La galassia di Madre - 45
La città di Shtoma sorgeva in una zona collinare a due passi da un lago, nella fascia temperata della maggiore massa continentale del pianeta Agni. Anche se “sorgere” non è forse il verbo migliore per descrivere la sua urbanistica: forse sarebbe più corretto parlare di come fosse spalmata sulle colline, tra le colline e attorno alle colline, con grumi che si concentravano verso il lago e altri che parevano coagulati sulle cime delle colline stesse. Cime tondeggianti, cime basse, cime tutt’altro che aspre.
Il posto in generale era tutt’altro che aspro e proprio per questo i primi coloni lo avevano scelto: con un intero pianeta a disposizione, perché andarsi a infilare in aree dai climi estremi, magari con forti attività sismiche, soggette a inondazioni o peggio? Sarebbe stato stupido. Meglio partire dalle aree più comode e poi, se proprio necessario, avrebbero avuto tutto il tempo per complicarsi la vita addomesticando gli anfratti meno abitabili del nuovo mondo. E siccome Shtoma era stata la quinta città a essere fondata su Agni, i coloni avevano scelto uno dei punti migliori che potessero calcolare. In oltre due secoli non si erano pentiti della decisione.
Non era una città grande, Shtoma, perché Agni non era un pianeta così affollato. Non lo era ancora, almeno. Era un pianeta a misura d’uomo, o così amava descriversi nelle pubblicità sparse su tutti gli altri mondi coloniali e in particolare nelle loro stazioni orbitali; un pianeta che puntava alla qualità, non alla quantità; un pianeta dove rilassarsi e ritrovare la salute; un pianeta che aveva deciso di dedicare la maggior parte delle risorse alla ricerca e all’avanzamento di medicina e biotecnologie; un pianeta su cui potevi migliorare e allungare la tua vita, prima di accorciarla di nuovo tornando a tuffarti nel ritmo di mondi senza sonno come Svarga o Rudra; un pianeta dove eccetera eccetera.
Questo nella pubblicità. Nella realtà, Agni era un pianeta come gli altri, su cui si facevano le stesse cose che si facevano sugli altri, tutti i settori di industria e ricerca ricevevano gli stesso fondi e sì, è vero, medicina e biotecnologie erano un poco più avanzate rispetto alla media, erano i settori che rendevano Agni particolare e redditizio nel commercio interplanetario, ma non è che il resto fosse trascurato. Semplicemente, si era scelto di puntare su quella nicchia per crearsi una buona immagine e commercializzare il prodotto Agni nel resto della galassia abitata. Niente di anormale. Shtoma era la città in cui il mercato della salute macinava più soldi. Ma non era la sua unica peculiarità.
Oltre a rappresentare un ambiente fantastico in cui vivere, almeno sotto un profilo climatico, la città di Shtoma possedeva infatti anche una seconda peculiarità che la rendeva famosa a modo suo. La rendeva famosa in un campo parecchio diverso, che con la salute non aveva alcuna connessione, ma ne aveva parecchie col mondo accademico in generale. E col turismo? In parte, d’accordo, ma pochi avrebbero deciso di viaggiare anni luce soltanto per vedere ciò che era conservato a Shtoma. Chi aveva deciso di farsi tutta quella strada per altri motivi, però, poteva ritagliarsi anche un’ora libera per la seconda caratteristica della città. La seconda caratteristica era la pietra di Agni.
Non era a Shtoma che l’avevano trovata, durante uno scavo per gettare le fondamenta di una nuova centrale, ma Shtoma era la città più vicina e lì era finita, ad ammucchiare polvere e studiosi sotto una robusta bacheca. Studiosi di Agni, ma anche studiosi di altri mondi coloniali, che le ronzavano attorno come fanno i mosconi attorno alle sostanze che i mosconi sembrano prediligere. E come non fanno i mosconi, almeno per quanto ci è dato di sapere, gli studiosi producevano anche ingombranti masse di ricerche, studi, analisi e dati, dopo essersi cibati della pietra. Cibati in senso figurato: per quanto ci è dato sapere, nessuno di loro aveva ancora tentato di cibarsene in senso letterale, ma è saggio non porre limiti artificiali alla creatività umana, soprattutto quando gli umani in questione amano collezionare sigle davanti al proprio nome.
Tra gli studiosi che ronzavano attorno alla pietra si era da poco aggiunta anche Kemala Kexin, esule diversamente volontaria da Lakshmi, nonché diversamente entusiasta. In un primo momento. In un secondo momento, o forse era già il terzo, l’entusiasmo era tornato a crescere, timidamente e con più di una incertezza. A distanza di mesi, poteva quasi dire di avere raggiunto una parvenza di pace con se stessa e coi propri piani. O quello che dei piani restava, cioè ben poco. Aveva anche trovato qualcosa da fare, qualcosa di interessante, il che era un bonus sempre gradito. Trovare qualcosa di diverso da fare è uno dei modi migliori per darsi una pedata nel sedere e ripartire, quando eventi più o meno sgradevoli ti hanno arenato su un qualche litorale deserto.
Per Kemala Kexin, studiare la pietra di Agni era stata quella pedata. Sempre in senso figurato. Il posto, la gente e la necessità di lavorare, adesso che non aveva più un intero pianeta a mantenerla solo perché era nata e vi abitava, erano stati una molla vigorosa, chiave di avviamento che aveva riavviato il suo motore, volano che l’aveva proiettata verso nuove ragioni di essere, questo e quello, eccetera eccetera. Era stata soprattutto una nuova partenza, dopo la pausa forzata per riconsiderare la propria vita e le implicazioni filosofico-esistenziali che si accompagnano sempre alle riflessioni vaporose che concernono la vita, l’universo e tutto quanto.
C’era una volta una bambina, che aveva sognato di incontrare gli alieni e comunicare con loro. Gli alieni non si erano ancora fatti vedere, almeno non di persona e non nella forma che interessava a lei: c’erano forme di vita aliene in abbondanza, e alcune erano anche parecchio buone da mangiare, ma non si andava oltre l’insalata e la bistecca, a volerla mettere in termini il più possibile concreti e tangibili. Animali, vegetali, ma nulla con cui si potesse comunicare o che possedesse un qualunque tipo di civiltà comprensibile all’uomo, anche se parecchi studi in questi settori erano in corso. Non avevano ancora dato alcun risultato positivo, ma erano in corso.
Esistevano però le rovine su Madre, a indicare che in passato c’era stata almeno un’altra civiltà con un grado di evoluzione paragonabile a quello umano. Il che poteva non essere un bene, visto a cosa aveva portato la supposta evoluzione umana, ma era almeno interessante. La bambina Kemala era così diventata l’archeologa Kemala, per studiare quelle rovine e comunicare coi resti di una civiltà aliena, se proprio non poteva comunicare con alieni viventi. Alieni che non fossero insetti senza voce o calamari dal pessimo carattere.
Aveva studiato su Lakshmi, il pianeta dove era nata, e nei suoi vaghi progetti avrebbe poi dovuto proseguire il percorso accademico direttamente su Madre, dove avrebbe toccato con mano le rovine. Una quarantena e il numero chiuso di posti disponibili ai non terrestri le avevano però precluso ogni possibile accesso legittimo al pianeta, almeno al momento. Avrebbe potuto aspettare, avrebbe forse dovuto aspettare, ma la pazienza, che pure era la virtù dei forti e anche dei morti, non era una dote di quella Kemala. Con le informazioni ottenute da un povero fesso terrestre, uno studente incontrato per caso su Lakshmi, aveva elaborato un piano del tutto stupido, ma dall’apparenza sensata (ai suoi occhi): entrare su Madre spacciandosi per terrestre, per poi cercare di farsi accettare in un qualche modo non ben precisato.
Fallimento completo. Si era anche fatta almeno dieci giorni di carcere, su Madre, o forse di più, e si era dovuta subire le derisioni di tutte le guardie che avevano saputo del suo favoloso piano. E sì, lo doveva ammettere: se l’era meritato. Era stato un piano stupido, così stupido che adesso neppure lei sapeva spiegarsi come le fosse saltato in testa. Ma adesso era una Kemala diversa, con esperienze diverse e forse un poco di senso pratico in più. Era anche una Kemala in esilio, che non sarebbe mai più potuta tornare su Lakshmi per la completa irresponsabilità delle proprie azioni, e in qualità di esule non proprio inmeritus era finita lì, su Agni, nella città di Shtoma.
Non era stato facile. Anzi, era stato orribile e avrebbe dato volentieri un braccio altrui per non dover ripetere esperienze simili in futuro. Aveva avuto un sogno, quello di vivere su Madre e studiare le rovine della scomparsa civiltà aliena. Lo aveva coltivato con cura per anni, costruendovi attorno la propria vita e un discreto numero di fantasie fumose ma piacevoli. Quel sogno era finito come un calice di cristallo sganciato in caduta libera dal tetto di un grattacielo. Glielo avevano lasciato capite le guardie su Madre, mentre era in carcere. Lo aveva detto in forma moto velata l’ambasciatore lakshmita, quando erano venuti a recuperarla per il rimpatrio. Glielo aveva spiegato la professoressa Choi Jaewon, con lettere al neon alte almeno quattro chilometri. Su Madre non l’avrebbero più fatta entrare, neppure dentro un’urna.
Dunque doveva abbandonare il suo sogno e trovarsene un altro. O, in modo più prosaico, trovarsi qualcosa da fare, per tenersi impegnata durante il resto della propria esistenza, nonché per pagarsi la propria esistenza, se era intenzionata a vivere moderatamente a lungo.
Erano stati anche generosi, tutto sommato. La professoressa Choi aveva ottenuto per lei un esilio su Agni, ufficialmente mascherato da trasferimento per ragioni di studio. Siccome si era laureata con una tesi sulla pietra di Agni, Kemala avrebbe continuato le proprie ricerche sulla pietra in questione, direttamente nel posto in cui era conservata. La città di Shtoma, sul pianeta Agni.
Poteva andarle peggio. A meno di venticinque anni aveva già accumulato due pianeti su cui non le avrebbero mai più concesso di mettere piede, o altra parte del corpo: il suo mondo natale e il mondo che aveva sognato di raggiungere. Il che non era proprio bello, ma a parte questo le era andata bene. Aveva impiegato qualche mese per farsene una ragione, ma adesso sì, adesso capiva di essere stata fortunata. Moderatamente. E se il vecchio sogno era defunto, le restava comunque una vita e nuove cose da studiare. Morto un sogno, se ne fa un altro.
Perché la pietra di Agni era interessante. Molto interessante. Non avrebbe scritto una tesi di laurea su quel reperto, se non lo fosse stata. E adesso la poteva vedere di persona. La poteva studiare di persona. La poteva studiare inserita in un gruppo che, almeno teoricamente, aveva scelto di dedicare la propria vita lavorativa a quella occupazione.
Era una grande cosa essere di nuovo in un gruppo. Kemala non lo era stata mai davvero, se non per un breve periodo durante l’università. Era stata comunque parte di Lakshmi, il mondo culla, che si prende cura di te in ogni momento e in ogni circostanza, almeno finché tu obbedisci alle sue regole. La sentenza di esilio aveva troncato tutto quanto, lasciandola un relitto che vagava nello spazio. La comunità scientifica di Shtoma, o quello spicchio che si era raggruppato attorno alla pietra, le stava dando adesso un nuovo insieme di cui essere parte. Ed era bello.
Aveva inseguito un sogno e aveva fallito miseramente, perdendo più o meno tutto quello che poteva pensare di perdere. Punto. Così era andata e non poteva più farci nulla. Ma la vita continua, almeno finché non muori, e la sua vita sarebbe continuata su Agni, per adesso. Perché non cercare di cavare qualcosa di buono dalla situazione attuale? Non è che avesse molto altro in programma, in fondo.
Adesso Kemala Kexin sedeva nella biblioteca del centro di studi, sorto attorno alla pietra di Agni su una collina di Shtoma. Bel posto, nel complesso. Potevi vedere quasi tutta la città, da lì, se guardare il panorama rientrava nei tuoi interessi, e il profumo dell’aria era passabile, soprattutto se il vento soffiava dalle montagne che salivano verso nord. Quando soffiava invece dal lago a sud non era poi così piacevole, almeno per i suoi gusti, ma la gente del posto sembrava apprezzare i presunti effluvi benefici delle acque e lei aveva ritenuto più saggio non commentare ad alta voce su quanto il fetore le ricordasse un pesce morto e in decomposizione da parecchi giorni, con contorno di uova marce e forse una spruzzatina di vomito. Anche perché non è che trascorresse poi tanto tempo all’aperto, ad annusare l’aria o praticare giardinaggio.
Davanti a lei, al momento, sedeva Inna Rabbani, una ragazza sui trent’anni, sua nuova collega, ma che aveva percorso una strada del tutto impensabile, almeno per Kemala. Era nata sulla Terra, aveva studiato su Madre dopo la laurea e poi aveva volontariamente abbandonato quel pianeta, per venire su Agni a inseguire quella che lei stessa descriveva come “la mia teoria balzana preferita”. Che poi non era così balzana, a parere di Kemala, ma perché contraddire una collega?
Era la teoria della migrazione, secondo cui la civiltà di Madre aveva cercato di migrare su un altro pianeta abitabile, il più vicino, per sottrarsi a un qualche disastro ambientale che avrebbe spazzato il pianeta natale. Incapaci di continuare a vivere su Madre, per ragioni ancora non appurate, secondo la teoria quei madriani avrebbero tentato di colonizzare un altro mondo: Agni, per l’appunto. Questo spiegava l’esistenza della pietra, che sembrava fatta dello stesso materiale con cui erano edificate le rovine di Madre. Era tutto ciò che restava del tentativo dei coloni madriani.
Teoria che, in realtà, sarebbe stato più corretto descrivere come ipotesi, al momento, dato che non si era trovato alcuna prova che la sostenesse, ma in fondo lo stesso discorso valeva anche per le ipotesi concorrenti. Su Agni c’era una pietra, del peso di un paio di tonnellate, con una forma che poteva indicare una lavorazione intelligente, ma anche un curioso effetto della naturale erosione; la pietra era dello stesso materiale con cui erano state costruite le rovine di Madre. Un materiale artificiale, forse. O forse no: gli studi erano ancora troppo incerti per stabilire se il materiale della pietra fosse un prodotto naturale o artificiale.
«Se partiamo dal presupposto che il materiale sia artificiale e non naturale, quante credi che siano le probabilità che qui su Agni si sia formato spontaneamente? Inferiori alle probabilità che qualcuno lo abbia portato da Madre, no? O alle probabilità che un gruppo di madriani lo abbia fabbricato qui, su un pianeta dove volevano stabilire una colonia. Non credi?» aveva detto Inna, in uno del loro primi dialoghi al centro di studi.
Kemala lo credeva, o almeno lo voleva credere, che fosse vero oppure no. Le piaceva l’ipotesi. Era una bella ipotesi. Era una ipotesi che le avrebbe permesso di continuare a studiare le rovine aliene a distanza; in modo indiretto, ma le avrebbe permesso di continuare a studiarle. Era anche una ipotesi piuttosto vicina a quella su cui aveva basato la propria tesi di laurea.
Secondo Kemala, la pietra era stata sì prodotta da aspiranti coloni madriani, ma non concordava sul fatto che fossero partiti da Madre per sottrarsi a un qualche tipo di cataclisma, che li avrebbe tutti condannati all’estinzione. Suonava troppo apocalittica, roba da film, e poi ancora non avevano una sola prova a sostegno di questo presunto cataclisma, tre o quattro milioni di anni prima. No, di certo era partita una spedizione di coloni, da Madre, ma non per fuggire a qualche disastro: doveva essere stato solo per esplorare, o espandersi. Colonizzazione pura, insomma, non manovra disperata di una civiltà condannata a morte. O almeno, questo stava alla base della sua tesi.
Nulla di strano che Inna fosse la persona con cui Kemala aveva più legato, dal suo arrivo a Shtoma. Non solo erano entrambe archeologhe, almeno come titolo di studio, ma entrambe avevano anche interessi comuni, opinioni simili, cose di cui discutere e su cui dibattere. E poi Inna aveva vissuto su Madre, aveva visto coi proprio occhi le rovine, le aveva anche toccate, con la propria mano!
«Ma appena sfiorate, eh, niente di che. Proprio tac! E poi via la mano,» le aveva spiegato. «Saprai anche tu com’è, sono solide, ovvio, devono essere solide, altrimenti non sarebbero sopravvissute, sì, ma… Ma sembrano fragili, così da vicino, e forse lo sono anche. Come struttura, intendo. Non che io mi intenda molto di materiali, non è il mio campo, ma sono parecchio consumate dall’erosione e dai millenni che hanno trascorso sepolte. Che poi millenni è riduttivo. Per quanto abbiamo potuto appurare finora, sono rimaste sepolte per quasi due milioni e mezzo di anni, forse tre, e...»
«E avevi paura di rompere qualcosa, eh?» aveva sorriso Kemala, riuscendo a soffocare l’invidia che le stava corrodendo più o meno tutti gli organi interni.
«Anche quello, sì. Comunque le ho toccate. Ne ho toccato uno spicchio, ok, e pure quello l’ho solo sfiorato, ma le ho toccate. È stato come realizzare tutti i miei sogni.»
Kemala aveva poi cambiato in fretta argomento, perché di quel passo sarebbe scoppiata a piangere, oppure le avrebbe cavato gli occhi a mani nude, ma col tempo aveva saputo superare l’invidia e la gelosia e adesso erano moderatamente amiche. Tanto amiche quanto possano esserlo due colleghi di lavoro, costretti a cooperare quotidianamente e trascorrere la maggior parte del tempo nello stesso posto, circondati dalle stesse facce. Perché erano nello stesso gruppo e conducevano ricerche quasi in parallelo, entrambe sul modo in cui la pietra sarebbe arrivata su Agni. Disperati in fuga da un pianeta condannato? O esploratori in cerca di nuovi spazi?
Altri gruppi avevano altre ipotesi, ma tutti si affollavano attorno alla pietra, enigma vecchio di tre milioni e mezzo di anni circa, se le datazioni non erano troppo sballate. Alcuni preferivano invece la prima linea e continuavano a scavare attorno alla zona in cui la pietra era stata trovata, sperando in altri reperti, o tracce, o qualsiasi cosa la terra potesse vomitare. In dieci anni non era spuntato altro, ma la speranza non muore mai davvero, neppure con un paletto nel cuore e la testa mozzata, così gli scavi proseguivano, proseguivano le ricerche coi sonar, si teneva impegnata gente che, se lasciata in libertà, avrebbe potuto combinare di tutto e insomma c’era soltanto da guadagnarci. E la costruzione della centrale era stata trasferita altrove, nonché ormai completata da un pezzo.
E Kemala e Inna sedevano assieme in biblioteca, riordinando dati e appunti, abbozzando frasi, per modificarle subito dopo, e in generale facendo tutto ciò che serve per preparare una relazione, che a breve dovrà essere consegnata al diretto superiore, ossia il capo del loro gruppo di lavoro.
«Più ci lavoro e più la mia idea mi piace,» disse Inna, poco dopo. «Peccato che sia ancora soltanto fantascienza. A te va meglio?»
«No, non proprio,» rispose Kemala. «O meglio, potrei anche dire di sì, ma solo perché la ipotesi di un tentativo di colonizzazione è più semplice e non ha bisogno di tante ricerche, in fondo. I dati di Madre non ti sono serviti, poi?»
«Diciamo pure di no, non ci sono né conferme né smentite. Per quanto hanno potuto farlo finora, le ricostruzioni di come doveva essere il clima tra cinque e tre milioni di anni fa su Madre non hanno portato a nulla. Non sembrano esserci state catastrofi così drammatiche, come impatti meteoritici, o brevi ere glaciali, grandi eruzioni vulcaniche o altro. Dati più precisi e dettagliati potrebbero magari dare risultati diversi, ma adesso non li abbiamo e tutto ciò che possiamo dire è che non ci sono stati disastri ambientali, in quel periodo. Non legati a cose di cui siano rimaste tracce, almeno. Potrebbe esserci stata una qualche epidemia, magari, o una guerra mondiale, o altro ancora, ma dopo più di tre milioni di anni è parecchio difficile trovare qualche prova.»
Kemala sorrise. «Meglio partire dalle ipotesi più semplici, vedi? I madriani hanno inviato su Agni una spedizione per colonizzare il pianeta, per un qualsiasi motivo. La pietra è tutto ciò che resta dei coloni. E il motivo per cui sono partiti... Boh. Forse non lo sapremo mai.»
«Ma così non spieghi nulla. La mia ipotesi invece spiegherebbe anche perché la loro civiltà si sia poi estinta. Qualcosa rischiava di cancellarli tutti, loro hanno spedito coloni su Agni per cercare una via di fuga, ma hanno fallito. E poi la loro civiltà è sparita, sempre per questo evento che li ha spinti a cercare una salvezza su altri pianeti. Tutto torna, vedi?»
«Peccato che non ci siano prove dell’evento, almeno per adesso. Però è una bella ipotesi, sì.»
«Non ci sono per adesso, appunto. Ma è un campo nuovo, su un pianeta ancora arretrato, con poche riserve energetiche e ampie zone inesplorate. Sappiamo troppo poco su Madre, nel complesso, ed è inevitabile che le ricostruzioni siano provvisorie, parziali e vaghe. Ancora dobbiamo capire come funzioni oggi, figuriamoci quante certezze possiamo avere su come fosse tre o quattro milioni di anni fa. Ma vedrai, la mia ipotesi potrà solo rafforzarsi, col tempo. E anche il professor Chu pensa che sia la spiegazione più probabile.»
«Phan Thanh Chu sa a malapena dove è girato, quando si alza dal letto. Non mi pare un sostegno molto valido a una qualsiasi ipotesi. Uno che continua a farsi chiamare professore, anche quando è solo un ricercatore, poi...»
«Però è titolato e ha comunque un suo peso.»
«Oh, sul peso non ne discuto. Direi che siamo attorno ai due quintali, nel suo caso.»
«Esagerata! Non supererà il quintale e mezzo, dai! E comunque vedrai, i madriani fuggivano da un disastro ambientale, ne sono sicura. Il tempo è dalla mia parte.»
Kemala sorrise. L’ipotesi di Inna poteva rafforzarsi col tempo, senza dubbio, ma allo stesso modo si poteva anche indebolire. Posava su dati ignoti e l’ignoto la poteva sia aiutare che distruggere. «Beh, almeno su un punto siamo d’accordo, no? La pietra è artificiale e l’ha prodotta la stessa civiltà che si è sviluppata su Madre, i cosiddetti madriani. Questo è indiscutibile, no?»
«E vorrei ben vedere! Non capisco come possa esserci gente che si ostina a pensare che sia naturale. E si fanno chiamare scienziati, poi...»
«Non capisco come possa esserci gente che si ostina a pensare che sia artificiale. E si considerano scienziati, poi,» disse Marijn Asanga, scuotendo la testa. «Voglio dire, le rovine di Madre è chiaro che sono artificiali, niente da discutere. Sono rovine. Qualcuno o qualcosa le deve avere costruite, no? Ma la pietra, dai! Non è artificiale!»
Francis Tarchnishvili annuiva senza particolare impegno. Non ci metteva mai molto impegno, se si trattava di dare ragione al collega, e dare ragione ad Asanga era l’unico modo sensato di discutere con lui, o anche solo di intrattenere una conversazione. Perché se non gli davi ragione, era capace di discuterti a morte, fino a che non eri costretto ad annuire per puro sfinimento. Dunque, per evitare problemi e perdite di tempo, era meglio annuire subito. In fondo, in quel caso specifico, Francis era più o meno d’accordo con lui.
«La cosiddetta pietra di Agni è solo un sasso, modellato dalle intemperie,» aggiunse poi, mosso dal più improvviso desiderio di esagerare, giusto per dimostrare che stava seguendo la discussione e la trovava coinvolgente. Il che era parzialmente vero.
«Beh, sasso. Non è il termine che avrei usato io,» lo corresse Marijn Asanga. «Non mi pare il caso di sminuirne troppo la natura, che di per sé è comunque interessante e degna di studio. Ciò che non sopporto è l’ostinazione di certi preudoscienziati ad attribuire origine artificiale a ciò che, diciamolo pure, è soltanto un prodotto della natura, per quanto curioso e bizzarro. Ma lo spazio è grande e sui pianeti esplorati abbiamo già trovato cose ancora più bizzarre, eppure nessuno si è mai sognato di attribuirvi origini artificiali. Soltanto a questa pietra, ecco, e soltanto perché, proprio qui vicino – e dico vicino in termini astronomici, sia chiaro – c’è un pianeta su cui sono stato rinvenuti reperti di origine artificiale autentici. Tutto ciò è davvero fastidioso, credimi.»
Francis Tarchnishvili gli credeva. Perché non avrebbe dovuto, in fondo? Lavorava con lui da quasi cinque anni, lì a Shtoma, e il loro gruppo di lavoro si era progressivamente imposto come corrente dominante tra i sostenitori dell’origine naturale della pietra. Imposto grazie ai risultati degli studi e a montagne di indizi a favore, sia chiaro, non solo perché Asanga, il loro portavoce, era l’equivalente umano di un macigno che rotola lungo il fianco di una montagna, ossia qualcosa con cui non ti puoi fermare a discutere, ma soltanto schivare, se sei agile e veloce a sufficienza.
Poteva anche assomigliare un poco a un macigno, spigoloso com’era. Se lo guardavi dalla corretta angolazione e col giusto approccio mentale. Se lo guardavi da un’altra angolazione o con un diverso approccio mentale, poteva invece assomigliare a un tucano. Come naso, soprattutto. Unito al paio di occhiali che si ostinava a portare, invece di farsi semplicemente correggere gli occhi, e alle basette che sembravano una crescita di muschio marcio, Marijn Asanga era anche una figura che incuteva una certa soggezione, oltre a un incerto fastidio. Incerto perché non sapevi mai bene cosa fosse di preciso a infastidirti di lui, ma solo che qualcosa c’era e quel qualcosa ti infastidiva.
Ma era un genio, a modo suo: su questo Francis non aveva dubbi. Non troppi, se non altro. Ok, un paio di dubbi si, di tanto in tanto, ma nel complesso era chiaro che l’amico aveva una marcia in più. Ci si poteva soltanto augurare che non fosse la retro.
«È però curioso che la pietra sembri essere fatta dello stesso materiale che compone le rovine aliene di Madre,» disse Francis Tarchnishvili, sorseggiando adagio e con poco entusiasmo una bevanda a base di caffeina e di colore scuro, che poteva ricordare soltanto di sfuggita e per sbaglio il caffè. «E il materiale delle rovine aliene sembra essere un composto di origine artificiale. È questo che non mi so ancora spiegare bene. Potremmo dire che... sì, ecco, è l’anello debole della ipotesi sull’origine naturale della pietra. Se solo riuscissimo a rafforzarlo...»
Marijn sorrise. «Rafforzarlo sul piano teorico è la cosa più facile del mondo, davvero. Quello che ci manca realmente è una prova materiale a sostegno delle nostre ipotesi. Se soltanto ne riuscissimo a trovare un campione che sia indiscutibilmente naturale, sulla cui origine non è possibile avere alcun dubbio, allora sarebbe fatta. Vedi? E non è richiesto che si trovi proprio qui, su Agni, o anche solo su Madre, o su qualche altro pianeta. Anche un frammento che svolazza nello spazio andrebbe bene. Anzi, sarebbe perfetto, soprattutto per la mia ipotesi.»
«Origine meteoritica, giusto? Lo sai che non mi convince molto.»
«Ti convincerà quando avremo le prove. Che ne siano state trovate tracce soltanto su Madre, nelle rovine, e qui su Agni, nella pietra, è facile da spiegare. Soprattutto la nostra pietra è facilissima da spiegare. I resti di un impatto meteoritico, lavorati dal tempo e dall’atmosfera, fino a produrre come risultato un grosso blocco simile alla pietra, dalla forma insolita perché è stato anche sottoposto a forze insolite. Attrito con l’atmosfera al momento dell’ingresso, impatto al suolo, quindi tre milioni di anni di erosione, infine la sepoltura. Cosa c’è di strano, se al termine di tutto questo una pietra ha assunto un aspetto particolare? Niente! È la cosa più normale del mondo, davvero.»
La sala ricreativa si era nel frattempo svuotata, sia perché la pausa era quasi finita, sia perché non era considerato saggio mantenersi nelle vicinanze di Asanga, quando entrava in uno dei suoi soliti momenti di predica compulsiva o delirio libero, a seconda dei punti di vista. Rimanevano giusto lo stesso Asanga, il suo fidato bersaglio Tarchnishvili e una parete di distributori automatici, che costituivano tutta la ricreazione offerta dalla stanza. Più le sedie e cinque tavoli.
Non era una gran sala ricreativa, ma non c’era bisogno che lo fosse. Non in un centro di studi. Non secondo il parere di chi aveva progettato il palazzo e di chi, al momento, amministrava la comunità scientifica della pietra. Erano lì per studiare, non per bere il caffè in poltrona, giusto? E quindi che si preoccupassero delle aree di studio e di ricerca, che erano equipaggiate nel migliore dei modi e offrivano tutto ciò che potesse servire. Le sale ricreative erano soltanto un posto dove fare pausa di tanto in tanto, magari spettegolare un poco, d’accordo, coltivare una sana infantile rivalità tra gruppi di ricerca, gareggiare a chi aveva il set di dati più lungo e più vago, così da poterlo interpretare nel modo più comodo per le proprie ipotesi, eccetera eccetera. Niente per cui servisse stare comodi.
Ricreazioni a parte, il palazzo era grande e dedicato unicamente alla pietra. La studiavano sotto ogni possibile angolazione e sotto molte delle angolazioni che sarebbero apparse impossibili, almeno per il buon senso, e tutti inseguivano lo stesso risultato: spiegarne l’esistenza. O l’origine, per essere più precisi. Perché che la pietra esistesse non ne dubitava nessuno, a parte forse quei filosofi e mistici che credevano nell’illusorietà di ogni dato sensoriale, ma come fosse arrivata su Agni era un altro tipo di discorso. Un discorso molto più lungo, tanto per cominciare.
Perché il materiale di cui era composta la pietra non era stato trovato da nessun’altra parte su Agni. Vero, non era neppure stato cercato in ogni punto accessibile del pianeta, almeno per adesso, e non si poteva ancora escludere matematicamente che da qualche parte ne esistessero altri esemplari, ma al momento la pietra era un unicum. Su Agni. Su Madre, invece, lo stesso materiale era stato usato dalla civiltà scomparsa per edificare le strutture note come le rovine aliene. Che non erano molte, in effetti, ma c’era già da baciarsi i gomiti che fosse rimasto qualcosa, dopo quasi quattro milioni di anni. E il qualcosa rimasto era dello stesso materiale della pietra di Agni.
Ma le rovine di Madre non hanno rilevanza, adesso. Ne ha invece la pietra.
La comunità scientifica che si occupava del reperto, raccolta nel palazzo in collina dietro la città di Shtoma, aveva cominciato le proprie attività di ricerca su posizioni quasi unanimi, che vedevano la pietra come un artefatto lasciato dalla stessa civiltà nata, cresciuta e scomparsa su Madre. Non era durata a lungo l’unanimità, come è inevitabile che accada in ambienti ad alto tasso di competizione e moderatamente bassa selezione naturale. Nel corso di dieci anni, la comunità si era fratturata e frantumata in un delta di correnti, rivoli, rami e ipotesi che dibattevano, litigavano, si scindevano, si riunivano, si scindevano di nuovo e insomma ricreavano una pregevole simulazione di vita, per chi apprezza questo genere di divertimenti.
Due erano i filoni principali ed erano divisi sulla origine della pietra: artificiale per alcuni, naturale per altri. Da qui, poi, si dipartivano sottogruppi di ogni tipo e colore, a volte composti anche da una decina di persone, molto più spesso formati solo da una manciata di studiosi, o da uno soltanto. Era un poco una moda, da un certo punto di vista, e il fatto che sulla pietra vi fossero molto più dubbi che certezze serviva solo a stimolare la creatività di menti che cercavano di farsi un nome, puntando su tutto ciò che si poteva fisicamente proporre come spiegazione.
Perché non avrebbero dovuto, in fondo? Quasi nessuna strada era preclusa, sulla base delle poche prove di cui disponevano. Quasi tutte le ipotesi potevano essere forzare a entrare in un quadro assai angusto di pochi dati e molte illazioni. Cose ben più assurde si erano già dimostrate vere nel corso delle esplorazioni spaziali, provocando crisi di nervi ed esaurimenti in tutti gli scienziati che, fino a due secondi prima, le avevano proclamate impossibili davanti alla intera comunità scientifica, ma anche di fronte a ogni microfono che si offrisse loro. Era successo, e aveva insegnato molto alle nuove generazioni di ricercatori. Aveva insegnato la tecnica della sparata cieca, per esempio.
Se le cose che non sapevano erano incomparabilmente più numerose di quelle che sapevano, e se ogni nuova pozzanghera di conoscenza spalancava abissi oceanici di ignoranza, perché limitarsi? A quale scopo frenarsi? Spariamole sempre più grosse, sempre più impossibili, sempre più fantasiose: se mai ci dovesse capitare di averla sparata giusta, diventeremo famosi in un attimo e avremo fatto la storia (o una scheggia di storia) della nostra disciplina. Che nel caso della pietra di Agni era l’archeologia spaziale, almeno per il momento, ma nessuna strada era preclusa.
La pietra, ignara di tutto e a tutto indifferente, sedeva sotto una robusta teca in una sala aperta al pubblico, almeno in alcuni periodi del giorno. In altri periodi del giorno continuava a sedere sotto la teca, ma la sala non era più accessibile al pubblico: era accessibile ai ricercatori, che tendevano a essere un poco meno educati e soprattutto non portavano soldi. Portavano però conoscenza, o così amavano pensare e far pensare.
La pietra era una pietra di circa due tonnellate e di un colore che, una volta ripulito, si era mostrato come un verdastro molto vago, di una tonalità che forse possedeva un nome preciso, ma che tra gli scienziati del posto era noto come “verde pus”, in omaggio alla loro succitata creatività. Era anche sfaccettata, la pietra, o almeno lo sembrava: era più o meno un parallelepipedo, o forse lo era stata, ma adesso la sua forma precisa era molto meno geometrica, nonché scavata in più punti da quella che alcuni consideravano normale erosione e per altri erano i resti di decorazioni o incisioni.
Era piuttosto difficile in effetti descriverla di preciso, senza prendere una posizione sulla sua origine e natura, ma in linea di massima la si poteva definire come un cubo di Rubik a cui erano successe cose molto brutte, come l’essere distorto lungo direttrici che non erano possibili in un vero cubo, ma che lo sembravano nel caso della pietra. Soprattutto perché, a differenza del suddetto cubo, la pietra era un pezzo unico e non era manipolabile: la somiglianza era solo una illusione, causata dal modo in cui vari pezzi spuntavano qui e là. Non era neppure un cubo regolare, se era per questo, e molto probabilmente non lo era mai stato.
Ed ecco il problema: era più facile dire cosa non fosse che cosa fosse. Uno dei problemi. Se soltanto non fosse stata composta dello stesso materiale usato per le rovine di Madre, materiale inesistente altrove su Agni, la si sarebbe potuta liquidare come un bizzarro scherzo di natura. Invece la sua composizione era esattamente la stessa delle rovine di Madre e quel fatto l’aveva resa una specie di attrazione planetaria, oltre che un enigma spaziale. E una fonte di reddito per una intera comunità di ricercatori, che altrimenti si sarebbe dovuta cercare un lavoro altrove, e qualunque cosa porti soldi sul posto è sempre utile alla economia locale, per cui nessuno a Shtoma se ne lamentava.
Fosse come fosse, la pietra di Agni era un enigma, avvolto in un mistero, eccetera eccetera, e lo sarebbe rimasta ancora per un certo tempo. Almeno fino a che nuove scoperte non avessero portato all’apertura di nuove prospettive, nuove ipotesi. E, forse, nuove certezze. O almeno finché non ne fosse stato scoperto un quasi gemello, altrove nella galassia.