Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 43

Davide Kori ne era ormai sicuro: il pianeta Madre ce l’aveva con lui. O meglio, lo aveva preso di mira. Diventava tutto molto chiaro, se si fermava per un attimo a rifletterci. Madre doveva averlo fiutato come corpo estraneo, subito dopo il suo arrivo, e come corpo estraneo lo aveva trattato, da quel momento in poi, cercando di espellerlo con le buone o con le cattive. Soprattutto con le cattive. Anche se forse non erano né buone né cattive, ma solo neutrali. Su un piano morale, almeno.

Era un ragionamento che non aveva senso, da un certo punto di vista, e anche Davide lo sapeva. Per quanto a volte possa dare questa impressione, un pianeta non è un essere senziente, dunque non può neppure compiere tutte le azioni deliberate e premeditate che lui gli stava attribuendo, eppure lo sembrava. Sembrava senziente e sembrava avercela con lui. Ok, forse era solo un tratto paranoico endemico nella sua famiglia, ereditato magari dalla madre (improbabile) o dal padre latitante (molto più plausibile), ma Davide si sentiva preso di mira da Madre e si era sentito così fin dall’arrivo, appena uscito dall’ascensore. O questo, oppure doveva accettare di essere perseguitato da una sfiga col puntatore laser, il che non era molto più incoraggiante.

In quale altro modo avrebbe dovuto spiegare la misteriosa malattia (misteriosa per lui, almeno) che lo aveva colpito all’improvviso e lo aveva tenuto a letto per una settimana, poco dopo essere arrivati al cantiere stradale? Vero, molti altri avevano avuto problemi di salute, in quel periodo, e i veterani di Madre sostenevano che fosse normale, naturale, una specie di reazione dell’organismo al nuovo ambiente, ma lo era davvero? Perché non era finita lì. Giusto il tempo di tornare a Oklahoma City, dopo la scoperta del fossile e relativa chiusura del cantiere, ed eccolo che si era ammalato di nuovo. Influenza intestinale, breve durata, niente di serio, ma si era ammalato di nuovo. Poi c’era stato anche per lui l’insetto. O almeno un insetto. Forse.

Erano in città ormai da dieci giorni, il disturbo intestinale era passato, Davide era rientrato da bravo nei ranghi, lavorando temporaneamente in un magazzino, e tutto sembrava procedere bene. Poi alla fine del suo turno era uscito, si era avviato verso l’alloggio, lungo una specie di viale costeggiato di cespugli (o cose simili a cespugli molto malridotti), e qualcosa lo aveva punto. Dolorosamente. Alla base del collo. Qualcosa che lui non aveva visto, ma aveva sentito fin troppo bene, grazie tante.

Accanto a lui, in quel momento, si trovava Luis Morago, a cui era stato assegnato lo stesso lavoro e che adesso stava tornando assieme a lui agli alloggi, borbottando in quella sua maniera così difficile da interpretare. Davide gli aveva chiesto di guardare cosa lo avesse punto, ma Luis non aveva visto niente. Allora Davide aveva cambiato approccio, ricordando anche con chi stava parlando, cioè uno che avvicinava l’intelligenza soltanto dal lato opposto, e aveva chiesto di descrivergli la pelle dove era stato punto. Aveva in testa la scena che gli aveva raccontato Zeke, in un tempo che pareva ormai passato da eoni, ma secondo Luis non c’erano due fori: ce n’era uno solo, nero, ma con altri puntini più piccoli intorno. Dunque non era stato lo stesso tipo di insetto. Pazienza.

La zona della puntura si era gonfiata, secondo il medico aveva fatto infezione (ma poco, eh, giusto una spruzzatina, niente di cui preoccuparsi, stai tranquillo) e così Davide si era ritrovato in ospedale per una seconda serie di vaccinazioni. La prima doveva essere stata difettosa, oppure aveva causato una reazione imprevista nel suo organismo: fosse come fosse, aveva dovuto ripetere le iniezioni già fatte e già non gradite durante l’attesa nella stazione orbitale. Fantastico, proprio.

«Non eri tu quello che voleva gli insetti? Adesso li hai avuti. Contento?» gli aveva detto Sebastian Hahn, con una faccia che non solo tirava gli schiaffi, ma anche pugni e testate.

«Non volevo gli insetti nello specifico,» aveva risposto Davide. «Volevo solo vedere qualche forma di vita locale. E non l’ho vista, grazie tanto. Sentita sì, vista no.»

«Beh, magari la prossima volta ti pungeranno davanti, così li potrai anche vedere.»

«Magari pungeranno di nuovo te. Sulla lingua.»

«Grazie per il pensiero, ma ti cedo l’onore. Sono allergico a queste cose, se non te lo ricordi.»

Davide non era allergico e non c’era stato shock anafilattico, per lui, ma questo non migliorava le cose. Dopo le vaccinazioni supplementari, però, la situazione sembrava migliorata, almeno in parte, o forse si era solo stabilizzata: continuava ad avere una salute mediamente schifosa, tra raffreddori, saltuari problemi di digestione e fatica che faticava (haha, spiritoso) a passare, quando il lavoro era stato più intenso del solito, ma nel complesso si poteva definire sano, a grandi linee. Se non si era troppo fiscali sul valore dell’aggettivo “sano”.

Una qualche consolazione c’era, dopotutto. A volte, di sera, Davide e qualcun altro del gruppo si avventuravano in una passeggiata per le vie di Oklahoma City, non proprio la più allegra città del mondo, ma la più allegra città di quel mondo, per mancanza di concorrenti sufficientemente grandi da poter essere definiti città. Non erano lunghe passeggiate, perché il lavoro li stancava parecchio e comunque non è che ci fosse poi granché da passeggiare, in un posto ancora così arretrato per i loro standard, ma c’era aria, c’era spazio, c’era una tranquillità più o meno moderata ed era pur sempre un modo per staccare e pensare ad altro.

Era anche un modo per vedere nuove facce e ascoltare storie interessanti, vere o false che fossero. E ne potevi ascoltare quante ne volevi, in un qualsiasi locale: c’erano sempre coloni pronti a gonfiarsi e vantare esperienze incredibili, di fronte a gente arrivata da poco, novellini che puzzavano ancora di Terra. Davide apprezzava molto quelle occasioni. Non perché le storie di quegli autoproclamati veterani fossero originali o interessanti, o anche solo vere o verosimili, ma perché gli permettevano di conoscere meglio il pianeta, il modo in cui il pianeta plasmava le persone che lo vivevano. E gli confermavano che sì, il suo caso era insolito, ma ben lontano dall’essere unico. Di coloni che non si erano adattati granché al cambio di mondo ne esistevano parecchi, tutti con una storia particolare di come il loro organismo avesse reagito male all’ambiente alieno.

A colpirlo più di tutte fu la storia di un certo Miroslav Bissonette, un vecchio colono (vecchio per il posto, non vecchio in termini generali) sui quarant’anni, che sosteneva di vivere lì ormai da quasi venti e di averne viste di tutti i colori. Il che probabilmente era vero, anche se su Madre i colori più usati parevano essere solo tre: marrone, verdastro e giallognolo. Ma Miroslav, che i compagni di bevute chiamavano Mimmo, risultava piuttosto credibile, quando parlava di cose strane che aveva visto. Perché i suoi occhi erano strano. Anomali.

Il destro era di un banale nocciola, come ne trovavi a tonnellate in ogni angolo di quello e altri pianeti. Il sinistro, invece, era quasi la stessa tonalità di nocciola, ma non proprio. Sembravano uguali. I tuoi occhi volevano dire che i loro cugini su quella faccia erano uguali, ma... non lo erano. Non del tutto. Il sinistro era lievemente più chiaro del destro, o il destro era lievemente più scuro del sinistro, a seconda delle prospettive. Questione di un nulla, forse di una frazione di qualunque unità di misura si utilizzasse per la intensità del colore, eppure non erano uguali.

«Perché questo non è l’originale, ma una copia,» gli aveva spiegato Miroslav indicandosi il sinistro, quando Davide aveva accennato alla differenza. «Quello vero mi è partito in un incidente, cose che capitano, sai com’è, e così in ospedale me ne hanno ricostruito una copia. Funziona bene, per carità, ma come vedi non è venuta proprio uguale. Non che mi lamenti, per carità: tanto non sono mica io a vederlo. Io con l’occhio ci vedo e ci vedo bene, e poi che cazzo, chissenefrega, no?»

Ragionamento impeccabile. Ma l’incidente che gli aveva portato via l’occhio sinistro, lasciandogli in cambio quel nuovo occhio leggermente più chiaro, come il gioco di prestigio di una bizzarra fata dei dentini, non era il solo incidente che Miroslav avesse da raccontare. Molti erano banali e poco interessanti, ma uno sì, uno lo era. Interessante a sufficienza da valere tutto quel tempo perso ad ascoltare fanfaronate, storie sconce e millantate, implausibili cose successe “a un amico” e quanto altro il passato del colono, o la sua fantasia aiutata dall’alcool, potesse produrre. E l’incidente più interessante era quello dell’insetto, un tema che a Davide stava molto a cuore. Quando Miroslav la raccontò, il resto del locale divenne sfondo.

«Guarda, guarda qui,» cominciò Miroslav, tirandosi il colletto della camicia. «Scommetto che non l’hai mica ancora vista una roba del genere, eh?»

Dopo un primo momento di perplessità, mista a una vaga preoccupazione (cosa voleva fargli vedere che lui non aveva ancora visto e che, apparentemente, si trovava sotto i vestiti di quel vecchio?), e dopo aver trattenuto il fiato per non dover inalare una quantità massiccia dell’odore “vissuto” che il colono si portava attorno, Davide si sporse in avanti e guardò. Guardò il tratto di collo non del tutto sporco che Miroslav aveva scoperto e che sembrava segnato da una macchia o un graffio, forse una cicatrice. Due puntini? O due punture? Ma erano vecchie, sbiadite e mascherate sotto uno strato di pelle morta e mai rimossa, almeno negli ultimi mesi, e un vigoroso ciuffo di peluria nera.

«Cosa dovrebbe essere?» chiese dopo un poco, ma soprattutto dopo aver ritratto la testa e inalato un profondo respiro di aria meno vissuta. «Ci sono dei segni, ma...»

«È l’insettaccio maledetto che mi ha morso, quando ero appena arrivato. Tu stai male di continuo, eh? Beh, succede a tutti, chi più chi meno, ma ti assicuro che non stai male come lo sono stato io, dopo che quel coso mi ha morso. Mrso, eh, non punto. E proprio qui, sul collo. Hai visto?»

Un insetto. Un insettaccio. Che lo aveva morso sul collo e lo aveva fatto stare male. Niente di così anomalo. Sebastian era stato parecchio male dopo una puntura sul collo, e lui stesso non aveva proprio ballato di gioia, quando era stato il suo turno. Ma quella puntura...

«Potrei guardare di nuovo? Mi sembra che...»

«Guarda, guarda, tanto non si consuma mica.»

Davide guardò di nuovo e sì, gli sembrava che. E probabilmente era anche che. Ripensò alla storia di Zeke, ai dettagli della storia di Zeke. L’insetto che aveva punto o morso suo padre. Come aveva detto che era fatta quella puntura, o quel morso, o quello che era? Poteva essere formata da due fori piuttosto grandi, almeno per gli standard delle punture di insetto? Due fori alla base della nuca? Sì, era quasi certo che fosse proprio così. Cioè come la cicatrice che aveva Miroslav.

«Mi potrebbe raccontare come se l’è fatta?» gli chiese poi.

«Me la sono fatta che un insetto di merda mi ha morso, no? Te l’ho appena detto, ragazzo. Ma vuoi tutta la storia completa, eh? Tutti i dettagli ti interessano, e questo e quello, e così e cosà, e qui e là. Eh, ne abbiamo da raccontare noi vecchi, sai. Su un pianeta come questo, poi... Ma vedrai che pure tu ti farai la tua bella scorta, veh, che quella non manca mai. Abbiamo tutti la nostra scorta di storie, ma nessuna interessante come le mie, di sicuro.»

Davide annuiva convinto e incoraggiante. Avrebbe annuito convinto e incoraggiante anche se quel vecchio puzzone gli avesse raccontato di come il sole fosse una palla di muco luminosa, nascosta al centro della terra, e che ogni mattina un gigantesco naso a tre narici lo sparava in cielo col più forte dei soffi, per poi inghiottirlo di nuovo al tramonto. Basta che ti metti a raccontare, ciccio bello, e io ti annuisco a tutto quello che vuoi. Quindi vedi di parlare, ok?

Miroslav parlò. Con la sua voce un poco rauca e un poco strascicata, il vecchio colono (vecchio per essere un colono, non vecchio in generale) gli raccontò di come, poco dopo l’arrivo sul pianeta, ai tempi in cui era un fresco ventenne pieno di energie e di stronzate, e probabilmente gli stegosauri si raccoglievano nelle pianure a brucare, avessero mandato lui e il suo gruppo a lavorare all’ascensore spaziale dei militari, il primo che fosse stato impiantato.

«Lo volevano allargare, sai, o forse c’erano riparazioni da fare, non mi ricordo. Ci sono sempre cose da allargare o riparare, qui, e alla fine sono tutte uguali, una vale l’altra, sai come funziona, no? Se non lo sai lo scoprirai, stai tranquillo. Comunque ci mandano là, per ripararlo, allargarlo o quel che è, e non era una cosa per tutti, eh? Che quei militari sono sempre così, sai, tutti duri, fissati. Non ce li vogliono mica quelli normai, attorno. Quelli non militari.»

Avevano mandato il suo gruppo perché era composto da tecnici di alto livello, almeno secondo uno dei giudici più imparziali e oggettivi che si potessero immaginare, ossia il protagonista stesso della storia narrata. Dettagli che a Davide interessavano tanto quanto il prezzo delle fragole su Svarga. Li avevano mandati presso l’ascensore militare, nella zona in cui la seconda missione era scesa e in cui si trovavano nove pozzi, almeno secondo Zeke. E alcune rovine, ok, ma quelle non contavano. I pozzi sì. I pozzi contavano, almeno per Davide. Miroslav non li aveva visti, ma aveva visto una base militare parecchio grande e ben recintata. Ben sorvegliata, soprattutto.

«Ma non era mica una base, eh! Era una città, te lo dico io. Saran stati dieci chilometri di edifici, barriere, torrette e tutti quegli affari che ci mettono loro, sai? Non finiva più, da una parte all’altra, vedevi solo la base. Pazzesca, davvero.»

Erano andati oltre, perché il lavoro li attendeva all’ascensore e quella base militare era soltanto una cosa a cui dovevano passare davanti e che avevano guardato perché sì, ok, erano curiosi, no? Ma è normale essere curiosi, quando c’è qualcosa che sai che non puoi vedere né toccare. Comunque poi avevano raggiunto l’ascensore e avevano cominciato a lavorare, sempre con militari che andavano avanti e indietro, come se li stessero sorvegliando.

«E ci stavano sorvegliando, te lo dico io, sicuro come l’oro. Mi ci gioco le palle che ci stavano sorvegliando. Ma mi ci gioco le tue, non le mie, eh. Ahahaha!»

Ahahaha, spiritosone. Davide sorrideva e annuiva. E mentre Miroslav e il suo gruppo lavoravano attorno all’ascensore, un insetto lo aveva punto. Proprio lì, sul collo, dove aveva ancora la cicatrice. Miroslav non sapeva da dove fosse spuntato, né dove fosse finito. Sapeva solo che stava lavorando, poi aveva sentito un male del diavolo alla testa e giù, come un sacco di letame.

«Quando mi sono svegliato ero in un ospedale, o qualcosa del genere. Tutto bianco, sai, con tizi che giravano attorno e indossavano uno di quei cosi, un camice, bianco pure quello. Come i medici, no? Per questo era un ospedale, ma doveva essere uno per i militari, perché lì attorno non è che ci fosse altro a quei tempi. Neppure adesso, credo, perché i militari non è che vogliono molta gente attorno, ma io non ci sono mica più tornato, guarda, e non ci voglio neanche tornare, grazie.»

Mentre era in quell’ospedale gli avevano fatto esami di ogni tipo, e naturalmente lo avevano curato, perché non stava bene. Quel coso che lo aveva punto doveva avergli fatto infezione, o quello che è, perché aveva passato quasi una settimana con la febbre, a letto, e tanti saluti al lavoro. Poi a poco a poco era migliorato e alla fine lo avevano lasciato andare. Stava meglio, niente febbre, niente altro, ma quel segno sul collo gli era rimasto.

«E me lo porterò dietro finché campo, vedrai. O magari mi potrei far rifare la pelle, in quella zona, ma è una cosa che costa e io non sono proprio pieno di soldi, così me lo tengo, no?»

Giusto. E meglio così, perché Davide aveva avuto l’occasione di vederlo. Non sapeva bene quanto dovesse credere alla storia e sospettava che un buon trenta per cento minimo fosse costituito da una robusta dose di balle e fantasticherie, se doveva giudicare in base alle storie precedenti, ma i segni sul collo c’erano e assomigliavano a quelli che Zeke gli aveva descritto, quindi una qualche dose di verità ci doveva essere. Siccome Miroslav non aveva altro da raccontare, almeno non su quel tema, Davide avrebbe dovuto meditare sul racconto e cercare di ricavarne il più possibile, oltre a una certa voglia di andare a vedere quella fantomatica base militare, nei pressi dell’altro ascensore.

Per sua fortuna, se di fortuna si può parlare, una nuova breve influenza gli regalò un paio di giorni di vacanza, durante i quali poté dedicarsi a tutte le meditazioni che voleva. Purtroppo non ne ricavò molto. La storia di Zeke aveva trovato una conferma sul campo, ok, ma non gli sembrava di averne ottenuto molto di più. Dopodiché, gli impegni sociali di una colonia che raggiungeva sempre nuovi traguardi gli tolsero il tempo per le riflessioni, ributtandolo in pista.

Era sano a sufficienza per partecipare ai festeggiamenti, il giorno dell’inaugurazione della nuova centrale solare, e aveva la testa sufficientemente a posto per apprezzare anche il significato che la cerimonia avrebbe avuto per loro, nel futuro prossimo: più energia disponibile, più macchinari che si potevano utilizzare, meno lavoro manuale. Insomma, la vita sarebbe migliorata. Anche perché il loro gruppo ricevette proprio in quella occasione un nuovo lavoro stabile. Un grosso lavoro. E non troppo orribile, soprattutto se paragonato al cantiere stradale che si erano beccati all’inizio.

«Ci manderanno a costruire un museo, sempre qui in città,» disse Olaf Selke, poco dopo la cena. «È un lavoro un poco palloso, lo so, ma non ci sarà da faticare troppo. Avremo strumenti veri, stavolta, e cominceremo già da domani le esercitazioni.»

«Costruire un museo?» domandò Tunde Bohr. «Non lo inserirei proprio tra i bisogni urgenti della colonia. Non bisognava pensare prima alle cose necessarie e poi a tutto il resto?»

«Sì, ma, vedi, adesso abbiamo più energia, no? E più gente. E poi dicono che anche il museo è una cosa necessaria, capisci? È per il, come si chiama, turismo, no?»

«Turismo? Vogliono portare turisti qui? E cosa gli faranno vedere, le fantastiche zone residenziali di Madre, in perfetto stile periferia industriale di fine secondo millennio?» chiese Bianco Veigel. Con una mano cercava di lisciarsi i capelli, o forse li accarezzava, come se coccolandoli li avrebbe potuti salvare dall’estinzione di massa che incombeva nel loro futuro.

«Sono le rovine aliene, no?» disse Sebastian Hahn. «Si vede che si sono stancati di tenerle a fare il giocattolo privato degli archeologi e adesso vogliono usarle anche per farci qualche soldo. Musei e roba simile per esporre qualcosa, magari ci sbatteranno anche il nostro fossile, cose così, no? Non so quanti vorranno venirle a vedere su un pianeta così primitivo, ma immagino che parecchi pazzi dei mondi coloniali ci faranno un pensiero. Universitari e ricchi scemi, sai.»

«Sì, beh, il museo sarà per le cose che hanno trovato sul pianeta, per esporle. Dicono che finora le hanno tenute nei centri di ricerca, ma adesso vogliono farle vedere al pubblico o come si dice, non lo so,» disse Olaf. «Noi comunque ci dobbiamo preoccupare solo di costruirlo.»

Sebastiano si guardò attorno. «Siamo un po’ pochi per costruire un intero museo, anche se al piano di sopra si degneranno di lasciarci usare i macchinari, finalmente.»

«Beh, ma non ci siamo solo noi, dai. Anche altri gruppi.»

«Quanti?» chiese Luis Morago, che si accontentò di una sola parola, forse perché questo lo rendeva più comprensibile urbi et orbi.

«Non lo so. Però ce ne saranno altri. Comunque vedremo da domani, alle esercitazioni.»

Videro alle esercitazioni. L’area scelta per il museo era ampia, molto ampia, anche per un pianeta in gran parte vuoto come era Madre. Poco fuori città, abbastanza vicina all’ascensore, molto vicino alle strade principali (quasi uniche al momento, ok, ma in futuro saranno le strade principali, giusto il tempo di sviluppare il posto, vedrete), praticamente piatta. Volevano fare le cose in grande.

«Vogliono fare le cose in grande,» disse Tunde, osservando il futuro cantiere.

«Comprensibile,» rispose Sebastian. «Le rovine aliene sono praticamente l’unica risorsa del pianeta, almeno per quanto abbiamo visto finora. L’unica risorsa che abbia solo questo pianeta, almeno. Se vuoi fare soldi, non hai molto altro su cui puntare.»

«Qui intorno però non ce ne sono di rovine,» disse Davide. «Porteranno tutti i reperti fin qui dagli scavi? Non mi sembra una gran scelta. Se poi si rompe qualcosa?»

«Bruno mio, sei proprio ingenuo! Pensi davvero che ci esporranno roba autentica? Qualcosa sì, per carità, gli oggettini meno importanti e più spendibili. In maggior parte, però, saranno riproduzioni, sale in cui i visitatori potranno ammirare le rovine ricostruire in tre o quattro dimensioni, a seconda di quanto vorranno sprecarci, zone per le conferenze, palle varie. Non aspettarti una sfilza di teche con oggettini sotto vetro, per carità!»

«Dici che hanno abbastanza materiale anche per le ricostruzioni a quattro dimensioni?»

Sebastian scrollò le spalle. «Se non lo hanno, inventeranno. Come credi che funzioni? Trovano un po’ di materiale e poi fantasticano su come potrebbe essere stato tre, quattro milioni di anni prima, e su come potrebbe essere cambiato nel corso del tempo. Ed ecco pronta e servita la tua riproduzione quadridimensionale. Un modello in cui ti puoi muovere liberamente, guardando le rovine che prima nascono, crescono e poi crollano, come se i secoli fossero minuti attorno a te. E il tutto fornito dai nostri più illustri scienziati, che lo hanno estratto dal proprio buco del culo solo per te.»

«Il tocco di finezza ce lo devi sempre mettere, eh?» disse Tunde.

«È il sale che ti fa assaporare la vita, dopotutto. Seriamente, le ricostruzioni che vedremo sono solo modelli che gli scienziati presentano oggi e domani staranno già cambiando, perché hanno trovato qualcosa di nuovo, oppure hanno scoperto un errore nei dati, o altro ancora. Il che, dal nostro punto di vista, può significare sempre lavoro nuovo. E non troppo faticoso.»

«Ma non sarebbe comunque più semplice se lo costruissero vicino a un’area di scavi? Voglio dire, puoi mostrare due cose assieme, no? Le ricostruzioni qui e i lavori in corso là,» disse Davide.

Sebastian sorrise. «Bruno mio, dopo la mania per gli insetti ti è venuta la mania per gli scavi. È un cambiamento salutare, se non altro: almeno gli scavi non dovrebbero pungerti.»

«Agli scavi non ti ci fanno neanche avvicinare, se non sei del gruppo giusto. Togliteli proprio dalla testa, che è meglio.» A parlare fu una ragazza che non era assieme a loro, ma doveva essersi tenuta nelle vicinanze, mentre parlavano. A portata di orecchio, per essere più precisi. Una ragazza di pelle scura e capelli corti e lisci, nota di vista ma di cui solo Tunde ricordava anche il nome, almeno tra i presenti.

«Buongiorno Selina! Anche tu da queste parti?»

«Anch’io attendo le esercitazioni,» rispose Selina Dialla, sorridendo. «Mi auguro che saranno più divertenti di coltivare vegetali in mezzo a un deserto.»

«Avresti preferito scavare e asfaltare le strade assieme a noi?» chiese Sebastian. «Bastava dirlo e io ti avrei ceduto volentieri il mio posto.»

«Perché non ci si può avvicinare agli scavi? Sono tutti zona militare anche quella?» chiese Davide, in uno dei suoi consueti sforzi per trattenere la conversazione nel contesto che interessava a lui, ma senza farsi notare troppo.

«Zona militare no, non tutti,» disse Selina. «Ma sono comunque zone in cui l’accesso è limitato al personale e così via. Solita storia, insomma: entri se sei registrato e hai il tuo tesserino, altrimenti te ne stai fuori. Ci sono anche parti degli scavi a cui non tutti gli archeologi sono ammessi, ma solo un gruppo selezionato. Non chiedermi in base a cosa siano selezionati, però, perché non ne ho idea.»

Tunde la fissò con un mezzo sorriso. «Te ne indendi. Non sapevo ti interessassero queste cose.»

«Mi sono documentata un po’, per curiosità. Studiavo all’università, prima di mollare tutto e venire qui. Ho pensato che, chissà, magari avrei potuto trovare qualcosa di interessante anche qui su Madre se, non so, se mi fosse tornata voglia di studiare, ecco. Così mi sono informata su cosa ci fosse di bello da fare, giusto nel caso.»

«E cosa c’è di bello da fare? Magari più avanti potrebbe venire voglia anche a me, chi lo sa. Non ci credo molto, ho mollato subito dopo il liceo, ma a forza di mangiare polvere, magari...»

«Magari deciderai che è meglio masticare al chiuso e magari studiando, invece di startene a zappare un campo o roba simile, sì. Ci ho pensato anch’io. Comunque no, per adesso non c’è molto per chi non ha già un qualche titolo, non qui. Chi viene su Madre per studiare lo fa dopo avere già studiato a casa; se parti da zero, becchi male. Giusto qualche corso serale, che è comunque interessante e ho una mezza idea di farci un salto, ma niente di più, adesso. In futuro si vedrà.»

Nel presente, invece, vedevano la zona dove sarebbe sorto il museo. Dove loro avrebbero costruito il museo. Non da soli, ovvio, e non proprio con le loro mani, d’accordo, ma lo avrebbero comunque costruito. Arrivarci dopo avere fatto solo qualche piccola esperienza a costruire strade, sistemare campi, svuotare magazzini e altre opere di bassa manovalanza, più o meno sgradevoli, sembrava un grosso risultato. Un enorme risultato. Forse, sotto sotto, c’era davvero qualcosa di reale nella storia del pianeta nuovo, con struttura nuova e società aperta, ancora da creare, in cui tutti avrebbero avuto una possibilità, qualunque fosse il punto di partenza. Forse il Teatro di Oklahoma non era stato solo propaganda e distintivo. Forse.

Poi una lieve vibrazione del suolo e un meno lieve rumore nell’aria avvisò che i famosi e un poco famigerati macchinari erano arrivati, ridestati dall’energia che la nuova centrale appena inaugurata stava fornendo. Tempo di esercitarsi. Tempo di cominciare i preparativi.

Durarono circa una decina di giorni, le esercitazioni sul campo, un periodo durante il quale la salute di Davide si mantenne sul sereno o poco nuvoloso. La forma di cui aveva sempre goduto sulla Terra e che lo aveva reso incautamente fiducioso nel proprio corpo, pur non avendolo mai esercitato come si doveva, era solo un ricordo lontano, quasi un miraggio, ma nel complesso non poteva lamentarsi troppo. O meglio, poteva lamentarsi, ma non gli sarebbe servito e così decise di non farlo.

«Mi sembri un po’ meno mozzarella, adesso,» commentò Olaf alla fine di una giornata di prove non troppo faticose, mentre il gruppo rientrava verso la mensa.

«Mi sento ancora mozzarella, ma un poco sì, va meglio,» rispose Davide. Aveva un discreto mal di schiena, pur non avendo compiuto alcuno sforzo fisico concreto. Non quel giorno. Non adesso che le macchine pensavano davvero alla parte peggiore. Da un certo punto di vista, però, era stanco lo stesso. Stress, forse, o stanchezza indiretta, accumulata per procura mentre guidava i macchinari nel percorso che gli avevano assegnato per allenarsi e che, almeno in teoria, avrebbe dovuto simulare il compito a cui era stato destinato per i lavori veri e propri.

Era sembrato divertente, all’inizio, e piacevole. Dopo qualche giorno, però, era diventato peggio di una mattinata a scuola. E sì, era stancante. Non sul piano fisico, ma su quello mentale. Perché non era abituato a quel tipo di lavoro, in cui lui si doveva coordinare con una macchina, agire attraverso di essa e adattarsi a un numero ristretto di opzioni tra cui scegliere. Era un lavoro in cui forse se la sarebbe cavata meglio uno come Matteo, abituato a sedere e far lavorare altri. Lui, invece, si sentiva più attivo, più adatto a fare che a far fare. Idealmente. In concreto, però, doveva considerare anche il suo risibile stato di forma e adattarsi all’idea che, in futuro, avrebbe passato più tempo a guidare che a fare. Non gli piaceva, ma poteva andare peggio. Meglio accontentarsi.

La notte dell’ultimo giorno di esercitazioni, Davide Kori, meglio noto come Bruno Kitzis, fissava il soffitto del modulo in cui era alloggiato assieme a Olaf e cercava di non sentire il profondo e ursino russare del compagno di stanza. Impresa disperata. Per quanto in teoria si sarebbe ormai dovuto abituare al rumore, in pratica sospettava che non si sarebbe abituato mai. Come avrebbe dovuto fare ad abituarsi, seriamente? Era un martello pneumatico con la sinusite!

Ma Olaf non era il problema. O meglio sì, lo era, ma un problema minore. Il problema maggiore era che, dal suo arrivo su Madre, ancora non aveva saputo combinare niente. Ma niente niente, eh? Era in passivo pieno. Aveva ricevuto incarichi da Zeke e non li aveva svolti, si era assegnato incarichi da solo e non li aveva svolti. Peggio: nel delirio della febbre aveva anche parlato troppo. Non che lo avessero preso sul serio, grazie almeno per i piccoli favori, ma restava comunque un altro segno in negativo sul suo personale rendiconto della missione.

Così se ne stava immobile sulla sua branda, le mani intrecciate sulla pancia, un orso umanoide che gli russava con passione nel timpano sinistro, occhi aperti e puntati nel buio, verso il soffitto, e una testa che gli volava più o meno ovunque, a seconda di dove tirasse il vento dei pensieri. Bilancio pessimo, già. E nessuna speranza di migliorarlo, almeno entro breve. Non sapeva per quanto tempo il suo gruppo sarebbe rimasto impantanato lì, alla periferia di Oklahoma City, a costruire un museo di cui non gli poteva fregare di meno, ma di certo sarebbe stato a lungo, molto a lungo. E tanti saluti ai pozzi, il più vicino dei quali era a migliaia di chilometri.

Valeva ancora la pena di seguire quelle istruzioni? Valeva ancora la pena di pensare alle missioni, la prima ricevuta da Zeke e la seconda decisa da solo? Forse no. Erano sembrate importanti finché era sulla Terra, soprattutto la prima, ma adesso che era su Madre... Non sapeva bene neppure lui, ma gli stava passando la voglia di giocare all’agente segreto, al rivoluzionario romantico e palle varie. La vita da colono era dura, per molti versi pessima, ma gli faceva venire voglia di continuare come una persona normale. Gli faceva venire voglia di avere una vita e non di essere solo qualcuno guidato da fuori, come uno dei macchinari con cui si era esercitato.

Continuò a pensarci ancora per un poco, sempre più stanco, poi il cervello semplicemente staccò la spina e lo mandò a quel paese, con biglietto di sola andata in scompartimento di terza classe. Aveva lavorato fin troppo durante il giorno e non aveva voglia di sopportare le mille seghe mentali della sua personalità tardoadolescenziale. Meglio dormirci sopra. E Davide dormì.

Sognò Madre, o almeno un posto che sembrava Madre, anche se non era proprio un ritratto fedele e realistico. Ma quasi mai i sogni sono un ritratto fedele e realistico di qualcosa, perché in un sogno non conta l’aspetto che qualcosa ha, ma la nostra conoscenza di cosa dovrebbe essere quella cosa. E nel sogno il posto era Madre, lui sapeva che era Madre e quindi lo era, anche se assomigliava di più allo sfondo di un vecchio film western (chissà come gli era entrato in testa, dato che di film di quel genere ne aveva visti due in tutta la sua vita e neppure per intero).

Il paesaggio era desertico, coperto da una luce di tramonto. In lontananza c’erano strane rocce, che sembravano scavate dal vento o dall’acqua, anche se di acqua non ce n’era, e sotto i piedi aveva una sabbiolina sottile, scricchiolante, trapuntata di sassi: mancava giusto il cespuglio che rotola, spinto dal vento, ma il vento non c’era, per cui un cespuglio non avrebbe potuto rotolare, a logica.

Ma c’era il pozzo. O qualcosa di simile a un pozzo. Ricostruzione fantastica, liberamente ispirata alla storia di Zeke, senza dubbio, ma pozzo era e si apriva poco più avanti. Un cerchio irregolare di buio, molto largo, anche se sicuramente meno del chilometro di cui Zeke aveva parlato. Che poi, sul serio, come può esistere un pozzo largo un chilometro? Era di sicuro una sparata, che non potevi prendere alla lettera. E se anche l’avesse presa alla lettera, lui non sapeva quanto fosse di preciso un chilometro, per cui era impossibile che il suo sogno lo rappresentasse. Dettagli. C’era il pozzo, buio e largo, e lui vi era di fronte. O sopra. O come si dice.

Non sapeva come ci fosse arrivato, anche se nel sogno lo sapeva. Nel sogno aveva senso che lui fosse lì, anche se al risveglio il senso si era volatilizzato come etere. Gli erano successe anche altre cose, nel sogno, ma svanite pure quelle, in seguito. Era davanti al pozzo e guardava in basso, nel buio che inghiottiva tutto. E una brezza calda gli soffiava in faccia, salendo dal profondo.

Poi il pozzo non era più verticale, ma orizzontale. Era una galleria. E lui la stava percorrendo. Non aveva molto senso come scena, ovvio, ma in fondo era anche un sogno e i sogni non hanno senso, nella maggior parte dei casi. Quando poi lo hanno, è un senso accidentale. Comunque quel Davide onirico camminava nella galleria, che prima era stata un pozzo, e che anche adesso rimaneva buia e calda. Ma non era solo. Aveva accanto altra gente, gente che non riusciva a vedere, ma che sapeva essere lì. Sapeva anche chi fossero, o almeno ne aveva la sensazione, ma non i nomi, quelli non li sapeva proprio: erano persone che nel sogno conosceva e questo è quanto.

E c’erano insetti. Molti insetti. Li sentiva ronzare, ma non li vedeva. Perché era buio, ovvio. Erano attorno a lui, ronzavano, di tanto in tanto li doveva schivare (senza vederli? Senza vederli, sì: in un sogno puoi, questo e altro), e continuava a fare caldo. Quasi come se fosse in una estate a casa, una di quelle orribilmente umide e fatte di zanzare, dove l’aria è melassa spalmata sulla pelle. Era più o meno a quel punto che era affogato, svegliandosi. Perché mentre camminava era finito in una pozza di acqua, o di un qualche liquido simile all’acqua. Si era dimenato, contorto, aveva cercato di darsi una spinta per tornare a galla, ma invano. Nella realtà sapeva nuotare, nel sogno pareva di no.

Come spesso succede, il momento più brutto coincise anche col momento finale. Davide si svegliò nella sua branda, al buio, semiarrotolato nelle lenzuola e col sottofondo spiacevole ma familiare di una serenata notturna per grancassa, motosega e martello pneumatico, diretta dal noto maestro Olaf Selke direttamente dalla branda accanto. Un sogno assurdo. Uno spiacevole sogno assurdo. Ma un sogno che era anche finito, per sua fortuna. Non era proprio spaventoso, ma sognarsi di morire è raramente gradevole, anche nelle migliori circostanze.

Meditò a lungo su cosa potesse significare, danzando più e più volte sul bordo della risposta logica e razionale, ossia un sonoro niente: i sogni non significano niente, se non quello che noi vogliamo farli significare. Alla fine, però, decise che un significato lo aveva. Naturale o artificiale, un senso lo possedeva. Doveva essere un messaggio del suo inconscio, il famigerato giocattolo freudiano che è sempre buono come capro espiatorio, quando non sappiamo a chi attribuire la colpa o il merito di qualcosa. E il suo inconscio aveva deciso per lui, mentre dormiva: il sogno era stato la traduzione in immagini della decisione presa.

Decisione chiara, semplice. Lascia perdere pozzi e misteri, almeno per adesso: sono pericolosi. Per adesso, pensa a goderti la tua vita da colono, ammesso e non concesso che ci sia davvero qualcosa da godere. Sono rimasti lì per anni, giusto? Quindi potevano rimanere lì ancora per un poco. Non gli sarebbero scappati. Vivendo da colono avrebbe imparato a conoscere Madre, magari a capirla, e alla fine ne avrebbe guadagnato di sicuro. Alla fine le sue azioni avrebbero avuto una potenza maggiore, un impatto maggiore, se fossero giunte da qualcuno che conosceva e capiva l’ambiente, invece che da un corpo estraneo. Giusto? Giusto.

Davide rimase ancora per un poco sveglio e cosciente nel modulo buio, a sentire e non ascoltare il concerto del compagno, poi il sonno lo riprese e al sogno non pensò più.