La galassia di Madre - 37
La vita da coloni su Madre aveva assunto un ritmo regolare e a modo suo rassicurante, per Davide (o Bruno, come era noto al pubblico) e i colleghi del gruppo: sveglia alle ore X, lavoro dalle ore Y1 alle ore Y2, pausa pranzo, di nuovo lavoro dalle ore Z1 alle ore Z2, cena, infine riposo, termine che poteva significare tanto “subito a letto”, quanto “chiacchieriamo e beviamoci sopra per un po’”, a seconda di quanto il lavoro li avesse trattati bene o male durante il giorno. Era una routine, una sana routine, una routine regolare, che sollevava dalla necessità di pensare e rendeva tutto più facile.
Era anche piuttosto noiosa, ma non c’era davvero tempo per annoiarsi. Non come sulla Terra.
Dopo la prima ondata di malattie e malanni assortiti, che aveva steso la maggior parte dei gruppi nel primo periodo di lavoro, la salute non era stata più un problema. Non un vero problema, almeno. Di febbri passeggere, intossicazioni alimentari, coliti, raffreddori e affini continuavano a essercene, di tanto in tanto, così come non mancavano i piccoli incidenti, mentre si lavorava alle strade, ma nulla di più serio e tanto meglio così, grazie. Nessuno ne sentiva la mancanza.
Sì, era una vita tranquilla, faticosa ma tranquilla. Primitiva, anche, perché i lussi sarebbero arrivati in un futuro non ancora ben precisato, quando l’energia sarebbe stata abbondante e non un bene da razionare e dosare al massimo. Sarebbero arrivati appunto assieme all’autosufficienza energetica, la famosa e fantomatica autosufficienza energetica, di cui tutti su Madre parlavano fin dall’inizio della colonia, ma ancora non avevano visto. Sarebbe arrivata, davvero. Attiviamo ancora una centrale e ci siamo. O forse due centrali. Ma è quasi fatta, davvero. Sopportate ancora per un poco e poi verrà la bella vita, ah se verrà! Basta con questi lavori da macchine.
Pure, continuavano a lavorare come macchine di basso livello. E aspettare. E stendere nuove strade, attraverso il vuoto che ricopriva Madre appena oltre i confini addomesticati della colonia. In futuro sarebbero servite, ovvio, e comunque intanto vedevano il paese, esploravano e magari sì, potevano anche trovare qualcosa di interessante o utile. Così, sotto col lavoro. E con le strade.
«Io comunque mi sento un po’ stupido,» disse una sera Olaf Selke, mentre riposava e beveva con gli altri del gruppo. Gruppo di cui lui era formalmente responsabile. «Cioè, sì, capisco che serve, o che servirà, prima o poi, però mi sento un po’ stupido lo stesso.»
«Questo è bene,» rispose Sebastian Hahn. «È un primo passo verso la consapevolezza di sé. Se lo avessi chiesto a me, però, te lo avrei detto anche subito, risparmiandoti tutto questo lavoro di analisi spirituale. L’ho sempre saputo, in fondo.»
«Che cosa?»
Sebastian sorrise. «Che sei stupido.»
«Sempre spiritoso come una colite, eh?» disse Tunde Bohr. «Seriamente, come mai ti senti stupido, Olaf? Perché lavoriamo tutto il giorno in mezzo al niente, a costruire strade in mezzo al niente che nessuno userà a parte noi e la città più vicina è a... fammi pensare... un centinaio di chilometri da qui, più o meno?»
«Eh... sì, per questo. O anche per questo, ecco.»
«Allora non pensarci troppo. Non significa essere stupidi, ma essere lavoratori. Stupidi non siamo noi che lo facciamo, ma quelli che hanno deciso che lo dobbiamo fare e ci danno gli ordini.»
«Eh, ma sono io a dare gli ordini. Voglio dire, per questo gruppo.»
«Tu riferisci gli ordini, non li decidi. O almeno non gli ordini ordini, quelli che contano. Tu decidi chi deve fare questo e quello, non perché lo deve fare, no? Voglio dire, tu decidi i dettagli, ma non il piano generale: quello te lo danno i boss sopra di te, capisci?»
«Così parlò la nostra grande intellettuale, Tunde Bohr. Capisco perché ti hanno buttata fuori a calci calla scuola, dopo le superiori,» sorrise Sebastian. «Ed è un vero peccato. Con la tua chiarezza di vedute e la tua sopraffina loquela, saresti diventata una fantastica amministratrice di imprese senza futuro e senza speranze.»
«Non mi hanno cacciata dalla scuola. Sono io che ho deciso di non continuare e venire qui, invece di tentare l’università. È una cosa diversa.»
«Allora hai preso coscienza di te e ti sei autocacciata a calci, capisco.»
«Parla il disoccupato che non aveva voglia di lavorare.»
«Sciocchezze e calunnie. Sulla Terra io avevo un luminoso futuro dietro di me. A frenarmi è stata solo la mia cronica dipendenza da certe sostanze che, ahimè, nelle mie condizioni era diventato più che difficile continuare a procurarmi. E così, per trovare una soluzione radicale al mio problema, se vogliamo metterla in questi termini, ho preso la via dello spazio.»
«E quali sarebbero queste sostanze che non riuscivi più a procurarti?»
«Cibo, fondamentalmente. Si ostinavano a pretendere soldi che io non avevo, per farmi mangiare.»
«Comunque io stavo dicendo che mi sento stupido a fare questo lavoro,» disse Olaf, per riportare la discussione sui binari iniziali. Tentativo che sapeva inutile per esperienza, ma che ancora si ostinava a compiere, di tanto in tanto, almeno quando era stato lui ad avviare la discussione.
«E comunque io ti stavo dicendo che non lo sei. Tu fai solo quello che ti ordinano di fare; se ci sono stupidi, semmai, sono quelli che danno gli ordini. Quelli da cui gli ordini partono, intendo: i primi a dare gli ordini,» specificò Tunde, vedendo che l’amico si preparava a ribattere, di nuovo, che gli ordini li dava lui e quindi, per una qualche proprietà transitiva, era anche stupido.
Davide Kori osservava e ascoltava in silenzio, col bicchiere in mano. Era una discussione a cui non aveva molto da aggiungere, ma era anche una discussione a cui non avrebbe aggiunto alcunché, neppure se avesse avuto qualcosa da aggiungere. Si era già scottato una volta, parlando troppo, e lo scotto era stato sufficiente a togliergli la voglia di essere chiacchierone. Che in quella circostanza la febbre lo avesse fatto delirare era dettaglio secondario: aveva parlato, parlato troppo, e tanto bastava per lui. E per fortuna che il delirio era servito come copertura, quantomeno.
La vita su Madre non si stava dimostrando facile, né piacevole. Soprattutto non piacevole. Non era proprio allergico al lavoro, come Sebastian sembrava essere, ma provava una certa antipatia per un tipo di lavoro: il lavoro noioso, ripetitivo e sfiancante. Lavorare alle nuove strade (inutili) di Madre era tutto questo. O quasi tutto questo.
La sera era ormai calata attorno al modulo in cui sedevano e aveva nascosto l’incantevole, vuoto e noioso paesaggio di Madre. C’era ancora vegetazione, dalla parte delle città e della colonia, ma più si allontanavano nel nulla, più il nulla dominava, mostrando loro quale doveva essere stata la vera faccia del pianeta, all’arrivo delle prime spedizioni di esploratori. Una lettiera per gatti, più o meno. Ma la lettiera per gatti della Terra, la lettiera per gatti che aveva già prodotto una civiltà avanzata, in un passato ormai remoto, e la lettiera per gatti che, almeno secondo Zeke, aveva ancora qualcosa da dire per il futuro della Terra, e non solo.
Peccato che lui non sentisse quello che aveva da dire, qualunque cosa fosse.
Mio padre è stato qui, pensava. Io non l’ho mai visto, ma mio padre è stato qui. Ha camminato su questo pianeta, ha lavorato su questo pianeta ed è stato punto da un insetto su questo pianeta. Un insetto uscito da un pozzo gigante, un pozzo che lui e gli altri militari stavano sorvegliando. Devo trovare questi pozzi. Sono i pozzi la chiave.
Lo pensava lui e lo pensava anche Zeke, anche se non lo aveva detto in questi termini. Non diceva mai niente in termini diretti e chiari, Zeke, ma lui era il capo, quello che ne sapeva davvero, almeno nella interpretazione di Amir (che fine avrà fatto Amir? Starà bene?), e quindi lui aveva ragione per definizione, qualunque cosa dicesse o non dicesse. A ripensarci adesso, trenta anni luce più in là, sembravano tutte scemenze, eppure sulla Terra ci aveva creduto, le aveva prese sul serio.
Ma cosa fare? Ormai era arrivato su Madre da un po’, si era trovato nuovi amici, era entrato in un gruppo, si sentiva parte del gruppo, che era la cosa più importante, collaborava allo sviluppo della nuova colonia terrestre, per un dato valore di collaborazione e di sviluppo, e insomma stava facendo qualcosa, più o meno. Il problema era che il qualcosa non corrispondeva a ciò che avrebbe voluto o forse avrebbe dovuto fare. Il qualcosa non seguiva gli ordini di Zeke.
Ma li doveva proprio seguire, gli ordini di Zeke? Non poteva semplicemente, che so, continuare con la vita del colono, in mezzo agli altri, e magari sì, quando gli fosse capitata l’occasione, andare in cerca dei pozzi, che forse gli potevano insegnare qualcosa di più sul padre, o anche qualcosa e basta su quel misterioso Ettore Cori che lo aveva prodotto assieme alla mamma? Non sarebbe stata forse una grande vita, ma una vita sì, magari soddisfacente. Niente scuola, niente Terra coi suoi limiti, un mondo nuovo, intero, che ok, non era proprio il paradiso descritto nelle pubblicità del Teatro, ma le pubblicità erano fatte per fregarti, lo sapevano tutti, e lui non era stato fregato, non del tutto, no?
Poteva continuare così?
«Oi, Bruno, ti sei addormentato? Metti giù almeno il bicchiere, se proprio devi, così te lo finiamo noi.» E alla voce di Olaf seguì la inconfondibile pacca di Olaf, una badilata di energia che gli fece quasi deporre il bicchiere in termini molto definitivi.
«Stavo pensando, sono un po’ stanco,» rispose Davide, appoggiando per sicurezza il bicchiere.
«Tu sei nato stanco, ragazzo,» disse Sebastian. «Ma non ti preoccupare, ci penserà questo mondo a rimetterti in riga e farti crescere un poco di spina dorsale.»
«Con te non ci sta riuscendo molto bene, direi,» commentò Tunde.
«Sempre gentile, ragazza, ma lo so che mi apprezzi.»
Davide Kori guardò i compagni. Sì, decisamente non era un paradiso, quel mondo, ma in un modo o nell’altro pensava di potercisi adattare. Poteva continuare così. Almeno per un altro po’.
Anche i lavori alla strada, in mezzo al nulla e verso il nulla, continuarono così, almeno per un poco. Poi venne il giorno dell’osso e tutto cambiò. O quasi tutto. O buona parte, se proprio si preferiva un approccio minimalista e riduttivo.
Il giorno dell’osso, come sarebbe stato poi ricordato dal loro gruppo e da molti altri gruppi nella zona, che avrebbero sognato un proprio momento di notorietà e una qualche variazione alla routine monotona della vita da coloni, era un giorno non ben precisato del calendario di Madre. O almeno non ben precisato per Davide, che ancora non aveva memorizzato come funzionasse, anche perché il calendario non era avvertito da nessuno come una necessità, lì nel nulla, dove i giorni erano tutti uguali e sapere come si chiamassero o che numero avesse era prioritario come la carta igienica per gli squali. Era il giorno dell’osso e così sarebbe stato ricordato nella loro piccola comunità. Almeno per un poco. Poi sarebbe stato dimenticato, come succede per ogni cosa.
Quel giorno Davide era stato accoppiato (espressione che a lui non piaceva granché e forse proprio per questo Olaf continuava a usarla, nel descrivere gli abbinamenti) con Luis Morago, il giovane dalla faccia butterata che aveva conosciuto qualche tempo prima, poco dopo essersi ripreso dalla malattia. Per un dato valore di conosciuto. In effetti avevano scambiato giusto qualche parola qui e là, si salutavano quando si incrociavano e una volta avevano anche bevuto assieme: non proprio ciò che lui avrebbe descritto come conoscersi, in circostanze normali, ma la vita sulla colonia non era circostanza normale e le conoscenze funzionavano anche così. Non furono loro due a trovare l’osso, ma furono tra i primi a vederlo, perché a trovarlo fu la coppia che li precedeva.
Avevano speso una mattinata lunga e affascinante, scavando per sistemare i rinforzi in quello che, da un certo punto di vista, poteva anche essere considerato un terreno paludoso, se soltanto ci fosse stata acqua. Di acqua non se ne vedeva, però il suolo era cedevole e sembrava non avere la minima intenzione di collaborare alla strada, così avevano già dovuto sprecare due giorni a puntellare tutto il puntellabile e rafforzare tutto il rafforzabile.
«Per una strada che non userà nessuno,» aveva commentato Sebastian la prima sera, tra un lamento e l’altro sullo stato della sua povera, povera schiena. «Tempo che qualcuno passi davvero di qui, e dico qualcuno diverso da noi, i nostri splendidi rinforzi avranno già ceduto e ci sarà da rifare tutto quanto. Bella merda, davvero.»
Opinione condivisa da quasi tutti, ma gli ordini erano ordini e loro eseguivano. «Serve a niente, eh, che vuoi,» diceva Luis Morago quella mattina. «Loro dicono, noi facciamo. Schiena nostra, però, eh; mica loro. Palle!» Davide aveva annuito, non del tutto certo di cosa significasse. Ancora non si era abituato a quel modo frammentario di parlare e, forse, non se ne sarebbe abituato mai. Pazienza, non aveva in programma di lavorare con quel tizio per il resto della vita.
«Se hanno deciso di costruire una strada qui, un motivo ci dovrà pure essere, no? O almeno spero: non capisco a cosa serva costruire una strada, se è solo per fare qualcosa. Cioè.»
«Serve niente. Cosa fare? Boh, non sanno. Noi qui, qualcosa, no? Scava! Strada! Tutto numero, eh! Niente. Domani ponti, vedrai. E fiumi? Niente, non serve. Fai ponti.»
Davide sorrideva e annuiva. Perché Olaf lo aveva sistemato con quel tizio, che doveva avere sì e no due neuroni funzionanti in tutto il sistema nervoso? Cosa gli aveva fatto di male? Eppure era da un po’ che non si lamentava neppure del suo russare, nonostante Olaf scatenasse guerre termonucleari ogni volta che dormiva. Doveva essere un’altra di quelle scemenze che aveva fatto così, tanto per fare, come quando lo aveva mandato a spalare dietro i mezzi. Era dura la vita del colono!
Davide stava valutando se valesse la pena suggerire al compagno di prendersi una pausa, magari sedersi un poco, distendere la schiena, sgranchirsi le braccia, fare qualcosa di meno mortalmente noioso e sfinente, quando la pausa arrivò da sola. Arrivò assieme al grido della coppia che li stava precedendo, nonché sommergendo di polvere e terriccio, quando il vento girava. Un grido non certo di paura, ma di allarme. Un richiamo.
Il richiamo di Bianco Veigel, un ventiduenne coi capelli già in via di estinzione, che quel giorno era in coppia con Sebastian Hahn e assieme formavano un funambolico duo di elusori lavorativi, se non li sorvegliavi da vicino. Olaf non li stava sorvegliando da vicino, al momento, ma lo stato di cose era destinato a cambiare in un attimo. Un attimo dopo il richiamo, con cui Bianco indicava la buca a cui stava pseudolavorando. Perché c’era qualcosa lì, ehi, qui sotto, venite, guardate.
Davide fu il primo ad arrivare, assieme a Luis Morago. Sebastian era a due passi, appoggiato alla pala, con una faccia parecchio diversa dal suo solito. Tanto per cominciare, era seria. «Mi sa che qui abbiamo beccato qualcosa di strano, noi,» e accennò alla buca col capo. Davide guardò.
Qualcosa di strano, sì, anche se sulle prime non capiva cosa fosse. Ma era grigiastro, più o meno, e non sembrava una roccia. Non sembrava neanche una di quelle cose che trovavano e buttavano via durante i vari scavi. Non sembrava neppure, e qui subentrò un poco di delusione, nel mezzo della generale curiosità e incomprensione, una rovina aliena. Sembrava semmai...
«È un osso?» chiese, spostandosi un poco per lasciare spazio a Luis.
«Qualcosa del genere, a occhio,» disse Sebastian. «Un fossile di un qualche tipo, se siamo fortunati. O sfortunati, a seconda dei punti di vista. Comunque, direi che è soprattutto una valida scusa per chiudere qui coi lavori, per oggi. Che te ne pare, eh?»
A Davide pareva una buona idea. Di polvere ne aveva mangiata a sufficienza e avrebbe volentieri cambiato menu. Così rimasero attorno alla buca a guardare, mentre altri lavoratori arrivavano e si facevano spazio con o senza buone maniere, per vedere cosa ci fosse di tanto interessante.
C’era che Olaf sospese precauzionalmente i lavori, per non rischiare problemi o responsabilità, poi contattò i superiori, i superiori contattarono i superiori, ci fu il classico valzer di contatti e domande, e altri contatti e altre domande, mentre il gruppo di coloni che stava lavorando alla strada adesso sedeva e chiacchierava, più che felice dell’imprevisto. Si avvicinò anche qualcuno degli altri, che avevano ricevuto incarichi diversi e adesso rimpiangevano di non essere stati scelti per la strada.
«Volete fare cambio?» chiese Sebastiana due ragazze che si lamentavano più degli altri. «Se vi va di spaccarvi un poco la schiena con le pale, io vi cedo il posto più che volentieri. »
Non accettarono, né accettarono gli altri, che di tanto in tanto si affacciavano alla zona dei lavori in sosta forzata. Alla fine arrivò anche Olaf, tra una chiamata e l’altra, mani in tasca e faccia annoiata.
«Ci mancava solo questa. Non poteva proprio andarmi peggio, oggi...»
«Posso suggerirti almeno una decina di modi in cui poteva andarti peggio, se vuoi, e senza neanche bisogno di pensarci,» disse Sebastian. «Nessuno si è fatto male, niente si è rotto e l’unico problema, se di problema vuoi davvero parlare, è un piccolo ritardo nei lavori. Lavori che, peraltro, come hai detto anche tu più di una volta, sono stupidi e non servono a nulla. E dunque...»
«Sì, è vero, ma adesso c’è tutta questa storia, per un osso...»
«Vuoi buttarlo via e fare finta di niente?»
«Quasi quasi... Ma ho mandato una immagine ai tizi, in ufficio, e quelli l’hanno mandata ad altri tizi in un altro ufficio, non so, e alla fine qualcuno ha detto che è un fossile ed è importante, e noi non lo dobbiamo toccare e dobbiamo sospendere i lavori e tutta quella roba, sai.»
«Sicuri che sia proprio un fossile? Perché potrebbe essere anche essere, che so, un pezzo di una mucca morta, tanto per dire. Gli ossi sono tutti uguali.»
«Non lo dico mica io, lo dicono quelli più in alto. Pare che un tizio sia già in viaggio per verificare, uno da Oklahoma City, di un qualche ministero o roba simile. Quelli che studiano gli animali, hai presente? I cosi, come si chiamano...»
«Exologi?» chiese Davide.
«Boh, sì, qualcosa del genere, Bruno. Quelli che studiano gli animali vivi o quelli che studiano gli animali morti, non so. Ero un meccanico, io, mica un professore.»
«E starebbe arrivando qui per un pezzo di osso vecchio, trovato sottoterra. Deve avere proprio una vita affascinante, quell’uomo,» commentò Bianco Veigel, seduto poco lontano.
Olaf si strinse nelle spalle. «Se è il suo lavoro...»
Davide si alzò a dare una nuova occhiata all’osso, nel caso fosse cambiato o avesse deciso di fare qualcosa di interessante. No, decisamente no: noioso come prima. Tornò a sedersi, bevve ancora un poco e si guardò attorno, svogliato. C’era la strada che stavano tracciando e costruendo, c’erano i moduli in cui dormivano e spendevano il poco tempo libero, c’erano i campi dove la maggior parte delle ragazze lavorava, su entrambi i lato della strada. Verdi, verdastri. A Davide non era chiaro che cosa coltivassero, ma era una qualche specie di vegetale modificato, che cresceva in fretta e forniva più nutrimento. O qualcosa del genere. Compariva anche come ingrediente principale nei loro pasti, sotto forma di una poltiglia che pareva un frullato di cartone e vomito di gatto. Bella roba.
Aveva un certo senso, come organizzazione. Invece di portarsi dietro montagne di cibo, il gruppo se lo coltivava strada facendo. Letteralmente, haha! Alcune squadre lavoravano alla strada, altre invece lavoravano nei campi, portando avanti civiltà e terraformazione assieme. O così aveva detto Tomas Sironi, quando ancora erano a Oklahoma City e stavano ricevendo un primo addestramento. Davide non ci aveva capito molto, ma non gli era sembrata una cosa importante e adesso ne aveva avuta la conferma. Non era una cosa importante.
Diventava ancora meno importante, quando dovevi restare seduto per ore, perché ti era spuntato tra i piedi un pezzo di vecchio osso ammuffito. Valeva davvero così tanto quell’affare sepolto?
Sì, valeva poi così tanto, almeno secondo il tizio che era arrivato da Oklahoma City. Che poi non era un tizio, ma una tizia, e almeno col suo viaggio aveva dato una parvenza di senso alla strada che stavano tracciando. Arrivò, guardò il presunto fossile, parlò con Olaf, guardò di nuovo il presunto fossile, contattò qualcuno, guardò ancora un poco l’osso e alla fine si ritirò in un modulo, assieme a due tizi che erano arrivati con lei. Gli uomini del gruppo la guardarono andare e tornare, un poco curiosi all’inizio, parecchio disinteressati alla fine.
La nuova arrivata si chiamava Ada Bapchuck, nome che aveva regalato qualche momento di ilarità a Bianco Veigel e altri colleghi, ma che poi era stato dimenticato, passato l’entusiasmo iniziale. Olaf diceva che era una collaboratrice di Thoreau, che era una specie di pezzo grosso nel governo della colonia, ma nessuno ne sapeva molto. La situazione amministrativa di Madre non occupava proprio uno dei primi posti tra gli interessi dei coloni, o almeno non tra i coloni di quel gruppo.
«E quindi cosa è venuta a fare, insomma?» chiese poi Sebastian. «A parte chiacchierare e guardare il pezzo di osso ammuffito, voglio dire. Ti avrà pur detto qualcosa, no, Olaf?»
«Un sopralluogo, ha detto. Perché dalle immagini non si capiva molto bene, ma adesso che lei lo ha visto di persona pensa che sia un fossile davvero. È una cosa molto importante, sai. Ha detto che è il primo fossile che trovano e probabilmente chiuderanno l’area di lavoro, per un po’.»
«Il primo che trovano? Ma non hanno anche quella roba degli alieni?»
«Ah, non so. Ti pare che io ne so qualcosa, scusa?»
No, a nessuno pareva che Olaf ne sapesse qualcosa, ma in fondo non era quella la cosa importante. Ciò che tutti volevano sapere, adesso, era altro. «E quindi noi cosa facciamo, scusa? Stiamo qui a girarci i pollici, mentre quelli pensano?» chiese Rick Huebner, un ragazzo di neanche venti anni, che per ragioni ignote a Davide continuava a sfoggiare una fantastica cresta colorata di verde, che lo faceva sembrare un antico punk o un cretino, a seconda dei punti di vista. Aveva però espresso la domanda che tutti si stavano ponendo, per cui non doveva poi essere stupido completo, nonostante un discutibile gusto estetico.
Olaf alzò le spalle. «Boh. Secondo me ce lo diranno domani, o dopo. Per adesso però non dobbiamo toccare la buca o continuare a scavare nei dintorni. Dicono che potremmo rompere qualcosa, magari un qualche nuovo osso, e sarebbe un disastro. Valgono molto, quegli affari lì.»
E la domanda rimase senza risposta per tutto il resto della giornata. All’ora di cena arrivarono anche le squadre che avevano lavorato nei campi, che ovviamente volevano sapere il perché e il percome di quello che era successo, così una lunga serie di chiacchierate più o meno coerenti e realistiche si protrasse fino all’orario in cui di solito andavano a dormire, e anche un poco oltre.
«Quindi anche domani voi non lavorerete?» chiese Tunde, dopo che i compagni ebbero presentato una versione personalizzata della storia, abbellita dove necessario. «Non mi pare molto giusto.»
«Avete insistito per i lavori agricoli, perché erano meno pesanti? E adesso vi attaccate, mie care,» le rispose Sebastian, con tutta la sua ben nota cortesia e raffinatezza.
«Ma se i lavori alla strada non possono continuare, allora ci trasferiranno da qualche altra parte, no? Quindi è anche inutile continuare coi campi: qui non ci lavorerà nessuno per un bel pezzo.»
«Beh, non ci lavoreremo noi, ma se vogliono cercare le ossa, ci lavoreranno altri tizi, no? Quelli che scavano i fossili, come si chiamano...» Olaf gesticolò in cerca di suggerimenti.
«Paleontologi?» propose Davide.
«Va bene anche per gli alieni o è solo sulla Terra?»
«Credo che vada bene ovunque.»
«Ok, paleontologi. Allora dicevo, ci lavoreranno questi paleontologi, se vogliono cercare i fossili, e loro dovranno pure mangiare, no? Così i campi serviranno lo stesso.»
«E quindi voi dovrete continuare a lavorare, mentre noi giriamo i pollici,» sorrise Sebastian.
«Non mi sembra giusto.»
«La vita non è giusta, mia cara. La vita è vita.»
«Che profondo filosofo. Comunque domani dovrebbero saperci dire di più, giusto Olaf?»
Olaf si strinse nelle considerevoli spalle, un gesto che gli era ormai abituale. «Sì, credo. La tizia che è arrivata, quella Bapchuck o quello che è, ha detto che dovrebbero arrivare altri dalla città, credo i suoi colleghi, o qualche suo aiutante. I tizi che tireranno fuori il pezzo di osso, probabilmente. Comunque noi non posiamo più lavorare alla strada, perché potremmo rovinare qualcosa, per cui ci dovranno per forza mandare da qualche altra parte.»
«Anche noi, o solo voi che lavorate alla strada?»
«Mah, siamo un gruppo, ci manderanno via assieme, no? Cioè, potrebbero anche spezzettarci, però non è che, voglio dire, non mi sembra molto sensato. Ecco. Siamo insieme, no?»
La discussione si protrasse fino a un’ora tarda, senza raggiungere alcuna soluzione, o anche solo un punto concreto. Forse li avrebbero separati, forse no, forse li avrebbero trasferiti tutti, forse no: sola certezza era che i lavori alla strada, a quella strada in particolare, erano stati interrotti fino a data da destinarsi, e tutto per quell’osso che Sebastian e Bianco avevano trovato nella buca che scavavano.
Il mattino seguente il gruppo di coloni era ancora in pieno caos e nella ignoranza più totale. Nessun lavoro era in corso, nessun lavoro sembrava dover cominciare e tutti vagavano nei dintorni, molto più simili ad anime in pena che al vivace, e a tratti volgare, gruppo di giovani coloni che erano stati fino al giorno prima. Erano sospesi in un limbo e, come tutte le anime sospese in un limbo, almeno nelle fantasie di chi aveva immaginato un limbo e le anime con cui popolarlo, non avevano né premi né punizioni, ne obiettivi né scopi, ma solo tempo da occupare, in un qualche modo.
Olaf Selke contattò più volte la sede di Oklahoma City, mentre la dottoressa Ada Bapchuck, che era dottoressa ma non medico, come aveva voluto precisare in quella che, forse, doveva essere intesa come una battuta spiritosa, si era fatta vedere due volte: la prima per assistere mentre i suoi aiutanti recintavano la zona dove il fossile era stato rinvenuto, con la collaborazione manuale di tre coloni, e la seconda per accogliere un altro veicolo arrivato dalla città, da cui era sceso solo un tizio piuttosto vecchio e miope, col fisico di chi non ha mai sentito parlare di attività fisica e una faccia da castoro affogato, sospesa sotto una manciata di capelli superstiti. Erano poi spariti assieme nel modulo che quella dottoressa Bapchuck aveva requisito il giorno prima e non si erano più visti.
«Thoreau, quello. Il capo. Fa niente, eh. Chiacchiera. Seduto, sempre. Poi si lamenta,» era stata la scombinata e sconclusionata spiegazione di Luis Morago, quando Davide si era chiesto, e aveva chiesto, chi fosse il nuovo arrivato.
«Thoreau? E chi sarebbe, scusa?»
«Oh, governo, eh, piante, campi. Roba quella. Animali, anche, ma meno.»
Il che era probabilmente chiarissimo, nel magico mondo che Luis aveva dentro il proprio cranio, ma per Davide era un rebus, avvolto in un enigma, impanato in un mistero e cotto a fuoco lento con un filo d’olio, o qualunque cosa fosse. Cercò comunque di ricordare il nome e più tardi, poco dopo la pausa pranzo, che in quel particolare giorno era stata solo un pranzo e non una pausa, non essendo mai cominciato nulla che potesse essere messo in pausa, chiese a Tunde e Sebastian se avessero già sentito quel nome, Thoreau. Olaf non c’era, in giro a contattare, ascoltare e cercare di scoprire cosa fare con la propria vita nell’immediato futuro.
«Thoreau?» disse Tunde. «Non lo avevamo già sentito ieri, quel nome? Mi pare che lo avesse usato qualcuno, no? O almeno ne aveva parlato qualcuno.»
«Ne aveva parlato Olaf,» disse Sebastian. «Mi sorprende che tu non lo ricordi, ma in fondo si vede che passare troppo tempo in mezzo ai vegetali tende a farti assomigliare a uno di essi.»
«Grazie per la simpatia e la gentilezza.»
«Dovere. Comunque è una specie di ministro dell’ambiente, o almeno lo sarebbe se Madre avesse un governo indipendente dalla Terra, cosa che naturalmente non ha. Diciamo che fa la funzione di ministro dell’ambiente, da queste parti.»
«E un ministro dell’ambiente viene a esaminare un cantiere dove hanno trovato un fossile?» chiese Davide. «Non mi intendo molto di politica, ma mi suona un po’ strano, eh.»
Sebastian sventolò una mano. «Ho detto che è una specie di ministro dell’ambiente. Di fatto, per quel che ne so io, è più il responsabile delle politiche agricole e tutta quella roba che ci fa mangiare, insomma. Pare che una volta fosse un exologo, uno di quelli che studiano le forme di vita aliene.»
«E quindi fa anche il paleontologo?»
«Ma che ne so!»
«Dici tanto a me, ma pure tu non è che ne sai molto, eh?» disse Tunde, ghignando.
«Sempre più di te, mia cara. E comunque non conosco i dettagli, ma il quadro generale sì.»
«E il quadro generale sarebbe?»
«Sarebbe che questo fossile, o quello che è, ha una qualche importanza per lo studio delle forme di vita di questo pianeta. Non chiedermi quale, perché non sono io l’exologo, ma visto che di exologi qui ne spuntano in continuazione, è evidente che la chiave sia quella. Probabilmente di fossili non ne avevano mai trovati, anche se mi pare strano. Magari non ne avevano ancora cercati, con tutta la roba che già c’è sul pianeta. Resti di civiltà aliene, colonie da fondare e sviluppare... Non è che ti resti poi tutto questo tempo per andare a caccia di fossili.»
«Quindi magari diventeremo famosi per averlo trovato. Bello!» disse Davide.
«Frena l’entusiasmo, Bruno. Tu famoso non lo diventi di sicuro, perché non hai fatto un bel niente. Nel migliore dei casi, lo diventeremo io e Bianco Nato Stanco, che stavamo scavando, ma è molto più probabile che non ci sentirà mai nessuno, vedrai. Tutto il merito sarà di quella Bapchuck o come si chiama e a noi tanti saluti e grazie per la collaborazione, la storia non ha bisogno di voi, ritenta sarai più sfortunato, saluti e baci paga la multa e taci, eccetera eccetera.»
«Come sei cinico,» disse Tunde.
«Non sono cinico, sono realista. In ogni impresa, a essere ricordato è sempre il capo, non i poveri stronzi che si sono rotti il culo per renderla possibile, mentre il capo dormiva e scoreggiava nel suo bianco lettino. È una legge di natura, o una legge di cultura, mettila pure come ti piace di più. Ma è la verità e funziona così.»
«Trovare un osso per terra non mi sembra poi questa grande impresa,» disse Davide.
«Amen. Ma pensiamo a mangiare, che è meglio.»
Nel pomeriggio ancora non si sapeva nulla di cosa sarebbe successo il giorno dopo, ma la nuova strada in corso di costruzione (e chissà per quanto tempo lo sarebbe rimasta, adesso), stabilì almeno il suo record di utilizzo, quando un altro veicolo arrivò dalla città, molto più grande dei precedenti. Fu più o meno a quel punto che Olaf raggiunse il gruppo, rosso in faccia e abbastanza confuso, e comunicò che sarebbero dovuti tornare a Oklahoma City e attendere nuove istruzioni.
«Tutti quanti?» chiese Rick Huebner.
«Sì, tutto il gruppo, sia chi lavorava alla strada sia chi lavorava nei campi. Dobbiamo lasciare la zona, perché adesso se ne occuperanno altri, e torneremo in città per... boh, non lo so bene, ecco, ma credo che ci manderanno da qualche altra parte. Forse dovremo rifare qualche addestramento, se ci faranno fare un lavoro diverso. Comunque domani torniamo in città e poi vedremo.»
I coloni si guardavano in silenzio. Non sembrava propri un modello di organizzazione, o almeno la sua logica era mimetizzata molto bene, se una logica c’era. Oh beh, pazienza. Avrebbero rivisto un po’ di case vere e anche nuove facce, per qualche tempo. Quanto al dopo, ci avrebbero pensato dopo: il pianeta era grande e c’era da fare per tutti, no? O così lo avevano pubblicizzato.
«Solita storia, eh. Qui, là, nuovi arrivano, tu vai. Sempre. Fare? Boh. Capita capita,» filosofeggiò Luis Morago, scuotendo la testa. Davide si chiese di nuovo da dove fosse spuntato quel tizio e come avessero fatto a selezionarlo. Era proprio vero che il Teatro prendeva tutti...
Il mattino seguente i veicoli li passarono a ritirare, come annunciato da Olaf. La zona dove era stato trovato il fossile aveva adesso sviluppato un pregevole recinto, allargato di parecchio rispetto alla costruzione iniziale, e persone con una buffa aria da ingegneri (o almeno da ingegneri così come si mostrano nell’immaginario comune) si affollavano attorno, alcuni con una specie di strana pala in mano, altri con strumenti che assomigliavano ai lontani cugini delle scope. I coloni li fissarono con una certa curiosità, sfilando verso i veicoli col proprio scarno bagaglio, poi se ne dimenticarono.
Li guardò più a lungo Davide Kori, prima di lasciare scorrere gli occhi sul paesaggio in cui aveva speso gli ultimi giorni, non proprio fantastici, non sempre positivi, ma per certi versi interessanti. E attivi, anche se di un tipo di attività che ti lasciava vesciche e troppa stanchezza, alla sera. Nostalgia non c’era, no, neppure un poco, ma sotto sotto, forse, a cercarla bene, un pizzico di malinconia sì, ma vaga, confusa, niente di cui scrivere a casa. Per chi a casa aveva ancora qualcuno a cui scrivere.
La strada cominciava appena usciti dalla città, da Oklahoma City, e continuava in mezzo al nulla, o in mezzo a campi coltivati con strani vegetali dal sapore piuttosto acidulo. Il loro incarico era quello di prendere la strada e allungarla all’indefinito, avanti avanti e ancora avanti, verso quelle montagne che si potevano vedere laggiù, sullo sfondo. Che poi non erano così alte, in effetti, almeno secondo Olaf, ma erano una meta, un bersaglio a cui puntare. Non lo avevano raggiunto. Non lo avrebbero mai raggiunto. Perché avevano trovato un osso, un stupido osso, e adesso eccoli che tornavano al via, per ripartire da capo. Verso dove? Davide non lo sapeva.
Sentiva però di avere sfiorato qualcosa, un brandello dei segreti di quel pianeta. Sentiva anche che quei segreti glieli avevano appena sfilati da sotto il naso e forse non li avrebbe ritrovati mai più. Ma ormai era andata così. Mentre la carovana ripartiva, diretta verso Oklahoma City, Davide si lasciò rosolare ancora per qualche minuto nella malinconia, poi la abbandonò. Ormai era andata come era andata, lì: la prossima meta lo aspettava. Meglio guardare avanti. Più utile.
Più sicuro, anche. Meno di dieci giorni dopo la scoperta del fossile, nessuno spettatore neutrale o non autorizzato sarebbe più potuto entrare in quella zona del pianeta, dove la strada finiva e dove non sarebbe ripartita più. Erano arrivato i militari.