Adriano - racconti e altro

La leggenda della Morte

Capitolo XIII

L’Anaon

Il popolo immenso delle anime in pena si chiama Anaon1. Il pensiero dell’Anaon è associato a tutte le fasi della vita bretone. Perfino i pranzi di nozze si concludono con un De profundis.

Sull’isola di Sein, quando la sera del 31 dicembre i bambini vanno ad augurare di porta in porta un buon anno, in ogni casa si distribuisce a ognuno di loro una fetta di un dolce speciale, che è stato cotto alla vigilia per questa occasione, e i bambini, nel ricevere questi regali, devono dire come forma di ringraziamento: «Joa d’an Anaon! (Gioia alle Anime!)»

Questa è anche la formula corrente per prendere congedo, quando si esce da una casa. Qualche volta la si riformula in questi termini: «Bennoz Doue war gement hini a zo êl da Anaon deuz an li-me. (La benedizione di Dio [sia] su tutti quelli che sono diventanti degli Anaon tra gli ospiti di questa casa.)»

***

Quando non si ha più bisogno di usare un tripode, è male dimenticarselo sul fuoco.

Pa chomm ann trebe war ann tân,
Ann Anaon paour a ve ne poan
.

Quando resta il tripode sul fuoco,
Le povere anime sono in pena.

Se il tripode resta sul fuoco quando non se ne ha più bisogno, bisogna avere cura di sistemarvi al di sopra un tizzone acceso, per avvertire i morti che volessero sedersi2 che il tripode è ancora bollente. I morti hanno sempre freddo e cercano costantemente di intrufolarsi fino al focolare, dove si siedono sul primo oggetto che trovano. È importante evitare loro sviste dolorose3.

***

Non va bene spazzare la casa dopo il tramonto del sole. Si rischierebbe di spazzare, assieme alla polvere, le anime dei morti che, a quell’ora, ottengono spesso il permesso di rientrare nei propri antichi alloggi4. Soprattutto, se il vento fa rientrare la polvere, bisogna guardarsi bene dal gettarla fuori una seconda volta.

Le persone che vengono meno a questa prescrizione non possono dormire senza essere svegliate di soprassalto, in ogni momento, dalle anime defunte.

Quando si spazza di sera, si scaccia la Santa Vergine che fa il suo giro per sapere in quali case può lasciar rientrare le sue anime predilette.

(Raccontato da Villiers di Ile-Adam, vicario parrocchiale di Ploumilliau, Côtes-du-Nord.)

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Va bene lasciare un poco di fuoco a covare sotto la cenere, nel caso in cui il morto voglia tornare a scaldarsi presso il focolare della sua antica dimora.

Finché è giorno, la terra appartiene ai vivi; giunta la sera, appartiene alle anime defunte5. La gente perbene si assicura di dormire, con tutte le porte chiuse, all’ora in cui tornano gli spettri. Non bisogna mai rimanere all’esterno, senza una necessità, dopo il tramonto del sole. Le ore particolarmente insidiose sono tra le dieci di sera e le due del mattino6.

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Non bisogna mai uscire soli, di notte, durante le ore indebite, per cercare un prete, un medico o una levatrice, ma non bisogna neppure essere più di due7.

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Non va bene fischiettare8 quando si è fuori, di notte, perché si rischia di attirare il risentimento dell’Anaon.

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Quando si sta per superare una scarpata divisoria su cui crescono ginestroni, bisogna avere cura prima di tutto di fare qualche rumore, per esempio tossendo, per avvertire le anime che potrebbero fare penitenza lì e dare loro il tempo di allontanarsi. Prima di cominciare a mietere un campo di grano, bisogna dire: «Se l’Anaon è là, pace all’anima sua!»

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Il signor Dollo9 passeggiava un giorno in campagna, in compagnia di un signore del paese. Il sentiero che stavano percorrendo era costeggiato da una doppia fila di ginestroni10. Il signore, mentre camminava, si divertiva a cimare a colpi di bastone i rametti che superavano gli altri. Il venerabile Dollo gli afferrò bruscamente il braccio e gli disse: «Interrompete questo gioco! Sappiate che migliaia di anime espiano il proprio purgatorio in mezzo ai ginestroni e che voi le disturbate durante la loro penitenza...»

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Quando, camminando in tempo di pioggia, vedete sulla strada fangosa delle zone asciutte, siate sicuri che là ci sono degli anaon che fanno penitenza.

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Così ammassate come i fili d’erba nei campi, o le gocce di pioggia in un acquazzone, sono le anime che espiano sulla terra il proprio purgatorio11.

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Tutte le volte che si nomina un defunto, se non si vuole incorrere nella sua ira, bisogna sempre far seguire al suo nome la formula sacramentale: «Doué d’he bardono! (Dio lo perdoni)12»

Chi una volta aveva accorciato le proprie preghiere del mattino o della sera ed era andato al lavoro o a letto senza prendersi il tempo di dire l’Amen finale, vaga per le strade abbandonate mormorando dei paternostri. Arrivato all’ultima frase, si interrompe di colpo e non riesce mai a trovare la parola che conclude la preghiera.

Per esempio, li si sente ripetere disperatamente: «Sed libera nos a malo! Sed libera nos a malo!» Saranno liberati soltanto il giorno in cui qualche vivente avrà abbastanza coraggio e presenza di spirito da rispondere loro: «Amen!» Basta anche che un passante, che sta recitando le sue preghiere per strada, pronunci la parola che serve all’anima in pena, perché lei sia salvata.

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Certe anime sono condannate a fare penitenza fino a che una ghianda, raccolta il giorno della loro morte, sia diventata una quercia adatta per un qualche uso13.

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Questo fu il caso di Jouan Caïnec. Jouan Caïnec era stato però un uomo accorto, durante la propria vita, e lo era rimasto in parte anche dopo la morte. La ghianda, seminata il giorno della sua morte, aveva fatto appena in tempo a spuntare dalla terra che lui già tagliava il tenero virgulto e ne fabbricava un cavicchio per carro. Grazie a questo stratagemma, non dovette arrostire a lungo nelle fiamme.

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Ci sono molti campi che sono divisi in porzioni, chiamate in bretone tachennou. Queste porzioni, in genere, non sono divise che da cippi di granito piantati a ogni angolo. Ora, non mancano persone poco scrupolose che, dopo avere comprato o affittato uno di questi tachennou, vanno di notte a spostare le pietre di confine, per strappare un poco di terra dalla proprietà del vicino. Da qui vengono le dispute molto lunghe e su cui i tribunali sono sempre incapaci di pronunciarsi, perché non c’è mai stata alcuna misurazione preliminare e solo i cippi fanno legge.

Di solito, il vicino danneggiato non può fare altro che ricorrere alla giustizia di Dio. È dunque di fronte a questa che si cita in giudizio il colpevole, dicendo: «Possa la pietra che hai spostato pesare con tutto il suo peso sulla bilancia dei tuoi peccati, sulla soglia dell’altro mondo!»

Non è dunque raro incontrare di notte, nelle vie di campagna o nelle strade carreggiabili, delle persone piegate in due sotto il fardello di un pesante blocco di pietra, che fanno una fatica infinita a tenere in equilibrio sulla propria schiena. Si trascinano avanti a stento e con tono lamentevole ripetono a tutti i passanti che incrociano: «Pelec’h a lakin mé héman? (Dove poserò questo?)»

Sono gli Anaon di chi ha spostato un cippo, che Dio ha condannato a vagare così su questa terra, in cerca del punto preciso in cui era posta in precedenza la pietra di confine, senza poterlo ritrovare solo con le proprie forze.

Per liberarli, bisogna che qualche vivente abbia la presenza di spirito di rispondere loro: «Laket anezhan e lec’h ma oa. (Posalo dove si trovava prima)14.

(Pierre Le Goff. - Argol.)

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LXXVIII – I due amici

Due braccianti di aratura di Botsorhel, Pierre Le Cam e François Courtès, si amavano di un’amicizia così stretta che non avevano niente da nascondere l’uno all’altro e mettevano tutto in comune, le sofferenze così come le gioie. Erano dieci anni che vivevano così nella concordia più perfetta, senza che mai vi fosse stato il minimo disaccordo tra loro.

«Soltanto la morte è capace di dividerci,» dicevano loro. Si erano inoltre giurati che il primo che fosse morto sarebbe venuto, col permesso di Dio, a informare l’amico sulla propria sorte nell’altro mondo.

Fu Pierre Le Cam che l’Ankou colpì per primo: una febbre maligna se lo portò via, quando aveva appena raggiunto i venticinque anni. Courtés non abbandonò il suo capezzale durante tutta la malattia e non si allontanò dalla tomba se non quando lo spalatore ebbe finito di livellare la terra benedetta.

La notte successiva alla sepoltura, se ne andò a letto alla solita ora, ma non riuscì a dormire. I suoi pensieri erano troppo occupati dal voler sapere dove fosse il suo amico, cosa stesse facendo, e se non fosse troppo triste di aver abbandonato la schiera dei viventi. Un’altra ragione che gli impediva di abbandonarsi al sonno era l’attesa in cui si trovava di ricevere la visita del povero Pierre Le Cam, e per niente al mondo avrebbe voluto farsi trovare addormentato.

Mentre rimuginava su tutte queste cose, il cuore desolato, ecco che sente camminare sul terreno del cortile. Al solo rumore di passi, riconosce che è il suo amico a venire verso di lui. E quasi subito, in effetti, si apre la porta della scuderia, dove lui dormiva.

«Non mi sono sbagliato,» pensa lui.

Per quanto desideroso fosse di rivedere la persona che amava, non poté evitare di trasalire per un brivido, quando la voce che gli era cara domandò dall’oscurità: «Stai dormendo, François?»

Gli risponde con dolcezza: «No, Pierrik, non dormo. Ti aspettavo.»

«Bene, allora alzati e vieni con me.»

Courtès non si domandò neppure dove lo volesse condurre, ma si alzò subito; quando si fu rivestito, si diresse verso la porta e lì, sulla pietra della soglia, vide Le Cam in piedi, avvolto nel suo sudario. Mentre lui lo guardava in quel triste abbigliamento, con aria afflitta, Le Cam gli disse: «Ahimè! Sì, amico mio, questo sudario è ormai tutto ciò che possiedo.»

«E come stai tu, laggiù?»

«È proprio perché tu lo veda che io sono venuto a cercarti, perché ho il diritto di fartelo vedere coi tuoi occhi, se sei d’accordo, ma non ho il diritto di raccontartelo.»

«Andiamo, io sono pronto,» rispose François Courtès.

Il suo amico lo guidò rapidamente verso lo stagno del mulino di Goazwad, che si trovava a un quarto d’ora circa dalla fattoria. Quando furono arrivati al bordo dell’acqua, lo spettro disse al suo compagno: «Togliti i vestiti, inclusi gli zoccoli, e rimani completamente nudo.»

«Per fare cosa?» gli chiese l’altro, un poco preoccupato.

«Per entrare con me nello stagno.»

«Dici davvero? La notte è parecchio fredda, l’acqua è alta e io non so nuotare.»

«Stai tranquillo, non dovrai nuotare.»

«Del resto, dopotutto, accada quel che potrà accadere: sono deciso a seguirti. In qualunque posto tu mi condurrai, io ti seguirò.»

Nello stesso istante, il morto si precipitò nello stagno e il vivo vi entrò subito dopo di lui. Tutti e due affondarono, affondarono, fino a che i loro piedi ebbero toccato la sabbia. Le Cam teneva Courtès per la mano. Quest’ultimo era del tutto sorpreso di respirare sott’acqua con la stessa facilità con cui respirava all’aria aperta. Nonostante questo, però, tremava con tutte le sue membra e i suoi denti battevano così forte come ciottoli picchiati l’uno contro l’altro. Faceva un freddo terribile in quello stagno ghiacciato.

Dopo circa un’ora che si trovavano là, Courtès, che si sentiva intirizzito, si informò: «Devo restare qui ancora per molto?»

«Hai tanta fretta di separarti da me?» replicò l’altro.

«No, certo; sai bene che io non sono mai più felice di quando ci troviamo assieme... Ma fa un freddo terribile e soffro più di quanto io sia capace di dirlo.»

«D’accordo, allora triplica la tua sofferenza e avrai una vaga idea di quanto sia grande la mia.»

«Povero, caro Pierrik!»

«E nota ancora che tu la riduci con la tua presenza, e anche che tu abbrevi il mio periodo di penitenza condividendolo.»

«Allora resterò finché sarà necessario.»

«Quando suonerà l’Angelus del mattino, tu avrai la tua libertà.»

Suonò infine sull’orologio di Botsorhel quell’Angelus. Courtès si ritrovò sano e salvo nel posto dove aveva lasciato i suoi stracci.

«Addio!» gli disse il suo amico, di cui soltanto la testa emergeva dall’acqua. «Se ti senti il coraggio di ricominciare stasera, tu mi rivedrai.»

«Ti aspetterò come ieri,» rispose Courtès.

Andò così a raggiungere nei campi gli uomini della fattoria, tutto come se avesse trascorso la notte a dormire. Venuta sera, si coricò, ma ancora vestito, per essere più veloce a rispondere al richiamo del suo amico. Comparve alla stessa ora del giorno precedente e, come il giorno prima, tutti e due se ne andarono allo stagno. Là, le cose si svolsero nello stesso identico modo, a parte che le sofferenze del vivo furono due volte più crudeli.

«Il tuo coraggio arriverà fino al punto di ripeterlo ancora una volta? Una sola volta,» gli domandò il morto.

«A costo di morire, ti sarò fedele fino alla fine,» disse Courtès.

Quando giunse per mettersi al lavoro, il padrone della fattoria fu colpito nel vedere quanto fosse pallido e affaticato. «Questa brava persona,» pensò, «deve passare la notte al cimitero, sulla tomba dell’amico, la cui perdita lo rende inconsolabile.»

Si ripromise di spiarlo quella sera stessa. Lo spiò così fino a mezzanotte. Siccome la luna era chiara, vide allora lo spettro attraversare il cortile, aprire la porta della scuderia, entrarvi e poi uscirne assieme a François Courtès, e i due giovani, il vivo e il morto, s’incamminarono verso il mulino: lui scivolò nell’ombra della scarpata, sulle loro tracce. Una macchia di salici, che costeggiava lo stagno, gli permise di assistere al loro tuffo e di sentire le loro conversazioni subacquee.

«Oh! Non ne posso più! Non ne posso più!» gemeva Coutès.

L’altro non cessava di ripetere all’amico: «Coraggio! Coraggio!»

«No! Mi sento mancare. Non resisterò mai fino all’Angelus

«Sì, sì! Sii forte! Ancora due ore... Ancora un’ora e mezza... e grazie a te io sarò liberato! Pensa a questo! Le tue pene termineranno e tu mi avrai aperto le gioie del Cielo, dove tu stesso non tarderai a raggiungermi.»

Il fattore, dietro il suo salice, sudava per l’angoscia. Avrebbe desiderato fuggire, ma non osava fare un movimento. Alla fine, il firmamento si sbiancò: a Botsorhel suonò l’Angelus. Subito, dal fondo dello stagno risuonarono due forti grida: «François!» «Pierrik!»

E il fattore vide una specie di fumata che saliva al di sopra delle acque, per perdersi poi tra le nubi, mentre Courtès, estenuato, crollava quasi ai suoi piedi, sulla riva. Si affrettò a correre in suo aiuto, gli passò i suoi vestiti e, siccome non era in grado di camminare, lo portò in spalla fino alla fattoria, dove il povero ragazzo non fece in tempo che a ricevere l’estrema unzione, prima di rendere l’ultimo respiro15.

(Raccontato da Jean Dénès. - Guerlesquin.)

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I bambini morti senza battesimo vagano nell’aria sotto forma di uccelli. Emettono tenui grida lamentose, come un vagito. Li si scambia spesso per uccelli veri e propri, ma gli anziani non si lasciano ingannare. Attendono così, disseminati nello spazio, che giunga la fine del mondo. San Giovanni Battista, a quel punto, amministrerà loro il sacramento che è mancato loro, dopodiché voleranno dritti in cielo. Le sante, prima di entrare in Paradiso, possono passare dal limbo per vedere i bambini morti senza battesimo, soprattutto le sante che hanno molto pregato per le anime abbandonate16.

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Le anime dei capitani di vascello che sono stati brutali col proprio equipaggio, come capita fin troppo spesso, sono condannati a trascorrere nel corpo di un piccolo uccello di mare17, tutto nero, con zampe corte e palmate, che rema sulla cresta delle onde nei giorni di tempesta e che chiamano il satanite18. È un araldo della burrasca, come la procellaria. I marinai che si trovano al largo, quando lo vedono passare, dicono: «Sell, na welez kel c’hoaz ine eur c’habiten daonet o tond da glask affer diouzomp? (Guardate, non è di nuovo l’anima di un capitano dannato che viene a darci problemi?)»

(Philippe. - Paimpol.)

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Ce ne sono altre, tra le anime, che svolgono la propria penitenza sotto forma di una vacca o quella di un toro, a seconda del sesso che avevano avuto in vita. Le anime dei ricchi sono ammassate nei campi sterili, dove non spuntano che ciottoli e qualche erba magra. Le anime dei poveri trovano da pascolare in abbondanza in prati lussureggianti, dove non mancano né il trifoglio né l’erba medica. Non sono separate le une dalle altre se non da un muretto di pietre senza calce. La vista dei poveri trattati con tanta abbondanza contribuisce ad aumentare l’amarezza dei ricchi, proprio come la miseria di questi rende più saporita la gioia degli altri. In verità, a cosa servirebbe l’altro mondo, se non fosse il contrario del nostro19?

(Comunicato da Henri Barré. - Pont-l’Abbé, 1887.)

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LXXIX – La lepre di Coatnizan

Tutti i castelli in rovina hanno la propria lepre incantata (sordel). Solo nel paese di Lannion ci sono la lepre del castello di Tonquédec, quella del castello di Coatfrec, quella del castello di Coatnizan, quella del castello di Kerham e altre che non mi ricordo più.

Queste lepri sono le anime degli antichi signori che scontano la propria penitenza in questa forma. Poiché fecero tremare tutti, da vivi, sono condannati a diventare il più spaventato degli animali dopo la loro morte. Non ne saranno liberati che dopo aver ricevuto da cacciatori, che sparano su di loro senza sapere chi siano, tanti colpi di fucile quanti ne hanno sparati o fatti sparare loro stessi sulla povera gente che un tempo era loro sottomessa.

Il piombo li attraversa da parte a parte, senza ucciderli e senza che si spanda una sola goccia di sangue, ma non soffrono per questo meno dolore di quanto ne patirebbero morendo ogni volta.

È così che Jérôme Lhostis, di Pluzunet, cacciando un giorno sulle terre di Coatnizan, vide una lepre di taglia straordinaria attraversare il suo cammino e cercare di trovare rifugio nella piccionaia.

«Davvero,» si disse tutto contento. «È come se l’avessi già nel mio cestino.»

Una cosa però lo stupì: il suo cane che, come lui, aveva visto l’animale, non sembrava minimamente desideroso di precipitarsi a inseguirlo. Dovette entrare da solo nella piccionaia. La lepre era là, addossata al muro. E Jérôme Lhostis imbracciò, premette il grilletto e pum! Il fumo si disperse e avanzò per mettere le mani sulla preda, senza altra preoccupazione che di averla spappolata, per averle sparato così da vicino. Fu però grande la sua sorpresa, quando constatò che l’animale era così vivo come se non avesse ricevuto una scarica di piombo in corpo. E lo guardava pure senza muoversi, con occhi come quelli di un uomo.

«Imbranato che sono!» gridò Jérôme Lhostis, convinto di avere sparato a lato, proprio lui che era considerato, a giusto titolo, il miglior tiratore del paese.

Imbracciò una seconda volta, ma la lepre gli disse: «Hai torto a prendertela con te stesso, perché tu non mi hai mancato.»

Jérôme si prese un tale spavento che l’arma gli cadde dalle mani. L’animale riprese, con un tono triste: «Spara pure. Abbrevierai un poco il mio purgatorio e io ho ancora settecentoventisette colpi di fucile da ricevere, prima di essere liberato.»

Jérôme Lhostis raccolse in effetti il suo fucile, ma fu solo, capirete, per fuggire al più presto. Questa volta era stata la lepre a far scappare il cacciatore20.

(Raccontato da Marguerite Philippe. - Pluzunet.)

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LXXX – La scrofa con sette porcellini neri

Accadde a Trégrom. C’era nella parrocchia una ragazza dalla cattiva vita, che aveva avuto sette figli e che man mano li aveva fatti sparire, senza che nessuno se ne fosse accorto. Ma morì lei stessa con l’ultimo figlio e si seppe così che razza di vita avesse condotto.

Poco dopo la sua morte, alcune persone, passando sul calare della sera nelle vicinanze della casa dove aveva vissuto, videro in strada una vecchia scrofa, tutta scheletrica, seguita da sette porcellini neri.

«Toh,» disse uno di questi uomini, «Ecco una scrofa smarrita.»

Siccome accanto alla casa c’era un porcile vuoto, voleva spingerci la scrofa coi suoi piccoli, ma la bestia cominciò subito a grugnire e a mostrare denti lunghi come quelli di un maiale selvatico. Allora un vecchio, che faceva parte del gruppo, disse: «Credetemi. Lasciate in pace questa scrofa: non è una di quelle che si fanno chiudere nei rifugi.»

Un’altra sera, un domestico dei dintorni rientrava dal lavoro col vomere dell’aratro sulle spalle (perché a quei tempi si lasciava l’aratro nel campo, ma si riportava a casa il vomere); incontrò anche lui la vecchia scrofa, ma siccome minacciava di bloccargli il passaggio, che era un sentiero stretto, lui le lanciò il vomere dell’aratro tra le zampe. Gran male venne all’imprudente. La bestia si precipitò su di lui, lo fece cadere e lo calpestò così tanto che l’uomo ebbe a malapena la forza di trascinarsi fino ai suoi padroni e morì non appena toccata la soglia della casa.

In seguito, la gente di Trégrom, quando vedeva da qualche parte la scrofa, fuggiva subito altrove. La cosa più strana di tutte era che i suoi porcellini ingrigivano a mano a mano che passava il tempo, ma non crescevano mai21.

Alla fine andarono a rivolgersi al vicario parrocchiale e lo supplicarono di liberare il paese da quegli animali così strani. Avrebbero voluto che li esorcizzasse. Lui però rispose che non c’era niente da fare. «Aspettate sette anni,» disse. «Trascorso questo termine, non li vedrete mai più.»

In effetti, nel giro di sette anni sparirono.

(Raccontato da Anne-Marie Prigent. - Bégard.)

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Le anime di quelle persone che, al momento del decesso, Dio non sa se le salverà o le dannerà, sono condannate a rimanere sulla terra sotto forma di corvi, fino al Giorno del Giudizio Finale22.

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Altre anime sono condannate a preparare zolle di torba, in quantità sufficiente a riscaldare per tre anni il Purgatorio; altre ancora a tagliare ginestrone23, per un numero prefissato di anni, per alimentare il fuoco del Purgatorio.

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LXXXI – I due vecchi alberi

Questo è avvenuto a Plougaznou, non molto tempo fa. C’era là, in una povera piccola fattoria, un brav’uomo assieme a sua moglie che, non avendo i mezzi per battere il proprio grano con una macchina, lo batteva con un flagello. Dal levarsi del sole fino al tramonto sgobbavano assieme, l’uomo conducendo le danze e la donna regolando il proprio passo col suo.

Voi penserete, adesso, che a fine giornata si mettevano a letto con piacere, anche se il materasso non era che paglia di segale e le coperte tela rozza di canapa. Avevano a malapena il tempo di fare una cena con poche patate e recitare una breve preghiera: l’istante dopo, erano distesi fianco a fianco e russavano a tutto spiano.

L’ultima sera, dunque, quando furono gwastel24, come si dice, l’uomo disse così alla moglie: «Radegonda, tra i ricchi, quando l’agosto è finito, c’è una cena, la sera, per i battitori. Quanto a me, se mi offrirete la cena che vorrei, mi preparerete delle crêpes, delle buone crêpes di grano nero, come le sapete fare voi, Radegonda.»

La donna, che moriva di fatica, gridò: «Delle crêpes, mio povero uomo! Non ci pensate proprio. Tanto per cominciare, ho le braccia a pezzi. Ho faticato tanto quanto voi, non è vero? E siccome non ho la vostra forza, io non ne posso più. Dove volete che io trovi il coraggio di rimettermi a scaldare la padella, stemperare la farina e stendere la pasta? E poi, anche se ne avessi il coraggio, farei ancora una bella fatica a soddisfare le vostre voglie, perché non è rimasto neppure un pizzico di farina nella madia. Non sapete che, da più di una settimana in cui ci siamo occupati della raccolta, voi non siete più sceso dal mugnaio?»

«Oh! Se non è che per la farina, ci penso io.»

«Cosa? Andreste fino al mulino? Dopo avere già sudato tanto e sfacchinato tanto? Il vostro stomaco è dunque un padrone così duro, Hervé Mingam?»

Hervé Mingam rispose supplichevole: «Suvvia, Radegonda! Per una volta?»

Allora lei, intenerita: «Sono troppo stupida per fare così le vostre ventiquattro volontà... Così sia, va bene! Andate e cercate di essere di ritorno in fretta, se non volete che io mi addormenti qui, nel frattempo, tutta vestita.»

Non aveva ancora finito la sua frase, che l’uomo era già fuori, procedendo a grandi falcate verso il mulino. Finché ci si vedeva chiaramente sulla strada, corse più ancora che marciare, ma in un tratto dove il cammino sembrava sprofondare nella terra, tra due alte scarpate a strapiombo, fu costretto per forza a rallentare. Ben presto, poi, non avanzò più che a tentoni, perché gravava su di lui, oltre all’ombra delle scarpate, anche quella degli alberi molto vecchi che vi erano stati piantati. Procedeva dunque con cautela, facendo con cura ogni passo. Ora, nel silenzio che era profondo, e su cui l’aria si stendeva immobile, come capita di solito nelle calde serate d’agosto, ecco che sentì, sopra la sua testa, il fogliame cominciare a stormire in un modo bizzarro e del tutto inatteso.

«Toh! In fede mia, è una cosa davvero particolare,» pensò.

Levò gli occhi e, malgrado l’oscurità, riconobbe dal biancore argentino della corteccia che gli alberi i cui rami frusciavano in quel mondo erano due faggi dall’aria venerabile, che si fronteggiavano da una scarpata all’altra e mescolavano le proprie fronde, come per abbracciarsi25. Ciò che c’era di più strano era che il loro mormorio, molto leggero, assomigliava a un bisbigliare di voci umane. Hervé Mingam interruppe il suo passo e rimase in ascolto. Senza dubbio, i due faggi chiacchieravano tra loro. Il nostro uomo, per ascoltarli, dimenticò mulino, farina e crêpes.

Il primo dei due alberi, quello di destra, diceva: «Credo che tu abbia freddo, Maharit. Tremi con tutte le tue membra.»

E il secondo albero, quello di sinistra, rispondeva tremando: «Sì, Jelvestr, sono ghiacciata; ghiacciata, in verità, fino al midollo26. Tutte le volte che cala la notte è così; il fresco mi penetra a tal punto che è come una nuova morte... Fortuna che, stasera, si fanno delle crêpes da nostro figlio: ci sarà un bel fuoco e, non appena lui e sua moglie saranno andati a letto, noi potremo a nostra volta andarci a scaldare alle braci.»

Allora il primo albero: «Ti accompagnerò per non lasciarti andare da sola, Maharit. Se però tu mi avessi obbedito quando eri ancora viva, non avresti bisogno di aspettare che si cucinino le crêpes da nostro figlio per sentire un poco di calore. Quante volte ti ho chiesto di essere più caritatevole coi poveri! Con la scusa che tu possedevi poco, non volevi donare alcunché. Adesso tu ne sei punita. Perché hai avuto il cuore freddo, sconti una penitenza ghiacciata. E io, perché sono stato troppo debole contro il tuo peccato, io sono punito con te. Almeno io non soffro quello che soffri tu. I poveri che tu rifiutavi, io li aiutavo del mio meglio a tua insaputa. Per esempio, davo loro in quaresima dei bocconi di burro avvolti in pezzi di carta, e adesso quella carta e quelle foglie di cavolo mi fanno un vestito che mi tiene caldo27

«Ahimè!» sospirò il secondo albero, con un accento di tristezza che si sarebbe detto che stava rendendo l’anima al cielo.

Hervé Mingam non ascoltò oltre. Al rischio di rompersi venti volte la testa inciampando nelle pietre della strada vuota, scese a precipizio tutto d’un colpo il pendio fino al guado del mulino di Trohir. Al ritorno, prese una strada due volte più lunga per non passare di nuovo sotto i vecchi alberi.

«Santo cielo,» disse la moglie. «Credevo che non sareste più tornato.» Notando poi la sua aria stravolta: «Cosa avete dunque? Avete il volto tutto pallido.»

«C’è che sono allo stremo delle forze. Ho le membra a pezzi. Dopo la dura giornata, questa corsa è stata davvero di troppo.»

«Quando te lo dicevo io!... Comunque consolatevi. Dato che avete portato la farina, avrete le vostre crêpes.»

«Sì,» mormorò. «C’è più che mai bisogno che ne prepariate.»

Pensando che volesse dire con questo che l’attesa aveva accresciuto ulteriormente la sua voglia, Radegonda si mise al lavoro per servirlo diligentemente. Di solito, dodici crêpes non sarebbero bastate per spaventarlo, ma stavolta si dichiarò sazio già alla terza.

«Ho decisamente più bisogno di dormire che di mangiare,» dichiarò.

«Oh! Bene, se lo avessi saputo, non avrei fatto tanto fuoco,» disse la moglie.

Si preparava a disperdere i tizzoni, dopo aver tolto la padella, ma lui la fermò.

«Lascia bruciare quello che brucia e corichiamoci.»

Attese che lei si fosse spogliata e, mentre gli voltava le spalle per salire sul letto, lui gettò una nuova bracciata di trucioli nella fiamma. Radegonda non fece in tempo a distenderci che era già addormentata. Lui, invece, mantenne gli occhi aperti e le orecchie tese. Dalle ante traforate del letto chiuso sistemato proprio di fronte alla finestra, si potevano vedere il cortile e la campagna più lontano, perché c’era chiaro di luna. La notte era silenziosa, senza un refolo di vento, come è di solito nel cuore dell’estate. Suonarono le dieci, poi le undici. Niente accadeva. L’uomo cominciava a dubitare... ma quando si avvicinarono le undici e mezza, sentì un lieve rumore, come di rami che si trascinano e foglie che fremono. Poi, a poco a poco, il rumore si accrebbe, divenne un suono simile a quello dei boschi agitati dal vento, e l’uomo notò distintamente le grandi ombre in movimento dei due faggi che avanzavano verso la casa. Marciavano il più vicino possibile l’uno all’altro, sulla stessa riga: si sarebbe detto che era la terra a trasportarli. Alla luce della luna si vedevano brillare i loro tronchi argentei sotto le fronde immense. Attraversarono infine il cortile.

«Frou... ou... ou! Frou... ou... ou!» gemevano le loro vaste chiome.

L’uomo, sotto le lenzuola, batteva i denti. Non si sarebbe mai immaginato che due alberi da soli potessero fare in quel modo tutto il mormorio di una foresta. Il loro rumore, adesso, era attorno a lui, sopra di lui, ovunque.

«Ribalteranno la casa,» si diceva.

Sentiva il fruscio dei grossi rami contro i muri e sulla paglia del tetto. Per tre volte i due faggi fecero il giro della casa, senza dubbio cercando la porta. Bruscamente, questa si aprì. L’uomo si nascose la testa tra le mani, per non vedere affatto quello che stava per accadere. Nel giro di tre o quattro minuti, però, non sentendo alcun trambusto, si azzardò a guardare dalle fessure delle ante. Ecco cosa vide: suo padre e sua madre erano seduti sugli sgabelli di legno, ai due lati del focolare, non più nella loro forma di alberi, ma così come erano stati da vivi. E parlottavano tra loro, a bassa voce. La vecchia aveva sollevato la sua gonna di fustagno rosso per scaldarsi il davanti delle gambe, e il vecchio le domandò: «Senti un poco di caldo?»

«Sì,» rispose lei. «Nostro figlio ha avuto la precauzione di gettare nel fuoco una nuova bracciata di trucioli.»

L’uomo, allora, svegliò dolcemente la moglie.

«Guardate.»

«Cosa? Dove?»

«Là, dal focolaio, quei due vecchi. Non li riconoscete?»

«Sognate o avete una brutta febbre, mio povero marito. Dal focolare non c’è che il fuoco che bruciacchia.»

«Allora mettete il vostro piede sul mio28, Radegonda, e li vedrete come me.»

Mise il piede sul suo e vide, in effetti, i due vecchi.

«Dio perdonato ai defunti! Ma sono tuo padre e tua madre!» balbettò unendo le mani, tra lo stupore e la paura.

Rispose lui: «Per cortesia, non dite e non fate niente che li possa disturbare.»

«Cosa vogliono da noi?»

«Vi spiegherò questa cosa quando se ne saranno andati.»

Nell’atrio, il vecchio disse alla vecchia: «Vi siete ben scaldata, Maharit? Tra poco sarà la nostra ora.»

E la vecchia disse al vecchio: «Sì, non ho più così freddo, Jelvestr. Ma non vedo l’ora che la mia dura penitenza sia finita.»

A quel punto, l’orologio suonò il primo colpo della mezzanotte. I due vecchi si alzarono e svanirono29. Allora il gran rumore di fogliame riprese attorno alla casa: «Frou... ou... ou! Frou... ou... ou!»

Poi il rumore si allontanò, allo stesso ritmo con cui si allontanava anche l’ombra dei due alberi sotto la luna. Nel suo letto, Radegonda tremava, non capendo nulla di tutte le cose straordinarie di cui era stata testimone. Quando la notte fu tornata vuota e silenziosa, l’uomo raccontò ciò che gli era accaduto sul sentiero infossato e come aveva scoperto il segreto dei due morti.

«Va bene,» disse Radegonda. «Domani donerò un pasticcio di grasso per la povera gente della parrocchia che non ha neppure il poco che abbiamo noi, e chiederò due messe in chiesa.»

Così fecero e, in seguito, i due faggi non parlarono più.

(Raccontata da Jacquette Craz. - Lanmeur.)

***

LXXXII – L’anima in un cumulo di pietre

Se siete stati a Ménez-Hom, avrete certo notato il “Cumulo di pietre30” (Ar-Bern-Meïn). Probabilmente però non conoscete la sua storia. Ve la racconterò subito.

Un tempo, c’era in Bretagna un re molto potente, che era chiamato il re Marc’h31, perché era forte come un cavallo. Sansone stesso non avrebbe potuto competere con lui. Il re Marc’h si inorgoglì della propria forza; spesso ne abusava. Era terribilmente bellicoso. Guai a chi faceva un tentativo di resistergli! Quando desiderava una cosa, non si faceva alcuno scrupolo a prendersela, sopratutto quando questa cosa era una bella ragazza che gli piaceva. Bisogna però dirlo: re Marc’h aveva anche i suoi lati positivi. Per esempio, faceva volentieri l’elemosina. Inoltre, pur non essendo devoto, aveva una venerazione particolare per la santa Marie di Ménez-Hom. Si dice perfino che sia stato lui a far costruire la graziosa cappella che si trova a metà strada sul versante della montagna e che, inoltre, è dedicata a questa santa.

Quando morì (notate che morì nel bel mezzo di un’orgia), il buon Dio parlò di dannazione per lui. Santa Marie gettò però alte grida e perorò così bene la causa del suo fedele servitore che il buon Dio si lasciò piegare.

«Così sia,» disse. «Il tuo re Marc’h non sarà condannato, ma la sua anima dovrà rimanere nella tomba fino a che questa tomba non sarà alta a sufficienza perché, dalla sua sommità, il re Marc’h possa vedere il campanile della tua cappella.»

Il re Marc’h, per essere più vicino alla santa sua amica, aveva ordinato che lo seppellissero sul Ménez-Hom. Lo avevano sepolto lì, in effetti; solo, al posto di scavare la sua tomba nel cimitero della cappella, in mezzo ai morti di nascita comune, avevano ritenuto più opportuno preparargli una sepoltura a parte, sul versante opposto della montagna, così che tra questa fossa e la cappella ci fosse una grande curvatura del terreno.

Il buon Dio, ponendo alla salvezza dell’anima di re Marc’h la condizione che ho detto, pensava di soddisfare la sua giustizia eterna, accondiscendendo allo stesso tempo al desiderio di santa Marie. Il re Marc’h non sarà mai un dannato, ma non sarà mai neppure salvato.

Sì, ma i santi alle volte hanno più astuzia del buon Dio, per quanto sia Dio.

Qualche tempo dopo, un mendicante, passando accanto al luogo dove era stato sepolto re Marc’h, incontrò una bella signora, che sembrava portare un oggetto molto pesante nelle pieghe della sua veste.

Lui le chiese l’elemosina.

«Volentieri,» rispose la bella signora, «ma prima fate come me. Prendete una di queste grosse pietre che si trovano là, nella landa, e venite a posarla sulla tomba dove io stesso andrò adesso a posare quella che porto.»

Il mendicante obbedì. La bella signora lo ricompensò, facendogli scivolare nella mano un luigi d’oro tutto nuovo. Pensate voi se il mendicante la ringraziò!

«Promettetemi,» disse la bella signora, «che ogni volta che passerete in questo luogo, voi non mancherete mai di fare quello che avete fatto oggi.»

«Ve lo prometto.»

«Mi auguro anche che voi facciate la stessa raccomandazione a tutte le persone di vostra conoscenza che sono solite viaggiare sulla montagna.»

«Lo farò.»

«Inoltre, ve lo confiderò: è l’anima di re Marc’h che è rinchiusa qui. Sarà salvata il giorno in cui, da questo cumulo di pietre che noi stiamo cominciando, potrà vedere il campanile della cappella che si trova sull’altro versante del monte. Il re Marc’h è sempre stato buono con la gente come voi. Rendetegli almeno in pietre quello che avete ricevuto da lui in pane e in monetine. Siate sicuri, inoltre, che santa Marie ve ne sarà grata.»

Lo avete già indovinato: la bella signora non era altri che santa Marie in persona.

Il mendicante si assolse in coscienza della commissione ricevuta dalla santa.

Da allora, sono trascorso più di cento anni.

Di anno in anno, il cumulo di pietre crebbe. Ogni passante vi posava la propria pietra32. Io, quando cammino da quelle parti, ho cura di riempire di sassi il mio grembiule, dai piedi della montagna. Molte donne fanno la stessa cosa, per essere apprezzate da santa Marie. Prima che il cumulo sia alto a sufficienza, bisognerà senza dubbio attendere molti anni e anni ancora. Ma alla fine il re Marc’h sarà salvato per l’eternità e santa Marie avrà giocato al buon Dio uno scherzetto per il quale lui non si arrabbierà di sicuro.

Ecco la storia del Bern-Meïn.

(Raccontato a Porte-Launay da una mendicante conosciuta sotto il nome di Katic-coz.)

NOTE

1 - Questa parola, che è etimologicamente un plurale, è trattata come un nome collettivo singolare in alcuni dialetti bretoni.

2 - Si veda il capitolo XIV.

3 - Nel Morbihan, si toglie il tripode perché i morti ci si vorrebbero sedere e perché, se lo facessero, un membro della famiglia morirebbe entro l’anno (Fr. Marquer, Traditions et superstitions du Morbihan, Revue des traditions populaires, t. VII, p. 178). Uno spettro, che era l’anima di un bambino piccolo, si era seduto su un tripode che la domestica, per cattiveria, aveva fatto riscaldare. La domestica morì nel corso della notte (P. Y. Sébillot, Contes et légendes du pays de Gouarec, Revue de Bretagne, de Vendée et d’Anjou, t. XVIII, p. 61).

4 - «Mai, nel distretto di Lesneven, si spazza una casa durante la notte; si sostiene che allontana la fortuna, che i morti vi camminano e il movimento di una scopa li ferisce e li scaccia. Chiamano questo gesto scubic an anaoun, spazzare i morti.» (Cambry, Voyage dans le Finistère, t. II, p. 32).

5 - I morti aprono gli occhi allo scoccare della mezzanotte (Verusmor, Voyage en Basse-Bretagne, p. 340). In Galles, si crede che le anime dei morti arrivino a mezzanotte e debbano tornare indietro al canto del gallo (E. Owen, Welsh folklore, p.192).

6 - Un uomo incontrò di notte uno sconosciuto lungo una strada deserta. «Che ore sono, per cortesia?» Lo sconosciuto gli rispose: «È ora di dormire per il vivo e ora di passeggiare per il morto.» Così detto, svanì come se la strada lo avesse inghiottito (G. Dottin, Contes et légendes d’Irlande, p. 143).

7 - Vedere il capitolo XIX. In Galles, si dice che di due persone che vanno assieme, soltanto una può vedere lo spettro e rivolgergli la parola, ed è a questa persona che risponderà, altrimenti rimarrà silenzioso (E. Owen, Welsh folklore, p.192).

8 - Nel Morbihan si parla di uno Zufolatore notturno (er Huitellour Nouz), che è uno spettro pericoloso (Le Rouzic, Carnac, p. 63, 118).

9 - Vicario parrocchiale di Sant-Michel-en-Grève. Si veda il capitolo VI.

10 - A Galway, si dice che i cespugli di spine sono cresciuti sulla polvere dei morti sparsa nel mondo (D. Fitzgerald, Popular tales of Ireland, Revue celtique, t. IV, p. 175). I cespugli sono quasi sempre legati all’idea dei fortini delle fate. Se si taglia uno di questi cespugli, si sarà colpiti dalla morte (L. L. Duncan, Folklore gleanings from country Leitrim, The Folklore Journal, t. IV, p. 178; Deeney, Peasant lore from Gaelic Ireland, pp. 61-65).

11 - La stessa credenza si trova in certe parti dell’Irlanda, dove si crede che le anime dei morti scontino la penitenza che si sono meritate per i propri peccati nel luogo stesso in cui hanno vissuto. Si crede anche, però, che le anime di quanti sono salvati ritornino sulla terra a godere della propria felicità (Mac Anally, Irish Wonders, p. 110). Nella contea di Galway, si crede che se una persona, dopo la morte, è giudicata troppo buona per andare all’inferno e troppo malvagia per andare in cielo, è rispedita sulla terra e vi resterà fino al Giorno del Giudizio, finché un’altra anima la voglia andare a cercare per portarla con sé in Paradiso (lady Wilde, Ancient legends, pp. 116-118).

12 - Si veda il capitolo VIII.

13 - Si veda il capitolo VI.

14 - Cfr. Fouquet, Légendes, contes et chansons populaires du Morbihan, p. 12. P. Y. Sébillot, Contes et légendes du pays de Gouarec (Revue de Bretagne, de Vendée et d’Anjou, t. XVIII, p. 65). Le Rouzic, Carnac, pp. 117-118.
Nelle Ebridi si racconta che una morta, mentre tornava all’alba alla propria tomba assieme ad altre anime, era rimasta un poco indietro, perché il suo cammino era ostacolato dai fili che aveva rubato ai vicini per i quali aveva tessuto la filaccia durante la propria vita (Goodrich-Freer, More folklore from the Hebrides, Folklore, t. XIII, p. 59).

15 - Cfr. A. Le Braz, Vieilles histoires du pays breton, pp. 257-283.

16 - Cfr. E. Herpin, Revue des traditions populaires, t. XIV, pp. 579-580.
In Irlanda e Scozia esistono numerose credenze relative ai bambini morti senza battesimo. Questi bambini devono essere sepolti prima del sorgere del sole, altrimenti il loro spirito vagherà senza dimora nelle regioni dello spazio (W. Gregor, Folklore of the North-East of Scotland, p. 215; cfr. Mac Phail, Folklore from the Hebrides, Folklore, t. XI, p. 434). Se si cammina sulla tomba di un bambino non battezzato, non si potrà più ritrovare la propria strada (Leland L. Duncan, Folklore gleanings from county Leitrim, The Folklore Journal, t. IV, p. 1882). Il primo bambino che muore in una famiglia deve essere sepolto nel cimitero speciale per i bambini morti senza battesimo; se lo si seppellisce nel cimitero comune, altri due bambini della stessa famiglia lo seguiranno nella tomba (Haddon, A batch of Irish folklore, Folklore, t. IV, p. 351).

17 - Cfr. Sébillot, Revue des traditions populaires, t. XII, p. 394; Sauvé, Mélusine, t. II, col. 254. In Cornovaglia si crede che le anime dei vecchi marinai si trasformino in albatri e in gabbiani (M. A, Courtney, Cornish folklore, The Folklore Journal, t. V, p. 189).

18 - Littré scrive “satanicle” e sostiene che sia da identificare con la procellaria.

19 - Si veda il racconto CXXII. Cfr. Luzel, Contes populaires de Basse-Bretagne, t. I, pp. 11, 38, 60. A Carnac, ci sono spettri che appaiono spesso sotto forma di tori. Le Rouzic, Carnac, pp. 49, 56, 58, 59, 70, 80, 94, 109, 119.

20 - Le anime sotto forma di lepre non sono rare nelle storie irlandesi. Così è la nonna di Thomas de Bûrca (G. Dottin, Contes irlandais, pp. 40, 42), che i cani e i cacciatori non possono prendere. Tale è, sempre senza dubbio, la lepre che annuncia a Diarmuid che gli resta soltanto una settimana da stare al mondo (ibid., p. 231). Il popolo di Kerry non mangia le lepri, perché crede che le anime delle loro nonne siano entrate in questi animali (Haddon, A batch of Irish folklore, Folklore, t. IV, p. 352); sulle lepri incantate, in Clare, si veda Th. J. Westropp, Folklore, t. XXIII, p.214. In Cornovaglia, le ragazze ingannate dai loro amanti, e che sono morte d’amore, ritornano a perseguitarli sotto forma di lepri bianche (M. A. Courtney, Cornish folklore, The Folklore Journal, t. V, p. 189; W. Bottrell, Traditions and hearthside stories, 2ª serie, p. 253). Nel Morbihan, c’è un gran numero di fantasmi che appare sotto forma di lepre o di lepre bianca. Le Rouzic, Carnac, pp. 61, 63, 66, 67, 69, 71, 76, 77, 79, 82, 94, 102, 103, 106, 107.

21 - Al contrario, i porcellini di origine strana che Thomas de Burca aveva venduto al curato di Galway (Contes irlandaises, p. 45) crebbero sorprendentemente in una sola notte. Per quanto riguarda le anime sotto forma di maiale, cfr. Le Rouzic, Carnac, pp. 73, 89, 112.

22 - Sulle anime sotto forma di corvi, cfr. A. Le Braz, Au pays du pardon, p. 61; La terre du passé, p. 82. Re Artù non è morto, è stato trasformato in corvo; per questo gli abitanti della Cornovaglia non uccidono i corvi (Rhys, Celtic folklore, p. 611).
In Bretagna ci sono anche altre credenze relative alle anime sotto forma di animale. Sull’isola di Bréhat si parla di spettri che tornano in forma di gatti neri, di oca (Luzel, L’île de Bréhan en 1873, Revue de Bretagne, de Vendée et d’Anjou, 1893, t. X, pp. 339-341). Sugli spettri che tornano in forma di cavallo, si veda Le Rouzic, Carnac, pp. 54, 58, 62, 78, 86, 89, 94, 95, 98, 100, 109; di gatti, ibid., pp. 61, 68, 72, 76, 80, 82, 83, 85, 86, 94, 98, 101, 109; di montoni, ibid., pp. 65, 66, 67, 70, 71, 75, 79, 80, 84, 85, 88, 94, 98, 109, 111, 114; di ratti, ibid., p. 67; di capre, ibid., pp. 83, 84, 107.
In Irlanda, gli Spiriti malvagi sono spesso visti sotto forma di animali: di maiali (Ph. Redmond, Some Wexford folklore, Folklore, t. X, p. 363), di colombe (Curtin, Tales of the fairies, p. 131). In una leggenda riferita da Deeney, Peasant lore from Gaelic Ireland, p. 77, un’anima ritorna sotto forma di cane nero (cfr. Br. J. Jones, Folklore, t. X, p. 120). In un racconto irlandese, un uomo morto in condizione di peccato mortale è stato trasformato in asino nero per sette anni (G. Dottin, Contes irlandais, pp. 149-150). Il merlo e il tordo sono anime esiliate sulla terra in punizione per i propri peccati; il corvo, la cornacchia e il gufo sono animati da anime dannate (The Gael, 1902, p. 397). Nella contea di Clare, gli animali-fantasma sono tori, cavalli, capre e conigli (Th. J. Westropp, Folklore, t. XXI, pp. 343-349).
In Cornovaglia, gli annegati ritornano sotto forma di animali (M. A. Courtney, Cornish folklore; The Folklore Journal, t. V, p. 189).
Quanto alle anime sotto forma di barile che sono state segnalate in Irlanda (Folklore, t. X, p. 362), non se ne trova traccia negli altri paesi celtici, a quanto pare.

23 - Cfr. il Pilour lann, “frantumatore di terra”, che viene di notte, soprattutto qualche giorno prima di una tempesta, a colpire col suo mazzuolo di legno i pignoni delle vecchie case. Le Rouzic, Carnac, p. 116.

24 - Gwastel ha propriamente il significato di dolce, ma serve anche a indicare la fine della battitura. Essere gwastel significa aver finito di battere.

25 - A questi due faggi si possono paragonare, nella leggenda irlandese, i due tassi che, spuntati da due paletti conficcati nei corpo di Noisé e di Deidré (cfr. p. 302), intrecciarono i propri rami al di sopra della tomba (Transactions of the Gaelic Society, 1808, p. 133, citati da H. Gaidoz, Mélusine, t. IV, col. 12).

26 - In un racconto registrato da Sauvé, Revue des traditions populaires, t. VII, pp. 108-114, un’anima sconta la propria penitenza sotto forma di un omino rosso ghiacciato, il cui castigo non terminerà che quando si sarà potuto scaldare nel letto di un uomo.
Nelle leggende irlandesi si tratta spesso di freddo che congela i morti. Una donna morta in America ritorna a vagare sulle coste dell’Irlanda e prega un passante di dire a sua madre di comrare calze e scarpe e donarle a suo nome a un povero, perché lei muore di freddo (Curtin, Tales of the fairies, p. 146).

27 - Nel Fîs Adamnain, visione irlandese del X secolo, è scritto che i peccatori che sono stati caritatevoli sono protetti contro il fuoco dell’inferno da un muro d’argento fatto coi vestiti che hanno donato e con le elemosine che hanno distribuito (§ 27).

28 - Gwerziou Breiz-Izel, t. I, p. 101, dove questo gesto permette di sentire le campane a svariate centinaia di leghe di distanza.

29 - In Irlanda, si crede che le anime erranti dei genitori morti vengano a trascorrere la notte nella casa. Si lasciano le sedie disposte attorno al focolare perché vi si possano scaldare (Deeney, Peasant lore from Gaelic Ireland, p. 7).

30 - Questo “cumulo di pietre” è una specie di cairn, posto tra le due vette principali di Ménez-Hom, ai piedi della parte di montagna che è nota sotto il nome di Ménez-Kelc’h, non lontano da un’antica via romana che si dirigeva senza dubbio verso Crozon.

31 - Marc’h, cavallo. Questo re, che è chiamato nei romanzi francesi il re Marc di Cornovaglia e che nel Mabinogion e nelle Triadi gallesi è March ab Meirchion, compagno di Artù, è diventato il protagonista di una leggenda identica a quella del re greco Mida. Faceva uccidere tutti i barbieri, per paura che raccontassero che lui aveva le orecchie da cavallo. Uno di questi, che era stato risparmiato dopo aver giurato di non dire quello che aveva visto, raccontò questo segreto, troppo pesante da tenere nascosto, alle sabbie della riva. Da queste sabbie spuntarono tre giunchi che, trasformati in flauti, ripetevano: «Il re Marc’h ha le orecchie da cavallo.» In Bretagna si trova questa leggenda nei dintorni di Douarnenez (Cambry, Voyage dans le Finistère, t. II, p. 287). In Galles, è stata segnalata in Y Brython, 1860, p. 431 (cfr. Rhys, Celtic folklore, pp. 233-234). In Irlanda, la stessa leggenda è raccontata a proposito del re Labraid Lorc (Revue celtique, t. II, pp. 197-199; Kennedy, Legendary fictions, pp. 219-224; G. Dottin, Contes et légendes d’Irlande, pp. 201-202).

32 - Vedi capitolo XII, nota 1.