La galassia di Madre - 42
Svarga era il più vecchio dei mondi coloniali e per certi versi anche il più importante. Affermazione che nessuno degli altri pianeti avrebbe mai sottoscritto, se non forse dopo avere ricevuto almeno il doppio di quanto richiesto per sottoscriverla, ma affermazione che possedeva una qualche parvenza di fondamento a proprio sostegno, se la si guardava dalla corretta angolatura ed essendo entrati nel corretto stato mentale per apprezzarla.
Svarga era il più vecchio e questo è stato detto. Lo avevano fondato oltre tre secoli prima coloni che provenivano dal Chind, ossia da quella che era stata un’alleanza forzata, e non troppo longeva, tra le vecchie potenze di Cina e India. Il viaggio che aveva portato alla fondazione aveva anche scatenato la prima guerra tra i due grandi blocchi di potere sulla Terra, ma era un dettaglio secondario e a cui nessuno più badava, almeno su Svarga. Avevano vinto, dopotutto.
La fondazione stessa era costata una enormità, sia in termini di vite umane, sia in termini molto più importanti di soldi. Il nome stesso del pianeta derivava da quello, dall’antica ingiunzione vedica che nessuno aveva dimenticato, almeno tra coloro che scelgono i nomi dei pianeti. Svarga-kamo yajeta: se vuoi attingere lo Svarga, devi sacrificare. E avevano sacrificato a piene mani, coloni su coloni, e alla fine avevano conquistato Svarga, l’antico paradiso vedico, il primo mondo che l’uomo avesse reclamato per sé con la forza della tecnologia, non dell’evoluzione.
Svarga era poi diventato il trampolino da cui tutti gli altri mondi erano stati colonizzati. A un prezzo più basso, perché ormai avevano sperimentato sul campo le strategie più economiche, ma Svarga rimaneva in un certo modo il padre spirituale delle successive colonie. Non solo: Svarga era anche un pianeta che, a differenza degli altri, si trovava in un sistema a stella doppia (tripla, se proprio si voleva fare i puntigliosi), nonché il più vicino alla Terra, il che lo rendeva unico, a modo proprio. Ancora: Svarga era... beh, deteneva una discreta lista di primati e poteva anche vantare una storia piuttosto complicata, a differenza degli altri mondi colonizzati.
In un universo buono, giusto, comprensivo e razionale, tutto questo lo avrebbe forse reso il pianeta guida per le altre colonie, grazie anche al suo enorme peso militare. In uno spicchio di galassia dove vivevano scimpanzé relativamente evoluti e relativamente glabri, invece, Svarga era solo un grosso gallo in un pollaio infestato da altri galli e qualche cappone: la cosiddetta confederazione dei mondi coloniali era solo un conglomerato di ego ipertrofici e qualche nonno pacioso, che sperperavano il proprio tempo libero litigando e cercando di fregarsi a vicenda, concedendosi di tanto in tanto una pausa per deridere il fratello scemo, ossia la Terra.
Tutto ciò poteva derivare dal fatto che la specie autoproclamata homo sapiens si fosse trovata, in un tempo piuttosto breve, a passare da una condizione in cui i suoi esemplari si urlavano contro da un albero all’altro, a una in cui si urlavano contro da un pianeta all’altro, ma studi di antropologia evolutiva erano ancora in corso e si sperava di potere arrivare a una risposta certa entro breve. Per il momento, Svarga era un mondo potente e importante, ma non una guida. Decisamente no.
Evoluzione a parte, Svarga era anche il pianeta verso cui Bogdan Stratos stava viaggiando, assieme a una compagnia alquanto curiosa e non del tutto prevista o gradita, almeno da lui. Non che avesse poi molta rilevanza la compagnia con cui viaggiava, al momento: aveva rilevanza la destinazione e per raggiungerla avrebbe accettato anche un viaggio su un carro bestiame, circondato da babbuini in calore. Forse. In assoluta mancanza di alternative meno spiacevoli. Siccome però l’alternativa meno spiacevole non solo c’era, ma la stava anche utilizzando al momento, Bogdan si poteva ritenere un uomo soddisfatto. E pure impaziente. Soprattutto impaziente. Impaziente di arrivare.
I suoi compagni di viaggio erano parecchi, perché la tratta Terra-Svarga era piuttosto frequentata, anche per la sua estrema brevità (almeno in termini relativi), nonché per i rapporti economici che univano i due pianeti. Rapporti economici non proprio bilanciati e paritari, d’accordo, ma rapporti economici erano e tanto bastava: con quattro pidocchiosi anni luce a separarli, i due commerciavano come se non ci fosse un domani ed era probabilmente l’unica tratta spaziale a garantire un profitto sufficiente agli imprenditori terrestri. Un giorno forse la situazione sarebbe cambiata, ma un giorno era un giorno e adesso è adesso, per cui tra Terra e Svarga gli scambi erano continui, frequenti i viaggi e molti i passeggeri che circondavano Bogdan, come compagni.
Compagni teorici, almeno. Compagni effettivi, invece, erano soltanto due e la scelta di entrambi lo aveva lasciato alquanto perplesso, sulle prime, e anche sulle seconde, ma ormai eravamo alle quinte e il nostro eroe se n’era fatto una ragione: era strano, ma non più strano di molte cose che aveva visto e sentito nel suo periodo all’Ufficio.
Il primo dei due compagni gli era stato più o meno anticipato dal Ministro Hass ed era il tizio con cui si sarebbe dovuto tenere in contatto durante la sua permanenza su Svarga. Il tizio che lo avrebbe controllato e spiato, in altri termini, ma almeno sembrava una persona passabilmente amichevole e simpatica, per cui poteva anche andargli peggio. Era un uomo sui trenta e qualcosa, a occhio, e con blandi lineamenti orientali, che gli avevano ricordato Lakshmi, a prima vista, dove quei lineamenti era molto più comuni che sulla Terra attuale. Gli avevano ricordato Indira, per essere più precisi, ma il ricordo era durato poco, perché no, non avevano poi molto in comune.
Hideki Einarsson: così si era presentato. Abbastanza alto, abbastanza muscoloso, con una stretta di mano da morsa idraulica e occhi blandamente a mandorla. Avevano chiacchierato un poco, durante il viaggio, e aveva dimostrato competenze storiche e astronomiche di cui Bogdan non lo avrebbe mai sospettato capace. Sorpresa piacevole, dopotutto, ma ancora più piacevole era che non se lo sarebbe ritrovato attorno alla fondazione Chen-Cohimbra, dove avrebbe studiato: quello Hideki si sarebbe sistemato in città, presso l’ambasciata terrestre, e da lì sarebbero rimasti in contatto, di tanto in tanto. Poteva andare peggio, decisamente.
Era andata almeno in parte peggio col secondo compagno di viaggio. Una compagna di viaggio, per cominciare, ma il problema non era quello. Il problema era che la compagna di viaggio era proprio Anna Lindtner, già sua collega planetologa all’Ufficio e adesso spedita assieme a lui su Svarga, per motivi di studio. Su richiesta di Vihersalo. Esplicita richiesta. Lo stesso professor Vihersalo che non lo aveva neppure degnato di un saluto e gli aveva firmato il consenso con la faccia di chi si sta per sottoporre a una qualche pratica umiliante e vergognosa.
E se le credenziali non erano le migliori, i giorni di viaggio gli avevano portato un altro motivo per non apprezzare la compagna di avventura. Era noiosa. Ok, all’Ufficio erano stati in buoni rapporti e l’aveva anche trovata simpatica, passabilmente simpatica, ma all’Ufficio era tutti noiosi, era la cosa più vicina a un cimitero di elefanti che Bogdan potesse immaginare: una persona con una mentalità blandamente aperta e non troppo ammuffita, lì in mezzo, sembrava una perla di giovialità. Adesso che era fuori dall’Ufficio, anche se solo temporaneamente, si stava accorgendo di tutta l’intrinseca noiosità di Anna Lindtner. O meglio, non proprio noiosa. Era... blanda. Piatta.
Vero, probabilmente avrebbe trovato blando e piatto chiunque si fosse presentato con la benedizione di Vihersalo, dopo che lui ne aveva ricevuto solo sputi, ma il punto non era quello. Il punto era che Anna Lindtner poteva essere sopportabile in piccole dosi, anche apprezzabile, ma se poi te la trovati attorno tutto il giorno, tutti i giorni, per mesi e mesi, diventava piacevole come un ascesso. Sempre che tu non sia masochista, beninteso, nel qual caso potrebbe anche essere realmente piacevole.
E l’avrebbe avuta attorno per tutto il tempo, dato che pure lei sarebbe rimasta a studiare come lui e con lui alla fondazione Chen-Cohimbra. Il che era strano. Sospettosamente strano. Perché Vihersalo avrebbe dovuto accettare di spedire un secondo planetologo nella tana del suo peggior nemico? O del suo peggior rivale immaginario, a voler essere precisi: il professor Hu Chen probabilmente non sapeva neppure dell’esistenza di Vihersalo, ma stava continuando gli studi di Jana Cohimbra, la sua defunta rivale di gioventù, e questo lo rendeva automaticamente un nemico. Agli occhi di Aaron Vihersalo, quantomeno. Eppure aveva deciso di mandarci una seconda persona.
Oh beh, pazienza. A Bogdan Stratos non interessava poi molto. Avrebbe studiato, avrebbe potuto migliorare le proprie competenze e proseguire le ricerche sui giganti gassosi di Madre, anche se per strade contorte, e questo era quanto. Il resto lo lasciava agli altri. Il resto lo poteva anche sopportare, come sacrificio in nome della scienza. Per così dire.
Poteva anche vedere di persona un pianeta abitabile collocato in un sistema stellare multiplo, il che era sempre un bonus gradito, almeno per un planetologo. Lui lo era. Per questo studiò con cura il sistema Centauri, mentre si avvicinavano, e con cura anche maggiore si guardò attorno, una volta scesi su Svarga, all’uscita dall’ascensore.
E non vide nulla di sorprendente, almeno all’inizio. La città ai piedi dell’ascensore spaziale era più o meno uguale alle città ai piedi degli ascensori spaziali di ogni altro pianeta da lui visitato. Così come l’evoluzione tendeva a produrre strutture simili su ogni pianeta, perché simili erano i bisogni a cui le varie forme di vita dovevano rispondere ed era limitato il numero delle risposte funzionanti ai bisogni suddetti, anche le città di frontiera tendevano a svilupparsi più o meno nello stesso modo ovunque, perché i bisogno dei viaggiatori erano sempre gli stessi. Il principio dell’autogrill, ma su scala galattica. Il fatto che i viaggiatori appartenessero tutti alla stessa specie, il cosiddetto homo sapiens, non faceva che ridurre e unificare questi bisogni. Le città di frontiera, che erano poi le città degli ascensori, si erano evolute proprio per rispondere ai bisogni.
Con differenze locali, d’accordo. Cambiava in parte l’architettura, cambiavano gli accenti e i vestiti degli abitanti, cambiavano un poco i cibi, ma in linea di massima erano tutte uguali. Nel caso di Svarga, la differenza più grande, o almeno più facile da notare, era la cupola trasparente.
Bogdan Stratos non ne capì subito la funzione. Non la capì neppure a un’ora dall’arrivo. Quando si ricordò di alzare gli occhi al cielo, però, la spiegazione gli fu chiara. Luminosa, per così dire. Ed era ovvia, come lo sono tutte le cose dopo che le hai capite.
Perché era pieno giorno, al loro arrivo, e il cielo era sereno. Principalmente sereno. Nuvolette quasi innocue si vedevano qui e là, ai margini, ma si potevano trascurare senza problemi e tutta la gente le trascurava, in apparenza. Le avrebbe probabilmente trascurate anche se fossero state più numerose e più scure, almeno fino a che non avesse cominciato a piovere. Perché non si vedevano differenze di luminosità, lì. Nuvole o non nuvole, sereno o variabile, era un posto maledettamente luminoso. Al momento. Perché al momento i due soli erano dalla stessa parte.
Due soli! Certo, era una espressione un poco esagerata, molto esagerata, ma in linea di massima era così, anche se sulle prime non vi aveva badato. Perché sì, Bogdan sapeva che il sistema di Svarga era un poco peculiare, ma lo sapeva a livello intellettuale. Era una conoscenza. Soltanto dopo aver guardato in cielo, e aver guardato bene, aprendo gli occhi e osservando quello che davvero c’era e non quello che si aspettava di vedere, la conoscenza era diventata un fatto, una realtà. Data quella realtà, tutto il resto acquistava un senso ben definito.
Due soli. Uno grande, accecante, normale. Il tipo di sole che ti aspetti su ogni pianeta abitabile e abitato dall’uomo. Ma assieme a quel sole ce n’era un altro, in quel periodo dell’anno e in quella fase del giorno. Un sole che Bogdan sapeva essere una stella, ma che agli occhi appariva poco più di una luna piena molto luminosa. Molto piccola, anche, ma la piccolezza era più che compensata dalla luminosità. Poteva notare anche due ombre al suolo, adesso che vi prestava attenzione. E se la scena era quella così durante il giorno, come doveva essere durante la notte, quando il secondo sole si trovava sul lato buio del pianeta? Quanto non doveva essere buio quel lato buio? E quanto doveva essere difficile abituarsi a dormire in una notte chiara?
La cupola trasparente era la risposta. Una risposta logica. Una risposta sensata, dopo che ci avevi pensato bene. Trasparente durante il giorno, ma oscurabile durante la notte, in caso di bisogno o di necessità. Per facilitare il sonno, aggiustare i bioritmi o quel cavolo che era: Bogdan non aveva mai badato molto all’ampio settore della scienza che non si occupava di corpi celesti e non intendeva cominciare adesso. Anche se, qualora avesse potuto confermare le prime osservazioni sulle strutture organiche nel cuore dei giganti gassosi di Madre... Ma era un problema di poi, nel caso.
«Pare che i primi coloni abbiano faticato parecchio qui,» spiegava intanto Hideki Einarsson, col suo miglior tono da guida turistica. Non molto buono, a giudizio di Bogdan. «Soprattutto perché non era proprio una ondata ricca di scienziati, quella della Garuda. Decisamente no. Non sarebbe stata una mossa conveniente, capite.»
«La Garuda?» chiese Anna Lindtner.
«Garuda. sì. La nave che trasportava i primi coloni. È conservata in un museo della capitale, se mai doveste avere voglia di vederla. In parte conservata. È più che altro una ricostruzione in scala, con qualche pezzo autentico, per quanto ne so. Comunque, i primi coloni sono stati usati letteralmente come cavie, sparati uno dopo l’altro contro il pianeta, per misurarne le reazioni, vedere cosa fosse commestibile e cosa no, che malattie ci fossero, solita storia. Per quanto ne so io, nessuno di loro è sopravvissuto abbastanza a lungo da lasciare discendenti, anche se molti qui si vantano di avere un qualche bis-bis che ha viaggiato sulla Garuda. È un po’ un mito locale, sapete.»
«Così, quando hanno cominciato a costruire sul serio, hanno optato per le cupole,» disse Bogdan.
«Anche per le cupole, sì, ma quello è stato più recente. La prima soluzione è stata costruite le zone residenziali sottoterra, dove fosse possibile regolare meglio la luminosità. Ancora adesso sono molti ad avere alloggi sotterranei, qui. O, più precisamente, zone sotterranee che fungono da dormitori. Il resto è tutto in superficie e bello trasparente, per sfruttare al massimo l’illuminazione naturale.»
Sensato. Spiegava anche l’architettura, almeno agli occhi non architettonici di Bogdan. Edifici più alti e slanciati in superficie, quasi interamente trasparenti e quasi interamente polarizzati, per fare entrare la luce ma non gli sguardi dei passanti. Sotto, nel fresco del terreno, gli spazi in cui andare a dormire. Non male, come soluzione. Un poco macchinosa, forse, soprattutto all’inizio, ma credeva di potersi adattare bene, sul lungo termine. Perché sperava di avere un lungo termine, o almeno un termine medio-lungo, presso la fondazione Chen-Cohimbra.
Allargando un poco le proprie prospettive, se ne poteva poi cogliere un elemento ulteriore, quasi un dato ironico. Se tutti gli altri pianeti abitati dagli umani si distinguevano per l’impegno con cui i suoi abitanti autoproclamati evoluti si impegnavano a trasformare la notte in giorno, imbottendola di luci artificiali, qui invece succedeva il contrario: gli umani si impegnavano a portare il buio nella notte, almeno in quel periodo dell’anno in cui le orbite dei soli lo rendevano necessario, per un buon periodo di sonno. Buffo, già, con forse una qualche morale sepolta da qualche parte, se proprio la volevi cercare e non avevi niente di meglio da fare con la tua vita.
La seconda, vera peculiarità svarghiana Bogdan la notò durante la passeggiata che fece per le vie di quella città ai piedi dell’ascensore, che apparentemente rispondeva al nome curioso e un poco buffo di Yi-Wu. Curioso e buffo alle sue orecchie, quantomeno, proprio come il nome Bogdan Stratos sarebbe probabilmente suonato curioso e buffo alle orecchie della gente del posto. Ma il nome non era il punto. Il punto era il gran numero di strutture che stava notando agli angoli delle strade, attaccate ai muri dei palazzi, a volte appese a pali di metallo, oppure semisepolte nella terra dei parchi. Strutture il cui significato gli sfuggiva completamente, ma che dovevano pure possedere una qualche importanza, visto quante erano e come erano sparpagliate ovunque.
Alcune sembravano un curioso conglomerato di cellette esagonali, più o meno come quelle di un alveare; altre erano coni, dalla superficie esterna butterata e scavata: altre era semplicemente palle, a gruppi di sette o nove e unite tra loro da piccoli pontili, che viaggiavano da un buco all’altro. Vide poi una specie di icosaedro pieno di punte, la cui funzione gli sfuggiva del tutto, e in un parco si poteva anche notare una specie di riproduzione in scala di un panorama egiziano, una spianata di sabbia ricoperta da piccole piramidi. Una, infine, sembrava né più né meno una vecchissima buca delle lettere, di colore rosso, appesa alla parete di un edificio. Ed erano delle dimensioni più varie, queste strutture improbabili: alcune grandi come giocattoli da bambino, altre come parchi giochi per bambini, altre ancora sembravano strane attrezzature ginniche, di quelle che secoli prima ti poteva capitare di vedere attorno a scuole elementari e asili, secondo i documentari.
C’era anche un discreto ronzio di insetti nei dintorni di diverse tra quelle strutture.
«Sono condomini per insetti,» spiegò Hideki con una frase che, in realtà, non spiegava un bel niente e ti lasciava con più domande di quante ne avessi avute all’inizio.
«Condomini per insetti?» chiese Bogdan. «Perché costruiscono condomini per insetti?»
«Perché non dovrebbero? Svarga è un pianeta famoso anche per i suoi insetti, no?»
«Vero, perché sono intelligenti, giusto? Possiedono una qualche forma di civiltà, o almeno così si pensa, anche se gli studi sono ancora in corso,» disse Anna, d’improvviso esperta entomologa.
«Non so dirti nulla, mi spiace. Gli insetti non sono il mio campo,» disse Hideki. «Se però lo trovi un argomento interessante, non avrai difficoltà a trovare anche qualche ricercatore che ne parlerà fino a farti cadere le orecchie. Non alla fondazione Chen-Cohimbra, credo, ma da altre parti sì.»
Insetti intelligenti, giusto. Bogdan ricordava di possedere anche brandelli di quella informazione, in un qualche cassetto recondito della mente, ma riteneva anche che la suddetta informazione fosse per lui tanto utile quanto uno scolapasta senza buchi o una pirofila di cioccolata. Lasciò che tornasse a seppellirsi sotto le altre cianfrusaglie mentali, senza un saluto. Non erano gli insetti il motivo per cui era venuto lì su Svarga. Decisamente no. A meno che al centro dei giganti gassosi non ci fossero in realtà colonie di insetti ciclopici, nel qual caso il discorso sarebbe cambiato, ma era una ipotesi assai improbabile, per non dire assurda. Anzi, per non dire stupida, che era peggio di assurda.
Il resto del primo giorno lo spesero così, camminando per le vie di Yi-Wu, ai piedi dell’ascensore, come turisti e con alcuni turisti, giunti da poco sul pianeta. Non un gran giorno, nel complesso, ma un giorno necessario per acclimatarsi e aspettare le ultime scartoffie ufficiali, che avrebbero aperto loro le porte (figurate) verso Guan Yu, città capitale di Svarga. Là si sarebbe sistemato Hideki e là, ma qualche chilometro fuori dal centro abitato, si sarebbero sistemati anche i due planetologi, nella fondazione Chen-Cohimbra. Salvo imprevisti, almeno.
Bogdan era alquanto impaziente di arrivare e cominciare le sue ricerche, prima che qualcuno magari potesse cambiare idea e rispedirlo sulla Terra. Il filtro che si era dovuto portare da Lakshmi, perché all’Ufficio non se ne trovavano neppure per sbaglio, era vecchio di qualche anno, era quello con cui si era esercitato all’università di Varshi, ed era praticamente sicuro che, nel frattempo, modelli ben più aggiornati fossero disponibili per chiunque non dovesse seguire le paturnie di un inutile vecchio come Vihersalo. Cosa avrebbe potuto scoprire, usandoli? Che il vecchiaccio malefico aveva ragione e i suoi risultati erano solo errori dovuti a un filtro difettoso? Oppure avrebbe scoperto che era lui ad avere ragione e il vecchiaccio malefico era solo un vecchiaccio malefico e ammuffito? La seconda, senza dubbio. Non poteva essere che la seconda. Ma dover aspettare ancora...
Aspettò. Il giorno seguente, gli ultimi documenti arrivarono e il loro viaggio verso nord poté partire, il viaggio che dall’area equatoriale ili avrebbe condotti alla capitale, più o meno attorno ai trentadue gradi di latitudine nord. Zona temperata, almeno secondo le informazioni in possesso di Bogdan, e questo lo fece ripensare a Lakshmi, dove aveva speso sette anni (lakshmiti) e dove una latitudine di trentadue gradi avrebbe segnato un posto molto caldo. E umido. E infestato da insetti. E poi e poi. Secondo Hidek, invece, la capitale Guan Yu non era calda, mediamente, e aveva all’incirca un clima da Europa continentale pre-estinzione dell’Olocene. Passabile, accettabile, con estati non terribili e inverni non gelidi. Non era un pianeta troppo caldo, Svarga, né un pianeta troppo grande. A Bogdan andava benissimo così.
A Bogdan sarebbe andato benissimo anche se Svarga fosse stato gigantesco e afosissimo, in effetti, perché non aveva in programma di passare molto tempo a viaggiare o godersi l’aria aperta, ma era un dettaglio secondario. Sapere che, se mai lo avesse desiderato davvero, poteva trovare un luogo accogliente anche fuori dalle pareti della fondazione, era comunque una buona notizia e come tale la accolse, rilassandosi durante il viaggio e cercando di adattarsi a quel mondo così luminoso.
Si adattò così bene, che all’arrivo a Guan Yu si dovette procurare per prima cosa un paio di occhiali da sole. Occhiali dalle lenti molto filtranti. Aveva pensato che Hideki stesse scherzando, quando gli parlava della città come della “Capitale di Luce”, con tanto di virgolette e maiuscole, ma non era uno scherzo. Decisamente no. Perché tutto ciò che poteva vedere, strizzando bene gli occhi, era di vetro, o di un qualche materiale equipollente. E rifletteva la luce. La rifletteva come neanche una distesa di ghiaccio avrebbe potuto fare. O forse sì, forse la rifletteva proprio come avrebbe fatto una distesa di ghiaccio: Bogdan non ne aveva mai viste di persona, per cui scelse di applicare una sana sospensione del giudizio e correggere la propria iperbole.
Fu soltanto dopo essersi procurato quel paio di occhiali dalle lenti molto filtranti e averle regolate quasi al massimo che poté guardarsi attorno, con calma e senza temere di perdere la vista. E ciò che vide fu più o meno quello che si sarebbe aspettato, dopo il primo assaggio di città svarghiana che aveva avuto a Yi-Wu, ma potenziato di parecchio.
Non era grande, Guan Yu, almeno per gli standard di una capitale planetaria, ma era alta. Molto alta. Il grattacielo sembrava la forma architettonica preferita, il che poteva anche avere un senso: Svarga stesso non era un pianeta grande e aveva quindi una certa necessità di ottimizzare lo spazio, per non ridursi a edifici e basta. Quindi, costruire in altezza, più che in larghezza. Per quel poco che Bogdan poteva capire di architettura e urbanistica, sembrava una scelta razionale e valida. Meno razionale e valida sembrava la scelta di tutto quel vetro, vetro riflettente, vetro molto riflettente, che rendeva le vie cittadine una sfilata di occhiali da sole piuttosto ridicola. Le rendeva anche una scena da mago di Oz, in effetti, ma era un pensiero troppo grottesco per i suoi gusti e preferì lasciarlo da parte.
«Ma che senso ha fare tutto così luminoso?» domandò a chiunque volesse o potesse rispondere.
«Dovresti chiederlo a un architetto del posto,» disse Hideki Einarsson. «Io sono un funzionario di ambasciata, non una guida turistica. So che la luce ha parecchia importanza nella cultura del posto, come fonte primaria di energia ma non solo. Di più non ti so dire. Posso però inventarmelo, se pensi che sia davvero necessaria una mia risposta immediata.»
«Grazie, ma non c’è bisogno. Magari lo chiederò a qualcuno del posto.» O magari non lo avrebbe chiesto proprio. Se tutto fosse andato come sperava lui, era probabile che nei prossimi mesi non ne avrebbe proprio vista di architettura svarghiana. E poi, non si era fatto quattro anni luce per turismo, ma per studio. Per la sua ipotesi. Per verificare la sua scoperta e confermare, o smentire, l’idea che si stava facendo sui giganti gassosi. Il resto, chissenefrega.
«Ma ai famosi insetti intelligente non dà fastidio tutta questa luce?» stava intanto chiedendo Anna.
Hideki alzò di nuovo le spalle. «Come ho detto, non ne so molto. Probabilmente no, dato che anche qui abbiamo tutte le strutture costruite per loro. E poi ci vivono da molto prima che arrivassimo noi umano, no? Se possiamo adattarci noi, in un qualche modo, loro saranno abituati a un mondo molto illuminato e lo saranno molto meglio di noi. Evoluzione e quella roba lì, insomma. Comunque, ribadisco che io sono un funzionario di ambasciata, non un architetto, un urbanista, un entomologo o altro. Posso inventarmi le risposte, ma non garantisco sulla loro veridicità.»
Funzionario di ambasciata, già. Bogdan sorrise a quella descrizione. Ok, funzionario di ambasciata era la posizione ufficiale del loro compagno di viaggio ed era il motivo per cui stava viaggiando con loro, naturalmente, lo sapevano tutti. Peccato che Bogdan sapesse anche un altro dettaglio, cioè che il vero compito di Hideki era controllare lui, mantenersi in collegamento con lui, ricevere i suoi rapporti sulle eventuali scoperte e inoltrare il tutto al ministro Hass, lo “sponsor” ufficioso. Per un dato valore di sponsor, almeno.
Oh beh, nulla di grave. In fondo, senza l’aiuto di quello Hass lui si sarebbe soltanto potuto sognare di venire a studiare lì, su Svarga, nella fondazione presieduta dal professor Chen. Senza la mano provvidenziale di Hass, adesso sarebbe ancora ad ammuffire nell’Ufficio, sotto le amorevole cure di Vihersalo, e nel giro di un paio di anni avrebbe cominciato anche lui a guardarsi allo specchio, ogni mattina, pensando a quale nuova e stupida pettinatura avrebbe potuto sperimentare. Da rabbrividire.
«Comunque, invece di girare per la città a fare turismo, io preferirei andare subito alla fondazione, per presentarmi e magari cominciare a sistemarmi. Se è possibile,» disse, interropendo gli altri due che stavano discutendo luoghi famosi e cose da vedere. Vedere! Come se si vedesse molto, con tutta quella luce. Chissà che inferno doveva essere in estate...
«La sede della fondazione è sulla collina appena fuori città, l’abbiamo anche vista di sfuggita mente arrivavamo,» rispose Hideki. «La vostra presentazione ufficiale, però, è prevista per domattina, per cui dovrete adattarvi e passare il resto della giornata qui, nel modo che preferite.»
«Presentazione ufficiale.»
«Presentazione ufficiale, sì. A Svarga amano molto la burocrazia e sono estremamente puntigliosi su cosa fare e come farlo. E serve un permesso più o meno per ogni cosa. Comunque è meno terribile di quanto vi possa sembrare, te lo assicuro, almeno per i non residenti, come noi. Si occupa di tutto l’organizzazione di cui facciamo parte, che per voi sarà la fondazione e per me l’ambasciata.»
«Permessi per tutto.» Il tono di Bogdan continuava a incupirsi.
«Non è così terribile come suona, davvero. È soltanto che su Svarga si è prodotta una società molto cerimoniosa e organizzata, soprattutto organizzata. Deve essere il modo in cui si sono mescolati gli iniziali coloni indiani e i successivi coloni cinesi, non so. Non sono un antropologo. Comunque il risultato è questo: mondo pignolo e un poco rigido, ma non così terribile o vincolante. L’importante è che vi ricordiate di fare ogni cosa secondo le procedure e poi potrete fare più o meno tutto ciò che vi verrà voglia di fare. Nei limiti del legale, almeno.»
Da collaudare, ma a Bogdan sembrava accettabile. Non peggiore di Lakshmi o delle strane fisime che imbottivano la vita all’Ufficio, quantomeno. Il che non era necessariamente un bene, d’accordo, ma almeno significava che avrebbe imparato presto come comportarsi, con gli spiacevoli precedenti che già aveva accumulato negli ultimi anni.
«Quindi per oggi dovremo fare i turisti,» riassunse Anna Lindtner, sistemandosi gli occhiali da sole (o da soli, data la peculiare struttura astronomica attorno a Svarga) e guardandosi attorno. «Beh, è una bella giornata e sembra un posto tranquillo, tutto sommato. Poteva andarci peggio.»
«Poteva andare molto peggio, senza dubbio. Che abbiate solo un giorno di attesa è grazie al peso di chi vi ha mandati e anche alle attuali rapporti tranquilli tra i due pianeti. Con un sponsor di minore rilevanza o con un rapporto un poco più teso, per un qualsiasi motivo, è probabile che l’intervallo di attesa prima della vostra presentazione presso la fondazione sarebbe stato più lungo. Anche molto più lungo, nel peggiore dei caso. È già successo, in passato.»
Bogdan sbuffò. «Mi piacerebbe sapere perché dobbiamo sempre finire in mezzo a qualche litigata tra pianeti, ogni volta che ci muoviamo. Neanche fossimo in un condominio.»
«Una volta succedeva lo stesso tra gli stati terrestri, adesso si è soltanto allargato il campo delle liti condominiali, come le vuoi descrivere tu. Non è che ci sia molta differenza. Ogni pianeta è convinto di essere il migliore di tutti e vuole che i nuovi arrivati lo sappiano, in un qualche modo. Il che di solito coincide con un poco di sano bullismo, o variazioni sul tema. Comunque, vedrete che già da domani sarete nella vostra fondazione e potrete cominciare i lavori. O almeno potrete cominciare a discutere dei vostri lavori con cui si occuperà di voi. Sicuramente voi saprete meglio di me come funzionino queste storie accademiche.»
«Sappiamo, sappiamo,» sorrise Anna. «Un qualche professore della fondazione ci prenderà nel suo gruppo, a seconda del nostro campo di specializzazione, e noi lo aiuteremo nel lavoro, imparando i suoi metodi e trasmettendo i nostri, in un confronto alla pari e formativo per entrambi, come te lo avrebbe descritto Vihersalo. O, per metterla in modo più realistico e concreto, accetteremo di farci usare come assistenti extra, per un qualche lavoro che a lui o a lei non interessa più di tanto, ma ha bisogno di concludere, e intanto impareremo qualcosa di nuovo e ci dedicheremo al nostro progetto nei tempi morti. Più o meno così, giusto?» concluse, girandosi verso Bogdan.
«Più o meno, sì. È quello che avrei dovuto fare anche all’Ufficio, almeno all’inizio. Ma poi...»
«Ancora a brontolare perché Vihersalo ti ha bocciato? Tanto adesso non ce l’hai più attorno e potrai fare quello che ti pare, no? O almeno potrai continuare quel tuo famoso studio sui giganti gassosi.»
«È un progetto di ricerca molto importante.»
«Lo so, me lo hai già spiegato. Vedremo se qui ti prenderanno sul serio, almeno.»
Hideki Einarsson li osservò per un poco, dietro un mezzo sorriso. Era stato proprio lui a individuare quello Stratos e segnalarlo al ministro Hass. Aveva anche già ascoltato la discussione a cui quei due si stavano riferendo adesso. Era successo per caso, ma anche per fortuna: perché si era trovato nel famoso e famigerato posto giusto al momento giusto. Come premio, ammesso e non concesso che di premio si potesse parlare, adesso era lì su Svarga e vi sarebbe dovuto rimanere per chissà quanto. A seguire Stratos, a controllare Stratos. E a fare rapporto al ministro Hass. Poteva andargli peggio, tutto sommato, ma poteva anche andare molto meglio.
Se ci fosse stato solo Stratos, per esempio.
Ma sapeva che non sarebbe andata così. Era ovvio che non sarebbe andata così. Hass lo aveva pure avvertito, ma era stato un avvertimento superfluo: dopo aver lasciato l’esercito ed essere entrato in una carriera civile nel ministero della difesa, Hideki aveva avuto ampie occasioni per apprezzare le finezze strategiche di quel particolare tipo di guerriglia urbana. Leonardi prima o poi sapeva tutto ciò che avveniva nel suo Ufficio: una volta scoperti i risultati delle ricerche di Stratos, e una volta saputo dell’interesse dimostrato da Hass, avrebbe mosso i propri pezzi sulla scacchiera, in risposta al suo amico, avversario o quello che era. I rapporti precisi tra Hass e Leonardi non gli erano ancora chiari e probabilmente non lo sarebbero mai stati, anche perché sembravano variare col ritmo delle stagioni, ma era secondario. Il punto era un altro.
Dopo aver dovuto approvare l’invio di Stratos su Svaga, obtorto collo, Vihersalo aveva aggiunto al pacchetto anche un’altra ricercatrice scelta da lui. Per ragioni di merito, diceva. Per migliorarne le già notevoli competenze. Per farle provare una esperienza preziosa su un pianeta avanzato come lo era Svarga in molte scienze astronomiche. Per eccetera eccetera. Tutte motivazioni plausibili, certo, se le si voleva accettare così come erano. Hideki non lo voleva.
Vihersalo aveva agito per procura: il mittente era stato Leonardi. Il punto era quindi capire se quella Anna Lindtner, selezionata da Vihersalo, fosse cosciente e consapevole del proprio ruolo, ma anche quanto fosse consenziente. Spia? Ovvio. Telecomando nelle mani di Leonardi? Probabile. Incaricata di inviare relazioni regolari sui progressi e sulle attività di Stratos? Suvvia, c’è davvero bisogno di specificarlo? Hideki Einarsson non lo specificava, ma lo pensava. Lo pensava con forza. E adesso gli sarebbe toccato sorvegliare due persone al prezzo di una. Allegria.
C’era anche una nota buffa, quasi ridicola in tutto quanto. Quello Stratos era fondamentalmente una fetta di prosciutto, o di un qualunque altro salume a scelta, pressata tra le due fette di pane che lo spiavano e lo controllavano, per poi riferire a chi di dovere. Non dovevano essere poi molto creativi ai piani alti, se tutti se ne uscivano con le stesse strategie. Oh beh, poteva almeno augurarsi che alla fine ne sarebbe valsa la pena. Se la grande presunta scoperta di Stratos si fosse dimostrata un errore, o per usare un termine tecnico una patacca, un bidone, una fregatura, allora si sarebbe sviluppato un clima molto interessante, sempre nei fantomatici piani alti. Da ridere? E perché no? Secondo il suo modesto parere, era sempre meglio ridere che piangere, comunque fosse andata.
Per il momento, Bogdan e Anna avevano concluso una imperdibile discussione su chi avrebbe preso sul serio cosa, su come sarebbe andata dove, su chi contava quanto e perché e così via, in saecula saeculorum, di interrogativo in interrogativo, amen. «Facciamo questo giro turistico della capitale, dunque?» chiese Hideki. «Tanto per oggi non c’è altro da fare.»
Lo fecero, con entusiasmo diverso a seconda dei casi.
Il mattino seguente, i due planetologi terrestri fecero il proprio ingresso ufficiale alla fondazione Chen-Cohimbra, mentre Hideki Einarsson si sistemava nell’ufficio a lui riservato dell’ambasciata terrestre di Guan Yu. Per controllare. Sorvegliare. Proteggere. E fare rapporto al capo.
Sempre che ci fosse qualcosa di utile su cui fare rapporto.