccio suggerivano che quella fosse l’azione nascosta dalla scrivania. E le smorfie. Smorfie di dolore. Che fosse la volta buona? Ma era un pensiero tanto ottimistico che Hass non osava neppure formularlo.
«A ogni modo, questo è tutto,» concluse il ministro. «Puoi lamentarti e strepitare quanto vuoi, ma è così che sono andate le cose. Il mio era solo un riepilogo, per le proteste puoi presentarti come e quando vuoi dal tuo Direttore. Gli ordini sono arrivati da lui, dopotutto,» aggiunse con un sorriso.
Leonardi non sorrideva, anche se occasionalmente mostrava i denti artificiali. «Gli ordini vengono sempre da me, sarà meglio che te lo ricordi. Gemelos è solo un nome.»
Il ministro Hass non obiettò. Non aveva senso obiettare: era vero. «Allora devo segnalarti che i tuoi ordini non sono stati poi così, come dire, efficaci. E neppure costruttivi, azzarderei.»
«Siete voi che non li sapete eseguire!»
Hass sospirò. Ricordava l’epoca in cui Leonardi era stato così arrogante, forse anche un poco di più, perché in fondo non era ancora esistita un’epoca in cui Leonardi non fosse stato arrogante. Almeno, se ne era esistita una, nessuno più la poteva ricordare, per sopraggiunta estinzione di tutti i possibili testimoni, causa impietoso scorrere del tempo. Ciò che era cambiato, però, era che Leonardi adesso era solo arrogante, quando in passato era stato anche lucido e intelligente. Molto lucido e molto, molto intelligente. Adesso era la caricatura di se stesso. Davvero, il tempo sa essere impietoso.
Il tempo sapeva essere lento, però, e questo era male. Molto male. Negli ultimi anni erano più gli ordini di Leonardi che aveva dovuto correggere e adattare di quelli che aveva potuto applicare così come erano stati dati. E tutto perché Leonardi viveva ancora in un mondo che non esisteva più, un mondo in cui valevano certe regole che, nel mondo attuale, erano tramontate e dimenticate. E tanto meglio così: nessuno ne avrebbe sentito la mancanza. A parte Leonardi, certo. Quindi era ormai il tempo di aggiornare anche Leonardi. O sostituirlo, che era poi la stessa cosa.
«Leonardi, capisco la tua ossessione nei confronti dei mondi coloniali, ma la nostra politica estera non può continuare in questo modo. Abbiamo avuto i trattati e sono stati una tua grande vittoria. Il tuo trionfo. Adesso abbiamo una nuova colonia, da sviluppare e sfruttare. Non abbiamo tempo da sprecare per fare a chi ce l’ha più lungo con Svarga, Rudra o qualsiasi altro pianeta. Lo capisci?»
«Madre è nostra!»
No, non lo capiva. Hass si portò una mano alla fronte, accarezzandosi piano le tempie con pollice e medio. Davvero, Madre era diventata una malattia, per quel vecchio. E forse non l’unica, se la sua mano sotto la scrivania era una prova concreta e non un tentativo di depistarlo. Forse il pilastro si preparava davvero a cedere, crollare e sgretolarsi. Forse però ci avrebbe messo troppo tempo.
«Gli accessi ai pozzi sono protetti dall’esercito. Sono tutti sotto il mio diretto controllo, attraverso il comandante Staplewood. Non c’è problema. Nessuno entrerà, senza che noi lo sappiamo. Nessuno guarderà dentro Madre. Quindi smettila di preoccuparti per niente, d’accordo? Non ce n’è motivo.»
«Possono osservarlo anche da fuori, non capisci? La struttura interna del pianeta! La conformazione del nucleo! O credi forse che siano tutti ciechi come te? Non hanno bisogno di entrare nei pozzi, se lo vogliono. Non ne hanno bisogno!»
Hass pensò per un attimo a quel giovane planetologo e alla sua ricerca. Era sui giganti gassosi, vero, ma... Ma meglio lasciare perdere, per adesso. A quello aveva già pensato. «Non succederà niente. E qualunque cosa possano vedere, ricorda che Madre resta legittimamente un nostro pianeta. Nostra è l’ultima parola e nostra è la prima azione, in ogni caso. Non ci sono problemi.»
Leonardi ovviamente non accettò e continuò a blaterare sulle sue spie e sui pianeti coloniali, che nel suo afflato paranoico volevano impadronirsi dei segreti di Madre. Il che poteva anche essere vero, in via del tutto ipotetica e teorica. Dalla teoria alla pratica, però, c’era parecchia strada. E se anche avessero scoperto quello che c’era da scoprire? Hass non vi vedeva nulla di male. Non avrebbe mai visto nulla di peggio di quello che aveva già visto, soprattutto durante il terzo viaggio su Madre, che gli aveva cambiato parecchio le prospettive. Fosse stato per lui...
Ma non stava per lui. Non ancora, almeno. Così rimase ad ascoltare, sopportare e ignorare tutte le sfuriate del dottor Leonardi, pensando solo al pallore sempre più evidente sul suo viso e le gocce di sudore che non poteva nascondere. Soffriva? Ah, poco ma sicuro che soffriva! Chissà che malattia aveva. Sempre che fosse una malattia e non la semplice usura data dall’età eccessiva.
Se lo chiedeva ancora, ma molto più distratto, al ritorno a casa, dove un tempo lo avrebbe atteso la moglie, quella Paula Khavronina che era stata il navigatore durante la seconda missione (e primo suo viaggio personale) su Madre, la missione con Leonardi, e che ormai non lo poteva essere più, né navigatore né moglie. Perché da morti è piuttosto difficile essere una delle due cose, anche se il navigatore era ancora possibile, tecnocamente. Che cosa avrebbe dato per tornare indietro a quel periodo? Il periodo in cui era ancora giovane, ancora militare, e la carriera politica era un progetto vago per il futuro, per la pensione?
Molto. Tutto, forse. Ma indietro non poteva tornare. Il ministro Andrea Hass, già comandante Hass, già marito e già molte altre cose, poteva solo andare avanti, nella casa in cui ad attenderlo c’era solo la figlia, invece della moglie. Per un dato valore di figlia.