Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 46

La fondazione Chen-Cohimbra, o almeno la sede fisica in cui svolgeva la maggior parte del proprio lavoro, era collocata su una bassa collina appena fuori dalla città di Guan Yu, nell’emisfero nord di Svarga, in una zona moderatamente calda ed estremamente illuminata. Avevano scelto di costruirla su una collina perché era un osservatorio, da un certo punto di vista; un luogo in cui si studiavano pianeti e altri corpi celesti, da un altro e più preciso punto di vista. Aveva comunque a che fare col cielo, per cui doveva trovarsi in un punto alto. In teoria.

In pratica, l’avrebbero potuta piazzare ovunque e non avrebbe fatto la minima differenza, dato che i suoi telescopi erano tutti nello spazio e nessuno si sarebbe mai neppure sognato di costruirne uno sul pianeta, dove la luce del sistema binario in cui si trovava Svarga era la dannazione per qualsiasi tipo di osservatorio, ma la tradizione voleva che edifici come la fondazione Chen-Cohimbra fossero collocati in luoghi alti e così era stato. Amavano molto la tradizione, su Svarga. In qualità di primo mondo coloniale della storia, erano anche gli unici a potersi permettere di parlare seriamente di una tradizione, al di fuori della Terra.

Non che fosse una tradizione lunga o bella. I primi decenni di vita di Svarga, cominciati con l’arrivo della nave Garuda, non sarebbero stati ricordati con nostalgia in nessun libro di storia, se non forse in una particolare edizione curata da Pol Pott, Mengele o simpaticoni affini. Era però una colonia vecchia e sapeva di esserlo. Era anche la più vicina alla Terra e sapeva di esserlo. Per questo, o forse solo per pigrizia, Svarga aveva anche conservato alcuni degli usi terrestri, con un occhio di riguardo per i più inutili, come ogni tradizione comanda. Sistemare un osservatorio in una posizione elevata rientrava tra questi, anche se la sede della fondazione Chen-Cohimbra non era stricto sensu un osservatorio. E neanche largo sensu, ma i dettagli sono sempre trascurabili.

Fosse come fosse, l’edificio era grande: basso e grande. E riflettente, secondo lo stile architettonico che Bogdan aveva già avuto modo di notare in città e altrove, durante il viaggio all’arrivo. Di certo i soli erano una fantastica fonte di energia, data la particolare situazione astronomica del pianeta, ma la luce in eccesso era anche un discreto fastidio, almeno per i bioritmi umani. Proprio per questo gli alloggi erano quasi tutti ai piani sotterranei, sia alla fondazione che altrove: non molto gradevole se avevi problemi di claustrofobia, ma su Svarga quel disturbo si era fatto piuttosto raro, grazie a ciò che pareva una rapida applicazione dei principi di selezione naturale. Selezione naturale che aveva lavorato a pieno regime durante i primi decenni di colonizzazione, quando in milioni erano morti, prima di addomesticare il pianeta. Sacrifici in nome del progresso umano e palle varie, si sa.

Che fosse sopra o sotto la superficie di Svarga, però, poco cambiava. La struttura dell’edificio era la stessa, fatta di spazi larghi e ariosi, vagamente echeggianti, alternati a piccoli anfratti individuali o quasi, che erano in apparenza la versione svarghiana degli uffici per il personale. Loculi verticali, li aveva definiti Bogdan Stratos quando un uomo riccio e panciuto gli aveva indicato quello riservato a lui, ma erano sempre meglio di niente. Un luogo dove lasciare le tue cose e ritirarti per un poco a riposare, quando volevi sentirti pensare: una operazione spesso complessa nella macedonia di vita variegata che si svolgeva negli spazi comuni.

Caotico o meno, era un luogo grande, luminoso e attivo. Attivo non solo sul piano fisico, ma anche e soprattutto su quello mentale. Un luogo dove potevi davvero espandere le tue conoscenze, trovare nuovi interessi, approfondire e affinare le tue competenze, discutere con altre persone e confrontare le vostre opinioni, aiutare ed essere aiutato, credere obbedire combattere, e insomma un luogo che, agli occhi del nuovo arrivato Bogdan, era più o meno l’opposto di ciò che aveva trovato sulla Terra all’Ufficio per la Colonizzazione, sezione planetologia in particolare.

La sua opinione sarebbe cambiata, ne era certo; cambiava quasi sempre, passando dall’entusiasmo del primo minuto alla delusione dell’ultimo. Era successo su Lakshmi, era successo molto più in fretta all’Ufficio e sarebbe successo anche lì, alla fondazione. Per adesso, però, si sentiva contento e realizzato e poteva bastare: non aveva fretta di scoprire i lati negativi, che c’erano di sicuro, ma che avrebbero anche potuto restare nascosti per un altro poco, o anche un altro tanto.

Un lato negativo non era certo il tutore che gli avevano assegnato e che lo avrebbe aiutato nei primi tempi della sua permanenza su Svarga. Muzafar Chang era un quarantenne con una pancetta che non si lasciava nascondere da nessun tipo di abbigliamento; aveva occhi dall’aspetto un po’ troppo artificiale e preciso per essere naturali e infatti non lo erano, come gli aveva spiegato subito: rifatti più volte, per correggere una vista che sarebbe stato eufemistico descrivere come scadente, erano un tormento per lui, ma almeno per adesso funzionavano.

«Anche se fra due o tre anni dovrò probabilmente passare di nuovo in ospedale, per la revisione e la necessaria manutenzione. Con la luce che abbiamo qui, si consumano come ridere,» aveva aggiunto poi, sorridendo. «Dovrei decidermi a sostituirli definitivamente, ma ci sono affezionato, sai, e farli cambiare mi dispiacerebbe. Sono uguali a quelli di mia madre ed è il suo unico ricordo che ho.»

Una nota che avrebbe potuto chiudere il loro primo incontro nella depressione e nello sconforto, ma Muzafar Chang non sembrava incline a quegli stati d’animo. Incline alla pancetta e al mangiare con gusto, forse, ammesso e non concesso che su Svarga si potesse mangiare con gusto (dopo le varie esperienze in mensa, Bodgan propendeva per il no), ma alla depressione? Giammai! A ogni modo, dopo la parentesi personale era passato a quella professionale, molto ma molto più interessante. Soprattutto per Bogdan. Perché il suo nuovo tutore era un planetologo coi suoi stessi interessi: non solo era specializzato nei giganti gassosi, il che era normale essendogli stato assegnato come tutore, ma era soprattutto incuriosito dai due giganti gassosi del sistema solare di Madre.

«Non mi hanno mai concesso di studiarli da vicino, purtroppo,» aveva ammesso, «ma spero che tu avrai più fortuna di me, essendo terrestre. E comunque ho potuto condurre parecchie ricerche, anche da qui. Devi vedere cosa si può ottenere coi nuovi filtri sperimentali.»

Bogdan avrebbe venduto due organi qualsiasi della propria madre per vedere cosa potesse ottenere coi nuovi filtri sperimentali, ma non lo vide quel giorno. Il loro primo incontro fu fatto soltanto di presentazioni, giri per l’edificio a mostrare dove fossero collocate le varie zone di studio e ricerca, e ancora presentazioni, e ancora giri turistici, e soltanto alla fine una discussione rapida su quale fosse il progetto che Bogdan aveva intenzione di svolgere durante il periodo di permanenza in loco.

«Una anomalia nella struttura interna dei giganti gassosi di Madre?» aveva chiesto Muzafar Chang, dopo la più rapida delle occhiate alla documentazione che il terrestre gli aveva consegnato.

«Sì, una anomalia. L’ho individuata applicando i filtri Chen-Cohimbra ai dati raccolti dall’Ufficio, e adesso vorrei verificare che l’anomalia esista davvero e non sia soltanto un errore, il che potrebbe anche essere, lo riconosco, ma Vihersalo all’Ufficio non mi ha proprio voluto ascoltare, perché loro i filtri Chen-Cohimbra non li vogliono usare e così, alla fine, beh...»

«Oh, sì, ho sentito dire che sulla Terra non sono molto graditi i nostri filtri, chissà perché. E dire che uno dei due sviluppatori originali era proprio una vostra scienziata. Curioso, già.»

«Non è che non sono graditi sulla Terra; non sono graditi da Vihersalo. È diverso. Perché pare che Jana Cohimbra fosse una sua rivale, ai tempi, o fosse una planetologa migliore di lui, che poi non ci vuole molto, o qualcosa del genere. Io li uso, ma sul lavoro non me li accettano e così...»

«Alla fine hai ottenuto di farti spedire per un poco qui da noi, dove i filtri non solo li utilizziamo, ma li progettiamo e li sviluppiamo anche. Capisco, capisco,» aveva sorriso. «Adesso mi è chiaro il perché ti abbiano assegnato proprio a me, dato che di solito non mi usano mai per queste attività. È che non mi considerano molto adatto a insegnare, sai. Dicono che non sono bravo a spiegare.»

«Oh, sono certo che non avrò problemi con lei, non si preoccupi.»

«Beh, beh, ma non è questo il punto. Dicevo, se stai studiando i giganti gassosi di Madre, allora è ovvio che ti abbiano assegnato proprio a me, perché anche io sono molto interessato all’argomento. Li ho studiati più volte e sono quasi convinto anch’io che abbiano qualcosa di insolito nella loro struttura, ma purtroppo i dati che ci è concesso utilizzare sono semplicemente scadenti, per qualità e quantità, ed è indubbio che il vostro Ufficio per la Colonizzazione trattenga per sé i più interessanti, lasciando agli altri centri soltanto il materiale di scarto, per evitare di essere superato. Non che non succedano cose simili anche altrove, per carità: la scienza è sempre un luogo litigioso, sai, come è sempre in caso per tutte le attività umane. Gelosie, dispetti, le solite cose. È un mondo in cui ti devi tenere stretti i tuoi risultati, prima che qualcuno te li rubi.»

«Magari fosse solo questo il problema,» aveva brontolato Bogdan. «È che proprio là non sembrano più interessati alla ricerca, ma solo a occupare la poltrona. Scommetto che trattengono il meglio, per evitare che qualche altro dipartimento possa fare scoperte che loro non hanno più voglia di fare. Se non lo scopro io, non lo scoprirà nessuno, sa com’è. E visto che loro non scoprono, nessun altro scopre e i dati restano ad ammuffire chissà dove.»

«Forse è così, forse è così. Comunque, adesso che sei arrivato tu e hai un progetto di ricerca che in molti casi richiama una mia vecchia ipotesi, sono certo che potremo fare un ottimo lavoro assieme. Se poi hai anche dati migliori dei miei, come è probabile visto che provieni proprio dall’Ufficio per la Colonizzazione, allora lo studio dei giganti gassosi potrà fare passi da gigante, se mi permetti la battuta. Speriamo solo che non siano passi gassosi, però! Ehehe! A ogni modo, direi che si potrebbe cominciare domani stesso a testare i nuovi modelli di filtro, che te ne pare?»

A Bogdan era parsa una idea fantastica, anche se avrebbe preferito cominciare il giorno stesso. Si era sentito un bambino alla vigilia di Natale, ma un bambino che avrebbe preferito ricevere subito i regali e tagliare tutta la palla di aspettare il mattino seguente e scartarli. Il che, in effetti, era molto simile a come si era comportato davvero, quando era un bambino. Quella notte non c’era stato molto sonno per lui, nella sua stanza al settimo livello sotterraneo.

Il giorno seguente li avevano testati. E anche il successivo. E lo stesso il terzo giorno. Soltanto dopo il decimo si fermarono e cominciarono a raccogliere e catalogare tutto quanto avevano ricavato dal felice matrimonio tra i nuovi filtri e i dati che Bogdan si era portato da casa. Oppure dall’Ufficio, a seconda dei punti di vista. Risultati interessanti. Promettenti. Risultati che Bogdan sapeva di dovere comunicare al suo controllore, quello Hideki Einarsson rintanato da qualche parte nell’ambasciata terrestre giù in città, ma al momento voleva soltanto guardarli e coccolarli, in pace, per una volta assieme a un superiore che non solo non lo accusava di essere ignorante, ma condivideva lo stesso entusiasmo e la stessa sorpresa. Un superiore che lo appoggiava e lo aiutava.

Perché non si era sbagliato nella prima analisi. O almeno, se proprio si era sbagliato, allora stava continuando a sbagliare anche adesso e assieme a lui sbagliava anche Muzafar Chang e sbagliavano i nuovi modelli dei filtri Chen-Cohimbra. Il che sarebbe stato anche possibile, in teoria, perché quei nuovi modelli erano sperimentali e non ancora testati a sufficienza per entrare in commercio, ma i modelli un poco più vecchi e garantiti avevano dato gli stessi risultati, il che poteva quasi escludere problemi agli strumenti. I modelli meno recenti non avevano dato risultati così precisi e definiti, ma la sostanza non cambiava, se sapevi interpretare il responso di quell’oracolo sui generis e alquanto virtuale.

E il risultato era che al centro dei due giganti gassosi si trovava una struttura a base carbonio. Quasi sicuramente organica, almeno come origine. Se fosse tuttora organica era un altro paio di maniche e avrebbe richiesto studi di natura diversa, ma la struttura era stata organica, almeno all’inizio. Solo la ipotesi di una origine organica avrebbe potuto spiegare la configurazione e la composizione che si poteva dedurre dalle analisi indirette. Se soltanto ci fosse stato un modo semplice per raggiungere il cuore di uno dei giganti e analizzarne il nucleo anche con metodi diretti, guardarlo a occhio nudo o quasi… Ma se c’era, Bogdan non lo conosceva.

«Ed è più grande nel gigante Alpha, il più vicino al sole, nonostante il gigante Beta abbia una massa e un volume maggiore,» osservò Muzafar, in apparenza incapace di scollarsi dagli schermi. «È più preciso del risultato che avevi ottenuto sulla Terra e presentato nel tuo studio ma sì, avevi ragione. Avevi davvero ragione e seriamente, se non lo stessi vedendo coi miei occhi, farei fatica a crederlo. Faccio fatica anche così, lo confesso. Sì, non me la sento di biasimare chi non ti ha preso sul serio, all’Ufficio. È una struttura organica. Il nucleo di quei due giganti gassosi è organico. O lo era, lo è stato a un certo punto. Come è possibile? Come ha fatto a formarsi?»

«Non ne ho la minima idea,» rispose Bogdan, sforzandosi di ritornare ad assumere una espressione seria, cancellando il sorriso da zucca di Halloween che gli spalancava la faccia, adesso che un altro studioso aveva finalmente riconosciuto la sua scoperta. «Non riesco neppure a immaginare come si sia potuta formare, o anche come abbia potuto resistere integra sotto una pressione simile. Anche al centro di un pianeta roccioso la pressione sarebbe eccessiva e renderebbe impossibile l’esistenza di quella struttura, ma se parliamo del centro di un gigante gassoso allora...» E scosse la testa, senza perdere il sorriso. Ci sarebbero volute diverse ore di tortura per farglielo perdere, al momento.

«Che ci siano formazioni a base carbonio non è strano, perché sono stati localizzati già altri giganti gassosi con un nucleo di diamante, ma quello è diamante e il diamante non è organico! Non è mia stato organico in nessun momento, il diamante. Questi due pianeti, invece...» E gesticolò verso gli schermi, non sapendo come concludere la frase.

«Lo so, lo so, ed è proprio per questo che dobbiamo studiarli! È quello che avrei voluto fare anche all’Ufficio, ma quella capra di Vihersalo non mi ha voluto neanche ascoltare. Per questo sono stato costretto a venire qui, capisce? Ma adesso potrò finalmente dedicarmi a un lavoro serio, giusto?»

«Non dovresti parlare così male del professor Vihersalo,» disse Muzafar senza impegno, gli occhi sempre fissati sugli schermi. «Comunque sì, ovvio che ci dedicheremo a questo. È una scoperta di importanza... ah, non so nemmeno io come definirla, ma è storica, storica! Avrai tutto il mio aiuto, figuriamoci, ci lavoreremo assieme ogni giorno. Farei di tutto per poter aggiungere il mio nome a questa scoperta, ci puoi giurare. È uno di quei colpi che vale una carriera intera.»

Bogdan non giurò, ma capiva perfettamente il sentimento. Capiva ancora meglio l’ambizione, che era sorella germana della sua. Un colpo che vale una carriera intera, altroché! E lui aveva arpionato il pesciolone proprio all’inizio della sua carriera, alla prima ricerca che avesse svolto. Se non era un segno che il cielo stava dalla sua parte, cosa altro sarebbe potuto essere?

Un argomento per la prima relazione da inviare a Einarsson, tanto per cominciare. La sistemò con poca voglia e tanta fretta, mentre era ancora nel loculo personale che gli aveva assegnato e che non riusciva a non vedere come uno sgabuzzino per le scope. Più che adatto per compilare un messaggio diretto al suo controllore, dopotutto. Risolto il fastidio, il trionfo del giorno divenne finalmente una vanteria da condividere con gli amici. O i facenti funzione di. Non aveva ancora potuto conoscere molte persone, da quando era arrivato, né in fondo aveva voglia di conoscerne molte: era venuto sul pianeta per continuare le proprie ricerche, non per fare salotto o costruire complesse reti di rapporti interpersonali, lui.

Quella sera trovò come al solito Anna Lindtner che lo attendeva, nella bulimica stanza col tetto a cupola che fungeva da area di ristoro, su al primo piano. Le lunghe vetrate offrivano da un lato una pregevole vista sulla città e dall’altro si aprivano sulla campagna che la costeggiava: luce da una parte e dalla parte opposta... ancora luce, ok, ma più tenue. Rifacciamo: luce artificiale e artificiosa sul lato della città e luce naturale sul lato opposto, Perché la sera, in quel periodo dell’anno, aveva forse sentito parlare di buio, tenebra e oscurità, ma si era anche rifiutata di avervi qualcosa a che fare. Un sereno plenilunio terrestre sarebbe stato cupo, a confronto del paesaggio svarghiano in quel periodo del giorno che, almeno a rigore di orario, era spacciato per sera.

«Ti sono andati bene i lavori?» chiese Anna, mentre lui le si sedeva di fronte, posando il vassoio in cui erano raccolte pietanze che, secondo il metro svarghiano, sarebbero dovute essere prelibate. Per Bogdan erano a malapena commestibili, ma era consapevole di avere gusti particolare e di essere un poco schizzinoso («Non ti va mai bene niente,» gli diceva sua madre, e forse non aveva poi torto), per cui aveva scelto di astenersi dai commenti e vivere i pasti come una mera pratica da sistemare. Il cibo doveva solo fornire energia al corpo, non era necessario che fosse buono. Il cibo di Svarga, poi, non faceva neppure uno sforzo per esserlo, a suo modesto parere.

«Abbastanza bene, direi. Finalmente ho trovato un collega che mi prende sul serio, invece di ridere, anche se mi toccherà controllare che non mi freghi la scoperta, adesso. Stava praticamente sbavando sui dati che gli ho consegnato, ti giuro.»

«Cominci già a lamentarti in senso opposto? Non ti va proprio mai bene niente, eh?»

«Non era una lamentela, ma una constatazione. Comunque, meglio avere problemi come questo che sentirti dire che non sei abbastanza scientifico, che dovresti avere un approccio più scientifico o quello che era, non ricordo alla lettera i deliri del vecchio caprone.»

«Allora, cosa hai scoperto di nuovo?»

Bogdan glielo spiegò. Approfonditamente. Dettaglio per dettaglio. Con un tono che avrebbe indotto chiunque a smascellarsi dagli sbadigli. Chiunque non fosse un planetologo interessato allo studio dei giganti gassosi, perlomeno. Anna non lo era, il suo campo erano i pianeti rocciosi della fascia più interna dei sistemi solari, ma poteva capire l’entusiasmo del collega, o almeno sapeva fingere di capire l’entusiasmo del collega, e lo lasciò parlare a ruota libera, aggiungendo di tanto in tanto le domande più opportune, sia per dimostrare che lo stava davvero ascoltando, sia per premettergli di raccontare quello che voleva raccontare a tutti i costi e raccontarlo nel modo più indolore possibile.

«E così la tua fantomatica struttura organica non è fantomatica ma reale, almeno secondo il parere del tuo tutore, questo... come hai detto che si chiama?»

«Muzafar Chang.»

«Muzafar Chang, giusto. Non so quanto ci metterò ad abituarmi a questi nomi, davvero. Quando ero su Rudra, ai tempi dell’università, mi ci è voluto tutto il primo anno solo per capire i nomi e non far troppe brutte figure a pronunciarli, guarda. E adesso devo ricominciare da capo, qui.»

«Comunque sì, la struttura è reale. Organica, pure. Coi nuovi filtri che stanno sperimentando si può vedere anche meglio, è quasi come essere lì. Ok, non proprio come essere lì, d’accordo, non c’è la pressione che ti spiaccica in una frazione di secondo, ma l’idea è quella, hai capito, no?»

«Capito, capito. Quindi avevi ragione tu. Hai già pensato alla cartolina da spedire a Vihersalo? O gli manderai un bel pacco regalo, per commemorare l’evento?»

Bogdan sorrise. «No, non ci stavo neppure pensando, a dire il vero, però qualche sorpresa gliela potrei anche fare, perché no? Penso che lo ricorderò con molto affetto nella prima intervista che mi faranno, ringraziandolo di cuore per avermi costretto a fuggire dalla sua incompetenza.»

«Ricorda che è pur sempre l’Ufficio a pagarti lo stipendio, che ti piaccia o no. Anche i dati che usi provengono da loro. Ti sconsiglio di fare troppe polemiche col personale, se puoi. Sono vecchi, lo sai, e molto permalosi.»

«Lo so, lo so, ma qualche soddisfazione me la dovrò pure togliere, no?»

«Va bene, così te la sei tolta. E adesso cosa farete? Continuerete a guardare coi vostri filtri? Perché non credo che potrete ricavarne molto, anche continuando a cambiarli e migliorarli.»

«Per un poco continueremo così. Voglio accumulare tutte le informazioni che posso, prepararci la più completa delle tesi, assicurarmi che niente di quanto dirò sarà attaccabile o smontabile da altri e poi, alla fine, la presenterò pubblicamente. Voglio vedere se a quel punto qualcuno oserà impedirmi ancora uno studio diretto e approfondito dei giganti gassosi.»

«Renderlo pubblico senza passare dall’Ufficio?»

«Renderlo pubblico senza passare dall’Ufficio, perché no? Loro per primi hanno rifiutato tutte le mie ipotesi, non vedo perché adesso dovrebbero metterci il becco.»

Perché avrebbero dovuto metterci il becco lo avrebbe visto soltanto il mattino seguente, dopo avere smaltito la temporanea sbornia da successo e soddisfazione. Lo avrebbe visto ancora meglio dopo la risposta ricevuta da Einarsson, che gli ricordava il dialogo col ministro Hass e le responsabilità che Bogdan aveva nei confronti di quell’improbabile e sorprendente sponsor. Ma il mattino dopo era il mattino dopo, appunto, mentre quella sera era quella sera. Quella sera dominava solo l’ebbrezza da trionfo e la fredda razionalità doveva sedere in tribuna e guardare lo spettacolo.

La fredda razionalità vide così Bogdan che si gloriava con Anna Lindtner, per poi dirigersi verso un gruppetto di altri planetologi che fino a quel momento aveva soltanto incrociato un paio di volte in mensa o lungo i corridoi, attaccare discorso anche con loro, offrire da bere a tutti e proseguire da un bicchiere all’altro, di bevuta in bevuta, fino a che due assistenti robusti non lo riaccompagnarono in stanza, sorreggendolo e orientandolo nella direzione giusta.

Il mattino seguente, come si diceva, la risposta di Hideki Einarsson lo aiutò a tornare alla ragione e alla calma. Lo aiutò anche a smaltire in fretta ogni possibile postumo della serata precedente. Non era una risposta minacciosa o inquietante, anzi: era amichevole, si complimentava per i risultati che aveva già ottenuto e lo incitava a proseguire, auspicando successi anche maggiori. Solo, alla fine, si riservava il diritto di fargli pervenire il parere del ministro, una volta informato, e lo invitava a non diffondere troppo la notizia, in via del tutto precauzionale. Leonardi aveva una fissazione maniacale per Madre e tutto ciò che orbitava nei paraggi: fare circolare voci su anomalie inquietanti al centro dei due giganti gassosi, ad esempio, non avrebbe certo fatto felice il vecchione. E un Leonardi non felice era un Leonardi propenso a condividere la suddetta infelicità con chiunque gli capitasse a tiro e con molti di quelli che non gli capitavano a tiro. A partire dalla causa della infelicità.

Un po’ tardi, pensò Bogdan, guardando la stanzetta vuota e priva di finestre. Era possibile che non lo sapessero già tutti, almeno tra i planetologi della fondazione, ma era una possibilità su cui non si sarebbe mai giocato la pensione. Non ricordava bene i dettagli della serata precedente, ma sapeva di averne parlato più o meno con chiunque avesse visto in mensa e poi in quella specie di bar annesso all’area ricreativa. Ne aveva parlato più o meno con tutti, insomma, e a volume non proprio basso. Gli mancava solo una videoconferenza interplanetaria, per completare la sua opera di diffusione e distribuzione della notizia. Grande riservatezza, niente da dire.

Bogdan rifletté ancora un poco sul messaggio di Einarsson, poi lo eliminò. E che cazzo! Avrà pure diritto a togliersi qualche soddisfazione nella vita, no? Aveva già dovuto passare anni su Lakshmi a guardarsi attorno ed evitare ogni azione strana o insolita, che potesse attirare la curiosità malata dei guardoni perenni che vi abitavano; all’Ufficio gli avevano bocciato la ricerca e lo avevano messo in castigo, perché aveva osato usare filtri non approvati dal grande capo Vihersalo, sempre sia lordato il suo nome. Adesso che era in un posto quasi libero, almeno in apparenza, e che non solo qualcuno lo ascoltava, ma lo prendeva anche sul serio, poteva almeno concedersi il lusso di essere contento, senza doversi guardare di continuo alle spalle, giusto? Secondo il suo modesto parere, la risposta era sì. Vantarsi dei propri successi era un diritto inalienabile di ogni essere umano.

Così, mentre si preparava per una nuova giornata di lavoro (ah, lavoro! Che bella attività, quando ti concede qualche soddisfazione), Bogdan Stratos decise che sì, nel messaggio di Einarsson c’era una punta di verità: sarebbe stato imprudente parlare troppo dei giganti gassosi, senza aver prima sentito il parere del suo sponsor. Dopotutto, aveva un qualche tipo di debito verso il ministro Hass, che gli aveva pur sempre permesso di venire a studiare lì. Quindi non ne avrebbe parlato troppo, d’ora in poi. Concedendosi però il privilegio di determinare l’esatta quantità indicata dall’avverbio “troppo”.

Hideki Einarsson era moderatamente soddisfatto. Il viaggio su Svarga non era mai rientrato nei suoi propositi, ma succedeva di rado che gli incarichi ricevuti da Hass rientrassero tra i suoi propositi. Di norma, erano una sorpresa e lui li riceveva e li viveva proprio come una sorpresa. A volte bella, altre volte brutta, ma sempre una sorpresa. In quel caso specifico, pareva che dovesse essere bella.

Dormire sottoterra non rientrava tra le sue attività preferite, ma all’ambasciata di Guan Yu, capitale di Svarga, gli avevano almeno concesso un alloggio non troppo sepolto, adatto al suo ruolo ufficiale di attaché dell’ambasciata. Il suo ruolo non ufficiale di spia inviata dal ministro della Difesa era un discorso diverso e gli avrebbe permesso di ottenere stanze molto più in basso, se proprio lo avesse voluto. Hideki non lo voleva. Più in alto stava e meglio era. E il cibo di Svarga non era male, tutto considerato. Non era neanche bene, d’accordo, ma batteva qualsiasi mensa militare in cui gli fosse mai capitato di dover mangiare negli anni di servizio.

Se era soddisfatto della sistemazione, poteva esserlo anche del lavoro. Quello Stratos aveva le sue bizze e le classiche mattane da scienziato, almeno secondo il preconcetto che Hideki possedeva su scienziati e affini, ma nel complesso non era un tipo pericoloso. Stupido sì, ma non pericoloso. Non intenzionalmente pericoloso, se non altro, ma sarebbe stato opportuno controllare che non potesse diventarlo senza accorgersene. La relazione che gli aveva inviato, ad esempio...

Hideki Einarsson l’aveva letta tre volte: una subito dopo la ricezione, una prima di andare a dormire e una terza quella mattina, appena svegliato. Non era cambiata molto. Aveva sperato, ma con poche speranze, che gli sarebbe diventata più chiara, lasciandola sedimentare e dormendoci sopra, ma non era successo. Ne aveva capito il contenuto in termini generali, aveva più o meno una idea di dove si volesse arrivare con gli studi di cui parlava, ma per le specifiche era meglio passare la mano ad altri. Il che, dopotutto, descriveva esattamente il suo lavoro: raccogliere dati qui e trasmetterli alla base, dove sarebbero stati convertiti in informazioni. Che lui capisse quei dati non era necessario.

Così aveva fatto, inoltrando la relazione al Ministro o, per essere più precisi, passandola a Hutch Feleke, l’addetto alle comunicazioni dell’ambasciata che gli avevano indicato come referente per i messaggi verso il Ministro. Un ometto basso, scuro, con la faccia tranquilla, che aveva ricevuto e si era messo al lavoro in silenzio, non una parola, non una domanda. Evidentemente sapeva già cosa fare, il che era più che logico nel suo campo. E adesso la relazione doveva essere già crittografata e in viaggio verso la Terra. Fino al prossimo messaggio da Stratos, o fino alla risposta dal Ministro, per lui non ci sarebbe stato nulla da fare. Ottimo.

Quel mattino si concesse una passeggiata per le vie della capitale, in apparenza per puro svago e per passare il tempo, in realtà per mantenersi in esercizio e osservare l’ambiente. Non erano mai troppe le informazioni che potevi raccogliere dall’ambiente in cui ti trovavi: se proprio ti ritrovavi con una dose di tempo da perdere, era meglio perderlo guardandosi attorno, studiando e osservando, invece di oziare in una stanza sotterranea. Soprattutto perché era sotterranea.

E Svarga era un posto curioso. Erano curiosi gli insetti, soprattutto. Con gli altri, all’arrivo, aveva dichiarato di saperne poco, perché quello non era il suo compito: non era il suo campo, lui era solo un funzionario di ambasciata, non un entomologo o uno exologo, eccetera eccetera. E non aveva mentito troppo, in fondo. Vero, il suo ruolo non era proprio quello di funzionario di ambasciata, ma degli insetti non sapeva molto. Un poco sì, ma non quanto avrebbe voluto saperne.

Non quanto avrebbe dovuto saperne? Forse, perché no? Possibile, quantomeno. Proprio per questo sarebbe stata una buona idea documentarsi un poco di più in proposito, finché era lì e finché non gli arrivava altro lavoro da svolgere. Lavoro retribuito, a voler essere più precisi.

Durante i primi giorni a Guan Yu aveva osservato con molta attenzione quelle strane strutture che si potevano vedere più o meno ovunque, attaccate alle pareti degli edifici, nei parchi, sui tronchi degli alberi, sui pali, insegne, dove c’era spazio a sufficienza per inserirne una. Strutture destinate agli insetti, dicevano. Strutture abitative per insetti, in gran parte. Come le arnie usate dagli apicoltori, o quei rifugi artificiali costruiti per pipistrelli e altro, ha presente?

Hideki aveva presente, ma non era convinto. Valeva davvero la pena lavorare così tanto per qualche insetto? Sì, d’accordo, sapeva che gli insetti di Svarga erano considerati intelligenti, secondo alcuni avevano anche formato qualcosa di molto simile a una civiltà, ma erano pur sempre insetti, no? Ci doveva essere un qualche motivo, se Svarga dedicava tempo ed energie a loro. E non solo strutture abitative: c’erano porzioni di strade e marciapiedi riservate a loro, una sorta di pista insettabile, se si poteva dire così. Il che era piuttosto curioso, per un pianeta come Svarga. Presupponeva una valida ragione per farlo, un motivo che non si limitasse al puro interesse accademico o al nobile desiderio di tutelare un ambiente che aveva già allegramente antropizzato in ogni modo possibile.

L’ipotesi di Hideki Einarsson era che il governo svarghiano avesse trovato un sistema per utilizzare gli insetti. O lo stesse cercando e avesse almeno buone prospettive di trovarlo. Se gli insetti erano così intelligenti, allora dovevano anche essere capaci di svolgere lavori. Attività. Incarichi. Magari non tutti i tipi di insetti, ma alcuni sì. E poi gli insetti erano ovunque, spesso ignorati, spetto neppure notati dagli umani. Quelli più grandi no, eri costretto a vederli ed evitarli, ma gli altri? Quelli piccoli e mimetici? Neanche sapevi che ci fossero. Se fosse stato possibile comunicare con loro, in modi a lui ignoti, cosa si sarebbe potuto ottenere? Quanto si sarebbe potuto ottenere?

Sulla facciata dell’ambasciata terrestre a Guan Yu, per esempio, c’era un tipo di figura geometrica che poteva essere stata pensata da Escher dopo una notte di colite. Da una certa prospettiva poteva ricordare un alveare, ma solo se alle api era successo qualcosa di molto brutto e avevano deciso che la profondità non era poi così importante e si poteva vivere benissimo anche strisciando dentro una casa che aveva più o meno lo spessore di una sogliola. Non era brutta, nel complesso, e la si poteva spacciare per una qualche opera d’arte espressionista, surrealista, o robasimilista. La potevi vedere anche su altri edifici, in giro per la città, e dopo un poco non la notavi più, diventava una parte del brusio di sottofondo, così comune nella società umana. Brusio visivo, ok, ma pur sempre brusio.

Se però ti fermavi a notarla, magari per un periodo piuttosto lungo, allora potevi anche vedere ogni tanto qualche insetti che ne entrava e ne usciva. Insetti molto piccoli, poco più grandi di moscerini terrestri, ma nel modo in cui volavano sapevano trasmettere una forte sensazione di scopo: come se avessero qualcosa in testa (o nella pancia, o dovunque fosse collocato il loro cervello rudimentale) e pensassero solo a quello, senza disperdere tempo ed energie svolazzando a casaccio o sbattendo alla cieca contro finestre e bordi delle aperture. Ce n’erano tanti. Sciamavano dentro e fuori da quelle strutture. E avevano colori diversi.

Hideki aveva contato cinque tonalità, nel corso di quai un’ora di osservazione, ma non aveva idea se il colore avesse un qualche significato oppure no. Poteva rappresentare il grado dell’insetto, oppure il suo ruolo all’interno della società, o anche essere solo un modo per attirare l’attenzione. Però era quasi sicuro di aver notato uno schema nei loro movimenti, nel modo in cui i colori si distribuivano e gli insetti sembravano agire. Poteva esserci un senso, sì. Non aveva la minima idea di che senso potesse essere, ma era moderatamente sicuro che ce ne fosse uno.

Poteva anche essere il tarlo di base della mente umana, sempre pronta a vedere schemi, modelli, temi, motivi in tutto ciò che la circonda, notare le ripetizioni e i ritmi, interpretarli alla luce di uno scopo o un senso, che raramente esiste al di fuori della mente che lo concepisce. Possibile. Per quel che ne sapeva Hideki Einarsson, era addirittura probabile, ma preferiva avere un approccio un poco più positivo e ottimista alla questione. Più possibilista, anche, almeno fino a che non fosse riuscito a eliminare tutti gli errori e restare solo con la spiegazione giusta. Ipotizziamo dunque che gli insetti fossero realmente intelligenti e fossero anche consapevoli delle proprie azioni. Poteva diventare molto utili, in quel caso. Estremamente utili.

E se Svarga stava studiando l’impiego degli insetti per scopi militari? Anche solo di spionaggio, se proprio non si voleva pensare a guerre batteriologiche o affini. Era una ipotesi che aveva sentito più di una volta, sulla Terra, e sembrava avere un seguito modesto nel ministero della Difesa. Lui aveva riso, ai tempi, ma adesso che era su Svarga e poteva vedere coi propri occhi questi famosi insetti, e vedere come gli svarghiani sembrassero coccolarli, quella ipotesi sembrava sempre meno ridicola e sempre più seria. Che ci fosse qualcosa di vero, dopotutto?

Alcuni avevano già indagato, ma senza ricavarne qualcosa. Ma quegli alcuni non erano lui, chiaro. E lui adesso era su Svarga, bloccato nella capitale, a fare da chioccia a un planetologo arrogante e un poco fastidioso. Un planetologo che avrebbe speso un anno o due sigillato in un edificio, senza vedere mai la luce del sole se non attraverso i filtri alle finestre o gli schermi di qualche strumento. In breve, aveva tempo in abbondanza per dedicarsi a interessi personali, o ricerche extra. Perché non usarlo per raccogliere informazioni sugli insetti e sul modo in cui erano usati da Svarga?

Così avrebbe fatto. Come funzionario di ambasciata aveva abbastanza libertà di azione e una sua improvvisa curiosità verso gli insetti non sarebbe sembrata strana. Dopotutto erano di fatto la prima attrazione di Svarga, almeno da un certo punto di vista; che un nuovo arrivato decidesse di studiarli da dilettante, così per passare il tempo, era piuttosto normale e comprensibile. Anzi, era possibile che lo avrebbero anche aiutato, almeno finché si manteneva sulle normali curiosità da civile.

Hideki si sarebbe mantenuto sulle normali curiosità da civile, almeno all’inizio. Poi... Ma il poi non dipendeva da lui, ma da ciò che avrebbe scoperto. Ammesso e non concesso che avrebbe scoperto qualcosa.