Adriano - racconti e altro

AL LETTORE

Son cinquanta fiabe o novelline popolari, che io qui presento a due specie di lettori: ai fanciulli come piacevole lettura, e a certi dotti che son sicuri di trovare in esse ben altro che cosa frivola e inutile. Ai molti, i quali al solo nome di fiabe sorridono in aria quasi di compassione, io non so che dire. Quando proprio di fiabe si son fatti pazienti raccoglitori, per dire solo dell’Italia, uomini come un Pitrè, un Comparetti e un Imbriani, a che serve una mia difesa? Per quelli dunque che leggeranno queste novelline mantovane con benigni intendimenti, bisogna che io dica come le raccolsi.

Ero in Mantova da qualche anno, quando a caso mi venne udita una fiaba da un ragazzetto, a cui l’aveva contata la nonna. Rimasi colpito perchè in essa io trovavo non lontane somiglianza con altre da me lette in raccolte straniere. Tosto, senza perder tempo, con un certo entusiasmo – lo devo confessare – col mezzo specialmente de’ miei giovani scolari, ne raccolsi un duecento circa da tutte le parti della provincia mantovana. Quando m’ebbi innanzi tutta la ricca suppellettile, mi posi a ordinarla, perchè, se io avessi pensato a pubblicarla quale la ebbi, il lettore, caso mai ne avessi avuto alcuno, avrebbe dovuto succhiarsi in santa pace mille noiose ripetizioni. Che ho fatto adunque? Delle duecento circa ho scelto quelle che mi parevano le meno imperfette e che contenevano la materia di tutte; poi le ho voltate, talvolta dal dialetto, nell’italiano, che qui si legge, che, se non altro, è tutto d’un colore. Io non intendo con questo di presentare al pubblico l’intero fabulatorio mantovano – mi si permetta il vocabolo -; pure quasi per intero sì; perchè, messomi poi ad ascoltarne io pure dalle vecchiette illetterate specialmente, mi sono accorto che già, poco su poco giù, si veniva sempre a cadere nelle mie cinquanta. Pochissime variazioni, pochissimi nuovi incidenti io trovavo, per cui potei smettere con la certezza che quasi tutte le fiabe sapute dal popolo mantovano io già le possedevo. Non parlo degli intrecci, perchè qui ci sarebbe stato da non finirla più; tanto che avrei potuto continuare e mesi ed anni, chè in ogni nuova fiaba c’era di sicuro qualcosa di un’altra già prima udita. Chi si è occupato di queste curiose raccolte lo sa meglio di me che è un inviluppo interminabile: l’una si caccia nell’altra come gli anelli di una catena; onde mi è spesso balenato alla mente il pensiero di comporre da quella farraggine di novelline una specie di fiaba continuata, della quale intravedo i segreti legami, ma per la quale mi manca il tempo e fors’anco la pazienza. E poi chi terrebbe di conto di questa mia fatica? È anche troppo se troverò un qualche giovane lettore a queste fiabe tali e quali escono alla luce. A lui adunque a preferenza io mi volgo qui terminando, esortandolo a leggersele pure con tutta tranquillità d’animo, chè non troverà nulla di male in questi documenti della tradizione popolare; quasi sempre troverà un amore alla giustizia, un’aspirazione al meglio, una santa rassegnazione, che di rado appariscono in scritti meditati al lume della lucerna. Che se qualche volta salterà fuori il buonumore popolare, il ridicolo che rasenta il triviale, non si scandalizzi per questo; guardi più addentro sotto la scorza, e un po’ di morale sbucherà fuori sempre. Il popolo, lasciato a sè, non traviato dalle passioni altrui, conserva, se non altro, il buon senso, che talvolta si perde in mezzo alle più dotte elucubrazioni.

Isaia Visentini, Padova, febbraio 1879.