Adriano - racconti e altro

Il mito cherokee della figlia del Sole

Il Sole viveva sull’altro lato della volta celeste1, ma sua figlia viveva nel mezzo del cielo, direttamente al di sopra della terra, e ogni giorno, mentre il Sole si arrampicava lungo l’arco del cielo verso ovest, aveva l’abitudine di fermarsi dalla figlia per pranzo.

Ora, il Sole odiava le genti della terra, perché non potevano mai guardare direttamente verso di lei senza distorcere la faccia. Disse a suo fratello, la Luna2: «I miei nipoti sono brutti; fanno sempre smorfie con le loro facce, quando guardano verso di me». Ma la Luna disse: «A me piacciono i miei fratellini; penso che siano molto belli», perché avevano sempre un piacevole sorriso quando lo vedevano in cielo di notte, dato che i suoi raggi erano più tenui.

Il Sole era gelosa e progettava di uccidere tutta la gente, così ogni giorno, quando si avvicinava alla casa della figlia, spediva di sotto raggi così brucianti che causavano una forte febbre e la gente moriva a centinaia, finché ognuno ebbe perso qualche amico e si temeva che nessuno sarebbe sopravvissuto. Andarono così a chiedere aiuto ai Piccoli Uomini3, che dichiararono che l’unico modo di salvarsi era uccidere il Sole.

I Piccoli Uomini prepararono una medicina che cambiò due uomini in serpenti, il serpente muso di porco e il mocassino, e li mandarono ad appostarsi presso la porta della figlia del Sole, per mordere il vecchio Sole quando fosse uscita il giorno seguente. Andarono assieme e si nascosero vicino alla casa, fino a che giunse il Sole, ma quando il muso di porco stava per attaccare, la luce abbagliante lo accecò e poté soltanto sputare gelatina gialla, come fa anche oggi quando cerca di mordere. Il Sole lo chiamò «essere schifoso» ed entrò nella casa, e il mocassino strisciò via senza neppure provare a fare qualcosa.

Così la gente continuava a morire per il caldo e andarono una seconda volta dai Piccoli Uomini in cerca di aiuto. I Piccoli Uomini prepararono di nuovo una medicina e trasformarono un uomo nel grande Uktena4 e un altro nel serpente a sonagli e li inviarono a sorvegliare la casa, per uccidere il vecchio Sole quando fosse arrivata a pranzare. Fecero lo Uktena molto grande, con corna sulla testa, e ognuno pensava che sarebbe stato sicuramente lui a svolgere il lavoro, ma il serpente a sonagli era così veloce ed entusiasta che lo precedette e si attorcigliò appena fuori della casa; quando la figlia del Sole aprì la porta per guardare se la madre fosse in arrivo, scattò in avanti e la morse, e lei cadde morta sulla soglia. Si era dimenticato di dover aspettare il Sole vecchio e se ne tornò indietro dalla gente, e lo Uktena era così tanto arrabbiato che se ne andò pure lui. Da allora, noi preghiamo il serpente a sonagli e non lo uccidiamo, perché è gentile e non cerca mai di mordere se noi non lo disturbiamo. Lo Uktena divenne sempre più arrabbiamo, col passare del tempo, e molto pericoloso, così che se anche solo guardava un uomo, la famiglia di quell’uomo moriva. Dopo molto tempo gli altri tennero un consiglio e decisero che era troppo pericoloso per tenerlo assieme a loro, così lo mandarono su da Gălûñ′lătĭ, ed è là ancora oggi. Il serpente muso di porco, il mocassino, il serpente a sonagli e lo Uktena erano tutti uomini.

Quando il Sole trovò morta la figlia, si chiuse in casa e si abbandonò al dolore; la gente non moriva più, ma adesso il mondo era buio tutto il tempo, perché il Sole non usciva più. Andarono ancora dai Piccoli Uomini e questi dissero loro che, se volevano che il Sole uscisse di nuovo, dovevano portare indietro la figlia da Tsûsginâ′ĭ, il paese Fantasma, posto a Usûñhi′yĭ, la terra Crepuscolare nell’ovest. Scelsero sette uomini per andarci e diedero a ognuno un bastone di acetosella5 lungo una mano. I Piccoli Uomini dissero loro che dovevano portare una scatola con sé, e una volta arrivati a Tsûsginâ′ĭ avrebbero trovato tutti i fantasmi impegnati a danzare. Dovevano rimanere all’esterno del circolo e, quando la giovane donna fosse passata danzando, l’avrebbero dovuta colpire coi bastoni, così sarebbe caduta a terra. L’avrebbero poi dovuta infilare nella scatola e portarla indietro dalla madre, ma dovevano stare molto attenti a non aprire la scatola, neppure di pochissimo, fino a che non fossero arrivati di nuovo a casa.

Presero i bastoni e la scatola e viaggiarono per sette giorni verso ovest, fino a che giunsero alla terra Crepuscolare. C’erano molte persone, qui, e stavano danzando proprio come se fossero stati a casa nei loro insediamenti. La giovane donna si trovava nel cerchio esterno. Quando giunse volteggiando dove si erano sistemati i sette uomini, uno di loro la colpì col bastone; lei girò la testa e lo vide. Quando passò una seconda volta, un altro la toccò col suo bastone, poi un altro, e un altro ancora, fino a che alla settima volta la ragazza cadde fuori dal cerchio: la infilarono nella scatola e chiusero in fretta il coperchio. Gli altri fantasmi non sembravano avere neppure notato cosa fosse accaduto.

Raccolsero la scatola e tornarono a casa, verso est. Dopo un poco la ragazza si riprese e li supplicò farla uscire dalla scatola, ma non le risposero e continuarono a camminare. Presto chiamò di nuovo e disse di essere affamata, ma di nuovo non le risposero e continuarono a camminare. Dopo un altro po’ di tempo parlò di nuovo e chiese da bere, e li supplicò tanto che era davvero duro sentire la sua voce, ma gli uomini che trasportavano la scatola non parlarono e continuarono a camminare. Quando alla fine erano quasi arrivati a casa, li chiamò di nuovo e li pregò di alzare il coperchio di un pochino, perché stava soffocando. Avevano paura che stavolta stesse davvero morendo, così alzarono appena il coperchio per darle un poco di aria; come lo fecero, però, sentirono un battere d’ali all’interno e qualcosa volò via accanto a loro e si tuffò tra gli arbusti, e sentirono il richiamo di un cardinale rosso6, “Kwish! Kwish!”, tra i cespugli. Chiusero il coperchio e andarono avanti fino agli insediamenti, ma quando vi arrivarono e aprirono la scatola, la trovarono vuota.

Così sappiamo che il cardinale rosso è la figlia del Sole, e se gli uomini avessero tenuto chiusa la scatola, come i Piccoli Uomini avevano detto loro di fare, l’avrebbero portata a casa senza problemi e noi avremmo potuto portare indietro anche tutti gli altri nostri amici dal paese Fantasma; adesso, però, quando si muore, non possiamo mai riportarli indietro.

Il Sole era contenta quando erano partiti verso il paese Fantasma, ma quando furono tornati senza sua figlia, ne soffrì e gridò: «Mia figlia! Mia figlia!», e pianse fino a che le sue lacrime causarono una inondazione sulla terra e la gente aveva paura che il mondo sarebbe stato sommerso. Tennero dunque un altro concilio e inviarono i più belli tra i loro ragazzi e le loro ragazze a divertire il Sole, così che smettesse di piangere. Danzarono davanti al Sole e cantarono le loro canzoni migliori, ma la donna continuò a lungo a tenersi coperta la faccia e non prestò loro alcuna attenzione, fino a che il suonatore di tamburo cambiò d’improvviso la canzone: a quel punto il Sole alzò la faccia e la scena che vide le piacque così tanto che si dimenticò del suo dolore e sorrise.

Questo è il mito cherokee della figlia del sole, così come lo troviamo raccolto nel volume Myths of the Cherokee, pubblicato nel 1902 a cura di James Mooney (1861–1921): compare come storia numero 5 col titolo di “The Daughter of the Sun: origin of Death”, pagina 252 e seguenti. Nelle note di chiusura del suo volume, sezione “Notes and parallels to myths”, Mooney riporta brevemente alcune varianti raccolte da altri narratori. Traduco qui di seguito la parte relativa al mito preso in esame, giusto per avere subito sottomano l’intero materiale a nostra disposizione sul versante indiano della storia.

Questo è uno dei miti principali dei Cherokee e, come molti di questa classe, ha più varianti. La seconda parte presenta ovvie somiglianze col mito di Pandora. È stato ottenuto in forma integrale o parziale da Swimmer, John Ax, James Blythe, e altri del gruppo orientale. La versione seguita principalmente è quella di Swimmer, che differisce in dettagli importanti da quella di John Ax.

Come raccontata da John Ax, è il Sole stesso, invece della figlia, a essere uccisa, mentre alla figlia è assegnato il compito di illuminare la terra dopo la morte della madre, il Sole originale. Gli unici serpenti menzionati sono il serpente muso di porco e il serpente a sonagli, il primo dei quali è un uomo trasformato, mentre il secondo è un ramo, su cui i Piccoli Uomini incisero sette anelli prima di gettarlo sulla strada del Sole, dove divenne un serpente a sonagli. Le sette bacchette o i sette bastoni della versione di Swimmer sono sette pannocchie per John Ax, che sono gettate verso la ragazza che passa durante la danza. I Piccoli Uomini appartengono alla versione di John Ax. Gli altri hanno solo un incantatore o un mago a dirigere le operazioni.

Questo mito è annotato nel manoscritto Payne, databile attorno al 1835, e citato in Squier, Serpent Symbol, pagina 67: “I Cherokee sostengono che più esseri furono coinvolti nella creazione. Il Sole fu fatto per primo. L’intenzione dei creatori era che gli uomini dovessero vivere per sempre. Ma il Sole, passando sopra, disse loro che non c’era posto a sufficienza ed era meglio che le persone morissero. In seguito la figlia del Sole, che era assieme a loro, fu morsa da un serpente e morì. Il Sole, al suo ritorno, domandò di lei e gli dissero che era morta. A quel punto consentì che gli esseri umani potessero vivere per sempre e disse solo di prendere una scatola e andare dove si trovava lo spirito di sua figlia e riportarlo indietro nel suo corpo, imponendo loro di non aprire la scatola fino a quando non fossero arrivati al posto dove si trovava il corpo, una volta ottenuto lo spirito. Spinti dalla curiosità, però, aprirono la scatola, contrariamente agli ordini del Sole, e lo spiritò fuggì; così il destino di tutti gli uomini fu deciso e sarebbero dovuti morire.” Questo è copiato senza attribuzioni da Foster, Sequoyah, pagina 241.

Un’altra versione ci è poi data dal missionario Buttrick, che morì nel 1847, nel suo Antiquities of the Cherokee Indians, pagina 3: “Poco dopo la creazione, uno della famiglia fu morso da un serpente e morì. Tutti i possibili mezzi furono tentati per riportarlo in vita, ma invano. Essendo stata così sconfitta in questa prima occasione, l’intera razza era condannata a quel fato, non solo alla morte, ma anche alla miseria seguente, siccome si supponeva che quella persona sarebbe andata incontro alla miseria. Un’altra tradizione sostiene che, subito dopo la creazione, una giovane donna fu morsa da un serpente e morì, e il suo spirito andò in un certo posto, e alla gente fu detto che, se avessero portato indietro lo spirito nel suo corpo, il corpo avrebbe vissuto di nuovo e avrebbero prevenuto la mortalità generale del corpo. Alcuni giovani uomini, dunque, partirono con una scatola per catturare lo spirito. Andarono in un posto e lo videro danzare attorno, e alla fine lo rinchiusero nella scatola e chiusero il coperchio, per tenerlo bloccato lì dentro. Ma lo spirito continuava costantemente a pregarli di aprire la scatola, per garantirgli un poco di luce. Ma loro si affrettarono fino a che non giunsero nelle vicinanze del posto in cui si trovava il corpo. Solo allora, a causa della sua particolare urgenza, sollevarono appena un poco il coperchio e lo spirito fuggì via e se ne andò, e con lui ogni speranza di immortalità.”

In una variante annotata da Hagar, i messaggeri portano quattro bastoni e viaggiano per sette giorni fino al paese fantasma. “La trovarono danzare nella terra degli spiriti. La colpirono col primo bastone e non produsse alcun effetto; col secondo, e lei smise di danzare; col terzo, e lei si guardò attorno; col quarto, e lei si recò da loro. Costruirono una scatola e la misero al suo interno.” Un informatore gli raccontò questo: “Soltanto un uomo è mai tornato dalla terra delle anime. Ci andò in sogno, dopo che un serpente lo aveva morso sulla fronte. Lui, Turkey-head, tornò indietro sette giorni dopo e descrisse ogni cosa. I morti vanno dapprima verso est, poi verso ovest alla Terra del Crepuscolo. Si trova a ovest nel cielo, ma non tra le stelle.” (Stellar Legends of the Cherokee, MS, 1898).

In un mito Shawano una ragazza muore e, dopo aver pianto a lungo per lei, suo fratello parte per portarla indietro dal paese delle ombre. Viaggia verso ovest fino a che non giunge alla casa di un grande spirito benefico, che è indicato, secondo il sistema indiano di rispetto, come nonno. Informato della sua missione, questo aiutante gli diede “una medicina” con cui sarebbe stato in grado di entrare nel mondo degli spiriti, e gli spiegò come e in quale direzione procedere per trovare la sorella. “Disse che lei sarebbe stata a una danza, e quando si fosse alzata per unirsi al movimento, lui l’avrebbe dovuta afferrare e rinchiudere nel cavo della canna che gli aveva fornito, e tapparne l’orifizio col dito.” Il fratello fa come indicato, cattura la sorella e ritorna alla casa del suo aiutante, che trasforma di nuovo entrambi in esseri fatti di materia e, dopo avere insegnato loro riti sacri da portare indietro alla loro tribù, li fa passare per una scorciatoia attraverso una botola nel cielo.7

In un mito algonchino di New Brunswick un padre in lutto cerca l’anima del figlio nel dominio degli spiriti di Papkootpawut, l’Ade indiano, che glielo consegna sotto forma di una noce, che dovrà poi inserire nel corpo del figlio quando il ragazzo tornerà in vita. La mette in un sacchetto e ritorna indietro con gli amici che lo avevano accompagnato. Si fanno i preparativi per una danza di congratulazioni. “Il padre, volendo prendervi parte, affidò in custodia l’anima del figlio a una squaw che si trovava lì vicino. Essendo curiosa di vederla, aprì la borsa e l’anima ne fuggì subito e volò via verso i reami di Papkootpawut.”8 In un mito della British Columbia, due fratelli partono per una missione simile per riportare indietro l’anima della madre. Dopo avere attraversato un grande lago, si avvicinano alla costa del mondo degli spiriti e sentono in distanza il suono di canti e danze, ma il loro approdo è bloccato da una sentinella, che dice loro: «Vostra madre è qui, ma voi non potete entrare vivi a vederla, né potete portarla via.» Uno dei due risponde: «Io devo vederla!» Allora l’uomo tolse da lui il suo corpo, o la sua parte mortale, e così entrò. L’altro fratello tornò indietro.9

Nell’antica leggenda egiziana di Râ e Isis, preservata in un papiro di Torino risalente alla ventesima dinastia circa, la dea Isis, volendo strappare con la forza al grande dio Râ, il sole, il segreto del suo potere, manda un serpente a morderlo, con l’intenzione di chiedere per sé il segreto come prezzo per aiutarlo. Preso un poco della sua saliva, “Isis con la sua mano la impastò assieme alla terra che si trovava lì. Ne fece un sacro serpente, a cui diede la forma di una lancia. Lei... lo lanciò verso la strada che il grande dio attraversava nel suo doppio regno ogni volta che voleva. Il venerabile dio avanzava, gli dèi che lo servivano come proprio Faraone lo seguivano, lui andava avanti come ogni giorno. Allora il sacro serpente lo morse. Il dio divino aprì la bocca e il suo grido raggiunse il cielo... Il veleno affondò nella sua carne,” eccetera.10

Questo è il materiale che Mooney ha messo a nostra disposizione, nel bene o nel male. Come lui stesso ci informa nelle note alla storia, la versione contenuta nel suo libro è stata messa assieme da lui usando più di una variante. Sarebbe stato meglio se le avesse lasciate separate, invece di mescolarle o “integrarle”, a seconda dei punti di vista, ma purtroppo è andata così. Quasi di sicuro in epoche precedenti esistevano ulteriori versioni di questo mito, ma ai tempi in cui Mooney poté raccogliere il materiale per il suo libro i Cherokee erano già stati ridotti sensibilmente di numero per ragioni di sterminio e la loro società era ormai collassata, così si è dovuto arrangiare col poco che restava della loro cultura. Il risultato è un racconto messo assieme alla meglio, ma pur sempre di notevole interesse.

Il sole odia gli umani e li vuole uccidere tutti, arrostendoli col suo calore. Questa è la premessa della storia. Una premessa curiosa, certo, ma non unica. Sorvolando sui moventi del sole e su tutte le storie in cui il fuoco del sole brucia qualcosa a cui si è avvicinato troppo, o che gli si è avvicinato troppo, l’Estremo Oriente ci propone diversi casi in cui l’umanità è in pericolo per il calore eccessivo del sole. Non sono proprio identici al mito cherokee, perché in Asia il calore eccessivo è causato tipicamente dalla presenza di soli extra, che qualche eroe dovrà distruggere per salvare l’umanità, ma mi pare comunque il caso di prenderli rapidamente in esame. Anche nel mito cherokee, da un certo punto di vista, abbiamo più di un sole, e in almeno una variante sarà la figlia a prendere il posto della madre, diventando così un “sole buono”, che scalda in modo giusto, senza esagerare.

In Cina, per esempio, troviamo un curioso mito secondo il quale, al principio, esistevano dieci soli che si alternavano in cielo. Un giorno, però, questi dieci soli decisero di uscire tutti assieme e il loro calore eccessivo rischiava di bruciare il mondo. Su ordine dell’imperatore, l’eroico arciere Hou Yi cercò prima di discutere coi soli, per convincerli ad abbandonare il loro proposito di bruciare il mondo. Non funzionò. Li minacciò allora col suo arco, ordinando loro di sparire dal cielo. Non funzionò. A questo punto, Hou Yi cominciò a fare sul serio e centrò uno dopo l’altro i soli: ogni volta che un sole era colpito da una freccia, si trasformava in un numero non precisato di corvi a tre zampe11. Quando rimase un unico sole, Hou Yi lo risparmiò, o per sua scelta o per intercessione dell’imperatore o altro ancora, a seconda della versione della storia: così adesso c’è soltanto un sole in cielo e il mondo non rischia più di essere bruciato.

In Corea esistono numerose versioni di un mito secondo cui, al principio, esistevano due soli e due lune. I motivi per questo raddoppiamento variano a seconda delle fonti che seguiamo: a volte era così fin dall’inizio, a volte il raddoppiamento è stato causato da qualcosa. Sia come sia, i due soli di giorno causavano un calore eccessivo, bruciando il mondo, mentre le due lune notturne causavano un freddo eccessivo, congelando il mondo. Un qualche eroe o una divinità, di nuovo a seconda delle fonti che scegliamo di utilizzare, provvederà poi ad abbattere gli “extra” col suo arco, ristabilendo (o stabilendo, nei casi in cui il raddoppiamento era lo stato primordiale del mondo) un clima adatto agli esseri umani.

In Giappone, troviamo un racconto popolare registrato nella prefettura di Okayama, o una fiaba se preferite chiamarlo così, in cui un giorno apparvero in cielo sette soli, causando un calore eccessivo, che mise in pericolo gli esseri umani. A risolvere il problema fu il gigante Amanojaku12, che col suo arco abbatté tutti i soli in eccesso, lasciandone uno soltanto: quello che vediamo ancora oggi.

Nel mito cherokee il sole è soltanto uno, ma è anche specificato che il suo calore diventa eccessivo quando si ferma a casa della figlia, al centro del cielo. A rendere insopportabile il calore è, da un certo punto di vista, il raddoppiamento del sole. A legittimare almeno in parte una interpretazione di questo tipo è la variante citata da Mooney, dove la figlia del sole prenderà poi il posto della madre. Inoltre, il mito stesso ci specifica che il problema del riscaldamento è risolto alla morte della figlia, ossia quando una delle due figure femminili solari è uccisa. È vero, subentrerà poi il problema dell’oscurità, d’accordo, ma questo è un altro discorso e lo affronteremo in seguito: il punto è che, con la morte di una delle due donne, che sia la madre o la figlia, ci ritroviamo con una temperatura accettabile. Perché il sole non è più doppio? Possibile, almeno a mio parere, e diverse storie asiatiche sembrano confermarlo: il calore è eccessivo quando in cielo abbiamo più di un sole. Per risolvere il problema, deve rimanere soltanto un sole. Nel mito cherokee, a volte questo unico sole è la madre e a volte la figlia, ma una delle due deve morire in ogni caso

Osservando le note di Mooney, poi, possiamo vedere che il sole è la causa della mortalità umana anche in un altro modo: invece di uccidere col suo calore, come avviene nella presente storia, in un mito cosmogonico il sole portò la morte nel mondo annunciando agli uomini che sarebbero dovuti morire, invece di vivere per sempre. Manca una motivazione personale per questo suo gesto, a differenza di quanto accade nella presente storia, dove decide di uccidere tutti perché gli uomini la guardano male. Nel mito sulla origine della morte, invece, al sole è semplicemente assegnato il ruolo che, in racconti simili, spetta di solito a un animale, inviato dal cielo a portare un messaggio agli uomini. Il messaggio arriverà in forma sbagliata, per un motivo o per l’altro, e così gli uomini perderanno l’immortalità. Qui il sole decide che gli uomini non dovranno essere immortali per una questione di spazio, motivo che troviamo anche presso altre tribù: citiamo i Caddo giusto per fare un esempio, dove è Coyote a decretare la morte per gli umani, perché altrimenti non ci sarebbe stato spazio per tutti sulla Terra.

La morte della figlia del sole e l’incapacità degli umani di riportarla indietro dal regno dei morti sono poi il fattore che ha reso definitiva la mortalità umana, sia nel mito presente, sia nella variante cosmogonica citata da Mooney (che cita a propria volta Squier, come abbiamo letto nelle sue note). Abbiamo così il sole che, in un primo momento, uccide gli umani col suo calore, oppure nega loro l’immortalità per ragioni di spazio. Quando però a morire è sua figlia, morsa da un serpente, allora il sole è disposto a rivedere le proprie posizioni, a patto che gli umani riescano a portare indietro lo spirito della ragazza dalla terra dei morti. Siccome gli umani falliscono, la loro mortalità diventa definitiva e per loro non ci sarà né vita eterna, né la possibilità di tornare indietro dopo la morte.

Sarebbe interessante scoprire perché i Cherokee avessero attribuito questo compito proprio al sole, anziché a uno degli animali scelti da altre tribù nordamericane, ma ormai è piuttosto difficile che potremo avere una risposta certa e definitiva, vista la fine che hanno fatto le popolazioni native nordamericane. Sia come sia, per i Cherokee il sole è la causa, diretta o indiretta, della mortalità umana, almeno in base alle loro storie. Gli umani devono morire definitivamente, perché il sole ha deciso così e perché non sono riusciti a riportare sulla terra lo spirito della figlia del sole, impresa che sarebbe valsa loro una revisione della “condanna” a morte decisa dal sole. Questo in sintesi è il mito cherokee delle origini, che spiega l’esistenza della morte.

Se è il sole a desiderare la morte per gli umani, è sua figlia a essere lo strumento tramite cui la morte entra nel mondo in via definitiva e irreversibile, anche se non per propria scelta. Nel mito qui presente, la figlia del sole è uccisa per sbaglio: il vero obiettivo era la madre. Nella storia citata da Mooney che cita Squier, invece, la figlia del sole muore per ragioni non precisate. A ucciderla, in entrambi i casi, è sempre un serpente. Questo è interessante. Se consideriamo che il serpente è associato alla pioggia presso molte tribù nordamericane ed è spesso uno degli “ingredienti” dei rituali per invocare la pioggia, come nel caso degli Hopi, che danzavano assieme ai serpenti (velenosi) per chiamare il temporale, sarebbe facile liquidare il tutto con una interpretazione meteo: la pioggia che uccide il sole. Siccome però non è il genere di interpretazione che io trovo interessante, passeremo oltre e la lasceremo a chi si diverte in questo modo.

Il serpente uccide la figlia del sole. In una variante citata da Mooney nelle sue note finali, il serpente uccide il sole stesso, che sarà poi sostituito dalla figlia. Non che siano serpenti normali, almeno nel mito principale: sono stati creati apposta per uccidere il sole. Creati dai Piccoli Uomini, ossia dai figli del tuono; giusto per rafforzare la connessione tra pioggia e serpente, se mai fosse necessario. Non che lo sia, non realmente, perché serpente e acqua sono una coppia che troviamo in moltissime popolazioni di tutto il mondo, nelle loro mitologie e nei loro rituali. L’interpretazione in chiave di acqua del serpente/drago è probabilmente la più comune, nel bene e nel male; a volte coesiste con la sua interpretazione in chiave di fuoco13, ma questo è un altro discorso e ci porterebbe troppo lontano dal nostro argomento principale.

Nel mito cherokee, vari serpenti sono stati creati dai figli del tuono, trasfigurando esseri umani. Sono stati creati per combattere contro il sole e proteggere gli uomini. Se due di loro falliscono nella missione, mentre il terzo prende una brutta piega e diventa più o meno un nemico dell’umanità (lo Uktena), il quarto ha successo, in un modo o nell’altro. È il serpente a sonagli, un animale che i Cherokee (e non solo loro, tra le tribù del Nordamerica) consideravano come una figura positiva e favorevole agli uomini. Il successo temporaneo aprirà la porta a un nuovo problema, perché il sole si nasconderà dopo la morte della figlia, ma almeno la minaccia di sterminio che incombeva sugli uomini è stata sventata. Adesso si tratta di risolvere il problema dell’oscurità.

La scomparsa del sole è un motivo che compare in diverse mitologie. Se per gli hittiti era normale che qualche dio decidesse a un certo punto di scomparire, arrabbiato per ragioni non precisate (non nei testi che si sono conservati, quantomeno), presso altri popoli gli dèi possono scomparire, sì, ma solo in casi molto particolari. Il parallelo col mito del ratto di Persefone è fin troppo facile, specie nella versione presentata nell’inno omerico a Demetra: a sparire non è il sole, ma è una dea-madre, in lutto per la scomparsa della figlia. Più interessante, a mio parere, è però un confronto col mito giapponese di Amaterasu chiusa nella grotta, che ci pone davanti al problema di un’altra divinità del sole che scompare, lasciando il mondo nelle tenebre14. La causa della sua scomparsa è anche simile, almeno in alcune versioni del mito giapponese.

Amaterasu era la dea del sole, in Giappone, nonché la principale divinità in assoluto, da cui discenderebbe anche la famiglia imperiale. In tutte le varianti del mito, questa dea si rinchiude in una grotta dopo un episodio estremo nel corso di un conflitto col fratello Susanoo, divinità invece collegata a temporali, monsoni e agricoltura. Dopo aver sopportato la devastazione delle sue risaie e altre azioni dannose commesse dal fratello, Amaterasu abbandona il mondo all’oscurità dopo che Susanoo ha interrotto il suo lavoro di tessitura, causando il suo ferimento o la morte di una delle sue ancelle, a seconda delle versioni. In una versione in particolare, a morire non è soltanto un’ancella di Amaterasu, ma la sorella minore della dea, chiamata Wakahirume.

Questa variante è di particolare interesse per noi. Tanto per cominciare, ci presenta due soli: Amaterasu, chiamata anche Ōhirume15, e la sorella minore, Wakahirume. Già i loro nomi ci dicono molto. Se Amaterasu significa semplicemente “che splende nel cielo”, più che sufficiente a farci capire la natura della divinità in questione, il nome Ōhirume ci dice che era la grande (ō) donna del sole (hirume); di contro, il nome della sorella, ossia Wakahirume, la qualifica come giovane (waka) donna del sole. Non si tratta di una figlia, come nel mito cherokee, ma una sorella minore, che in un qualche modo però ne duplicava il ruolo di sole, sia nel nome che nelle attività da tessitrice.

Tessere è un’attività tipica delle figlie del sole. A volte sono descritte come tessitrici perché era una normale attività femminile, ma in alcune mitologie sono tessitrici perché il loro lavoro è tessere la luce del giorno, l’abito di colori che avvolge il mondo. È così nel mondo baltico, per esempio, ma anche la mitologia greca ci ha fornito personaggi in linea con questa caratterizzazione. Circe, la figlia del dio Helios, compare in scena per la prima volta nell’Odissea quando è impegnata a tessere una tela enorme, mentre dovrebbe essere ben noto il collegamento tra il vello d’oro16 e Medea, la nipotina di zia Circe: nel suo caso il Sole era il nonno, d’accordo, ma sono dettagli secondari, era comunque una fanciulla solare, una hirume, per usare il termine giapponese. Nel mito giapponese, tessono sia Amaterasu sia la sorella minore Wakahirume, ed è proprio il modo violento con cui Susanoo interrompe questo lavoro a convincere Amaterasu a ritirarsi nella grotta, lasciando il mondo al buio.

Potremmo spingere oltre il confronto, sottolineando i punti di contatto che esistono tra la figura di Susanoo e il serpente, soprattutto nell’ambito del controllo delle acque per consentire l’agricoltura, ma ne abbiamo già parlato discutendo di fulmine e risaia e non mi pare il caso di ripetermi qui. Il punto è che, tanto nel mito giapponese quanto in quello cherokee, la morte di una figura solare minore spinge il sole a nascondersi, togliendo la luce al mondo. Parallelo curioso, certo, anche se non implica necessariamente un contatto tra i due popoli, che sarebbe peraltro assai improbabile, anche solo per ragioni puramente geografiche. I moventi alla base del gesto, poi, sono parecchio diversi: se nel mito cherokee fu un caso di legittima difesa, dato che il sole voleva uccidere tutti gli umani, nel mito giapponese si è trattato di un conflitto tra fratello e sorella, che peraltro ha avuto conseguenze soltanto nel mondo divino e non ha sfiorato gli umani, di cui neppure si parla17. Resta comunque affascinante la somiglianza che presentano le due storie.

Sia come sia, dopo la scomparsa del sole, il nuovo problema consiste nel riportare la luce. Se nei miti hittiti di divinità che spariscono è di solito la grande madre Hannahanna a stanare il fuggiasco, inviando una delle sue api, nel mito cherokee sono di nuovo i figli del tuono, i Piccoli Uomini, a confermarsi protettori dell’umanità, spiegando cosa sia necessario fare per riavere la luce: scendere nel paese dei morti e riportare indietro la figlia del sole. Comincia così la katabasis, che come al solito presenta una condizione da rispettare, se si vuole che il viaggio abbia successo.

Nulla di nuovo, sotto questo aspetto. L’esempio di Orfeo ed Euridice dovrebbe essere noto a sufficienza e fornisce un ottimo modello: chi vuole riportare indietro una persona dal regno dei morti deve rispettare un tabù. Spesso questo tabù è collegato al non guardare, in una forma o nell’altra. Orfeo non si doveva girare a guardare Euridice, Izanagi non doveva guardare la moglie Izanami nel mito cosmogonico giapponese, e così via. Nel mito cherokee, il tabù consiste nel non aprire la scatola in cui lo spirito del morto è stato rinchiuso; in altre storie nordamericane, citate da Mooney nelle sue note finali, il tabù consiste sempre nel non aprire un qualche contenitore. A volte questo tabù è infranto per curiosità, a volte perché si cede alle preghiere dello spirito rinchiuso. Il risultato resta sempre lo stesso, qualunque sia il tabù e qualunque sia il motivo per cui è infranto: la persona non sarà restituita al mondo dei vivi.

Più ancora del fallimento, che è inevitabile soprattutto nei miti delle origini come questo, a essere interessante nella seconda parte della storia è la descrizione del mondo dei morti. Si trova a ovest, e fin qui nulla di insolito. Sono molti i popoli che collocano il regno dei morti verso ovest, verso il tramonto del sole: nel Pacifico e dintorni è pressoché la norma. I morti vivono su un’isola misteriosa nel mare occidentale, dove il sole tramonta, perché spesso è proprio il sole a portarli con sé: raccoglie le loro anime durante il passaggio sopra l’isola, la terra o quello che è, e poi le deposita nel punto dove tramonta, quando esce dal mondo dei vivi ed entra nel mondo dei morti. Un classico esempio di psicopompo, insomma.

In questo mito cherokee il sole non è lo psicopompo, ma la direzione in cui cercare i morti resta la stessa: a ovest, nel paese Fantasma, nella terra Crepuscolare. Lì i morti vivono qualunque tipo di vita sia loro concesso di vivere. Soprattutto, i morti danzano. Niente di strano in questo: la danza in circolo è un rituale comune a molte tribù nordamericane e l’idea dei morti danzanti si spinge ben al di là del continente americano. La danza è un genere di attività priva di storia, priva di individualità e priva di tempo, che bene si adatta alla “vita” nel mondo dei morti, dove il tempo è sospeso, sostituito da un eterno presente, una durata senza cambiamenti, rafforzata dalla natura circolare della danza, che è movimento ma fa rimanere sul posto, è ciclicità, eterna ripetizione, e come tale un movimento sacro e rituale presso innumerevoli popoli dell’antichità18.

Per riportare indietro lo spirito di un morto, bisogna prima di tutto sottrarlo alla danza, sottrarlo alla esistenza corale, collettiva, priva di tempo e individualità che caratterizza i morti. Il metodo scelto in questo mito cherokee e in altri menzionati nelle note di Mooney consiste nel prendere a bastonate il bersaglio: poco ortodosso, forse, ma efficace. Sette bastonate nella versione presente del mito, quattro bastonate in altre varianti e storie. Numeri non casuali. Tre e quattro sono sacri presso molte tribù nordamericane: a volte soltanto uno dei due numeri, a volte entrambi19. Sette è la somma di tre e quattro: inevitabile che questo lo renda automaticamente sacro e carico di potere. Sul perché proprio questi numeri, poi, i pareri sono molteplici: c’è chi collega il tre alle fasi visibili della luna, ossia le fasi in cui la luna è viva (crescente, piena e calante), mentre il quattro rappresenterebbe tutta la sua vicenda, inclusa la morte temporanea, il novilunio20. Questo è solo un esempio, usando un modello che è accessibile da sempre a tutti i popoli del mondo, perché la luna si vede ovunque e si comporta ovunque nello stesso modo, raccontando ovunque un mito di vita, morte e rinascita ciclica, forse il mito più antico della storia umana, specie se prendiamo per buoni i risultati presentati da Alexander Marshack nel suo The roots of civilization.

Sia come sia, per riportare indietro la figlia del sole, gli umani che scendono nel paese dei morti la devono prima di tutto strappare alla danza, ossia sottrarre alla comunità con gli spiriti dei morti. La devono far tornare una figura isolata, un individuo, con le buone o con le cattive. Ci riescono, a suon di bastonate, da infliggere a volte con un legno particolare, magico per quella tribù; una volta fatto questo, la rinchiudono nella scatola, che dovranno tenere chiusa fino all’arrivo. Cosa che non faranno, ovviamente, ma questo è parte di ogni evento mitico in cui si cerca di far tornare tra i vivi qualcuno che appartiene ormai all’aldilà. Più interessante, semmai, è il ricorso alla scatola in cui rinchiudere lo spirito del morto, oppure altri oggetti con la stessa funzione.

L’accostamento al vaso di Pandora è semplice e semplicistico. Lo propone lo stesso Mooney, ma non mi pare rilevante e lo possiamo ignorare. Più che alla pura somiglianza nella forma, mi sembra opportuno guardare alla funzione che la scatola e gli altri oggetti simili rivestono all’interno dei miti indiani di spiriti recuperati dall’aldilà, in un modo o nell’altro.

Abbiamo visto che nel mondo dei morti gli spiriti sono di solito impegnati a danzare tutti assieme, in circolo. Le danze circolari di gruppo erano ricorrenti nella vita delle tribù nordamericane: oltre a fare parte dei riti, svolgevano probabilmente anche la funzione “ideale” di unire e tenere assieme la comunità, farne un corpo solo, simbolicamente. Nel mondo dei morti, le danze in circolo sono ciò che tiene assieme la comunità dei morti, qualcosa a cui i vivi non possono partecipare21. Chi è immerso nella danza non si accorge neppure della presenza dei vivi, almeno fino a che non sono i vivi a intervenire e spezzare il cerchio: a ogni bastonata, lo spirito da liberare diventa più cosciente e consapevole della presenza dei suoi liberatori. Quando un numero sacro di bastonate è stato somministrato, lo spirito è pronto per essere staccato dal circolo e infilato nella scatola o in altro tipo di contenitore: la presa che la comunità dei morti esercitava su di lui è stata spezzata.

Temporaneamente, sia chiaro. Solo temporaneamente. Non solo lo spirito si lamenterà per tutta la durata del viaggio, chiedendo di essere lasciato uscire, ma alla prima occasione fuggirà, tornando per sempre tra i morti, oppure rinascendo sotto forma di animale. Un uccello, nello specifico, che è una forma interessante a modo suo. Gli uccelli sono spesso psicopompi: alcune culture ne hanno uno in particolare, come il corvo, il caprimulgo, la civetta e così via, ma in generale tutti gli uccelli hanno una qualche funzione di intermediari. Perché volano e vivono a metà tra cielo e terra, sì, ma anche perché beccano i cadaveri e ne trasportano via l’anima, simbolicamente. Gli uccelli erano alla base delle cerimonie di scarnificazione che presso molte culture, anche neolitiche, precedevano la sepoltura definitiva dei cadaveri22: ripulivano le ossa dalla carne, rimuovendo in questo modo tutto il superfluo. Che lo spirito del morti, fuggito dalla scatola, diventi proprio un uccello non è strano, anzi: è perfettamente in linea con quella visione del mondo.

Quanto alla scatola in cui è rinchiuso lo spirito, possiamo interpretarla in due modi, che non si escludono a vicenda. Da un lato, può essere vista come una forma di controsepoltura, che sancisce la sua morte come morto e funge da preludio alla sua rinascita come vivo, alla sua transizione dal mondo dei morti a quello dei vivi. Non è surreale come potrebbe sembrare, perché ha una sua logica interna: se muori da vivo, diventi morto, quindi se muori da morto, diventi vivo. Da un altro lato, la scatola può essere vista come una versione alternativa del ventre materno. Lo spirito, rapito ai morti, rinascerà come vivo, ma solo se uscirà dal ventre al momento giusto. A rafforzare questa idea ci sono gli altri oggetti utilizzati in storie simili per rinchiudere uno spirito, come un sacchetto23 o il guscio di una noce. Che i morti e il regno dei morti siano l’origine tanto dei semi vegetali quanto dei bambini umani è una credenza che ritroviamo presso popolazioni di tutto il mondo, in una forma o nell’altra: non sarebbe dunque strano usare una scatola come ventre da cui far rinascere un morto.

Il contenitore, però, non è aperto al momento giusto, ma in anticipo: per questo la rinascita fallisce e lo spirito o è restituito alla comunità dei morti, oppure assume una forma diversa da quella a cui sarebbe stato destinato. È questo il caso della figlia del sole, che diventa un uccello.

Nel mito cherokee, la figlia del sole diventa un cardinale rosso. Nel mito cinese già citato, dai soli distrutti si libera il corvo rosso a tre zampe. Curiosa la scelta del colore, ma non troppo, visto che si sta parlando del sole: sia all’alba che al tramonto può apparire rosso ed entrambe le circostanze si adattano molto bene al contesto, anche su un piano simbolico. Se un sole al tramonto può essere associato a una idea di morte, un sole che sorge può essere associato all’idea di nascita: nel primo caso abbiamo il corvo rosso cinese, che nasce dal sole distrutto; nel secondo caso abbiamo il cardinale rosso dei Cherokee, che nasce dalla resurrezione (parziale) della figlia del sole. Questa è solo una semplice proposta di interpretazione, ma se ne possono pensare facilmente molte altre, a seconda dei gusti: la fantasia è il solo limite, in casi di questo tipo.

Fallito il tentativo di pacificare il sole riportando in vita sua figlia e persa per sempre la possibilità di essere immortali o di ritornare in vita dopo la morte, gli umani si trovano a dover fronteggiare un ennesimo problema: non più il calore eccessivo o le tenebre eterne, ma il diluvio universale, causato dalle lacrime del sole. Idea piuttosto curiosa, a modo suo, perché il sole non è associato così spesso alla produzione della pioggia, tanto più in quantità eccessive: è più facile semmai trovare una contrapposizione tra questi due principi, il sole e le nuvole, il sole e la pioggia, il sole/fuoco e l’acqua, e così via. In questo mito, invece, li troviamo combinati in una sola entità, anche se in una circostanza molto particolare, non ripetibile e non ripetuta.

Abbiamo inoltre, in rapida successione, le due cause più comuni per la distruzione del mondo: il fuoco e l’acqua. Per non spostarci dal continente americano, ci basta guardare alla mitologia azteca per ritrovarle in tutto il loro splendore. Nella visione ciclica del mondo di questo popolo, infatti, il fuoco e l’acqua si alternavano come cause della distruzione universale. Una volta il mondo si concludeva in una gigantesca conflagrazione, un’altra volta in un diluvio, e così via, fino ad avere esaurito i cicli di distruzione e creazione. Per i Cherokee non si arriva a tanto, ma è comunque interessante vedere come abbiano unito in una stessa storia queste due minacce, tanto care anche ad altri popoli in giro per il mondo. Ancora più interessante è la soluzione che hanno proposto per il problema del pianto/diluvio: una danza, un’altra danza.

Le danze erano davvero importanti per le tribù nordamericane, nel caso non ce ne fossimo ancora accorti. L’ultimo grande sussulto spirituale dei nativi americani, prima del collasso totale, fu proprio la ghost dance, un disperato movimento che invitava le tribù a danzare, perché attraverso la danza in circolo i vivi e i morti si sarebbero riuniti, ma che nella versione dei Lakota assunse un taglio millenaristico, puntando ad accelerare la fine del mondo e la sua rigenerazione, quando gli uomini bianchi sarebbero scomparsi, i grandi capi sarebbero tornati, i bisonti avrebbero di nuovo ricoperto le pianure e le tribù sarebbero rinate, in una terra ripulita da ogni male. Il movimento fu poi soffocato nel sangue col massacro di Wounded Knee, ma questo è un altro discorso. Siccome le danze erano così importanti, è proprio a una danza che si ricorre, per riportare il sorriso sul volto del sole e far cessare il diluvio.

La scena del sole in lutto per la scomparsa della figlia e che torna a sorridere guardando la danza è stata paragonata, ovviamente, al sorriso di Demetra in lutto per la scomparsa di Persefone, sorriso causato dalle battute “salaci” di Iambe nell’inno omerico, oppure dallo anasyrma24 di Baubo nella versione orfica di questo mito. Un altro parallelo lo possiamo trovare nel già citato mito giapponese di Amaterasu, dove sono le improvvise risate25 delle altre divinità ad attirare la dea del sole e indurla ad aprire la porta della grotta in cui si era rinchiusa. Troviamo risate utilizzate per esorcizzare demoni o indebolirli, come in una fiaba giapponese dove tre donne dovevano fuggire da un’orda di oni26, oppure in una versione di una storia ainu in cui il sole era stato rapito da un mostro, ma la lista si potrebbe allungare di parecchio, se volessimo includere anche tutte le fiabe in cui compare la classica “principessa che non ride mai” e l’eroe di turno che la deve far ridere per conquistare la sua mano ed evitare di essere giustiziato, come succede a chi fallisce.

Il sorriso e la risata sembrano avere la funzione di indebolire i demoni e umanizzare le divinità, almeno nelle storie. Se un demone indebolito dalla risata può essere sconfitto più facilmente, una divinità umanizzata dal sorriso sembra essere più incline a lasciar cadere il suo cruccio, qualunque ne sia la causa, e a mostrarsi benevola verso gli umani. Si potrebbe tentare un’analisi del significato del sorriso in generale, ma finiremmo troppo fuori tema. Il punto che ci interessa, in questo caso, è soltanto che la danza degli umani riporta il sorriso sul volto della dea del sole, fermando così il diluvio di lacrime e risolvendo anche l’ultimo problema legato al sole.

La parte finale di questo mito cherokee potrebbe anche configurarsi come mito delle origini, che ci racconta come sia nato un particolare rituale. Erano comuni presso i Cherokee le danze in cui a un certo punto si cambia improvvisamente il ritmo? Non lo so, non sono certo un esperto di danze, rituali o meno che siano. Non posso però escludere che una danza di questo tipo esistesse davvero. Se ci basiamo sulla storia, sembrerebbe un qualche rituale per far tornare il sole, una specie di danza della pioggia al contrario. Non impossibile, in linea di massima, ma sembra piuttosto strana. A suggerire che una danza simile sia esistita davvero sono però altri casi di risate divine, in parte già elencati in precedenza.

La danza di Ame no Uzume per far uscire Amaterasu, nel mito giapponese, è il modello mitico di danze eseguite realmente al cospetto dell’imperatore, discendente di Amaterasu. Il sorriso o la risata di Demetra sono il modello mitico delle battute sconce che si scambiavano le donne nel corso della processione da Atene a Eleusi, in occasione dei celebri Misteri eleusini. Anche la danza cherokee con cambiamento improvviso della canzone era eseguita davvero, seguendo il modello proposto nel mito? Non lo so e Mooney non ce ne parla, almeno non qui, ma è una possibilità.

Il mito cherokee ci racconta dunque una vicenda del sole, che parte dal suo rapporto complicato con gli esseri umani, attraversa alcuni miti delle origini e si conclude con una riconciliazione apparente: il problema iniziale è risolto e nel corso di questa soluzione il mondo si è arricchito di nuovi animali e nuovi rituali, per raggiungere una maggiore stabilità che prima mancava. Da un lato, gli umani non costituiscono più un problema, perché la durata della loro vita è adesso limitata e la morte è definitiva, non solo una fase di passaggio da cui si può tornare indietro. Il sole non costituisce più una minaccia, perché la sua ostilità verso gli umani si è esaurita, in un modo o nell’altro, e non potrà più bruciare il mondo col suo calore eccessivo, perché non ha più ragioni di fermarsi a mezzogiorno al centro del cielo, adesso che la figlia è scomparsa. Abbiamo nuovi animali che sono dalla parte degli uomini, come il serpente a sonagli, e animali che sono ostili e pericolosi, come lo Uktena. Ecco quanto abbiamo ottenuto, alla fine del mito.

Altre storie aggiungeranno dettagli sulla vita del sole, come il conflitto tra lei e suo fratello, la luna, ma sono miti diversi e qui non ci interessano, proprio come non è rilevante il viaggio che ogni giorno il sole compie nel cielo, quel cielo che per i Cherokee era una cupola di pietra colorata di azzurro, su cui il sole camminava: una idea che i Cherokee condividevano con altre tribù, dai Seneca dello stato di New York, ai Sioux delle grandi pianure, fino ai Tillamook dell’Oregon, giusto per dare una idea anche geografica della sua diffusione. Se uno scambio tra Cherokee e Seneca è probabile, alla luce sia della relativa vicinanza, sia dei frequenti contatti pacifici o meno tra le due tribù, più difficile è liquidare come “scambi” la presenza della stessa idea tra popoli che vivevano sull’oceano opposto27, ma così è: l’idea del cielo come cupola di pietra ricorre presso molte tribù, qualunque sia la sua origine.

Cielo a parte, alcuni elementi di questa storia li troviamo anche tra i miti di altri popoli. Sono somiglianze assai curiose, ma che è molto difficile poter ricondurre a un contatto diretto e uno scambio tra le rispettive culture: potrebbero però contenere qualche indizio su come funzioni il cervello umano in generale, quando si tratta di convertire il mondo in racconto. Possiamo anche ricondurre tutto a una supposta sopravvivenza, conscia o meno28, di un passato remoto comune all’intera umanità, risalente forse anche a prima del primo homo sapiens, se è questo che ci piace pensare. Quando si tratta di interpretare miti e variazioni sul tema, solo la fantasia è il limite, come già detto: ognuno può scegliere il taglio che preferisce e inquadrare ogni cosa nelle categorie che gli sono più congeniali, per raccontarsi la storia ermeneutica che desidera ascoltare come fiaba della buonanotte. Ci sono passatempi peggiori, dopotutto.

Per quel che mi riguarda, ho cercato di spiegare certi passaggi della storia cherokee alla luce di quanto accade e si raccontava sotto altri cieli. Alcune scene sembrano essere comuni al linguaggio del mito presso molti popoli, altre sembrano specifiche di certe culture. Potrebbe dipendere dalla struttura sociale all’epoca in cui il mito ha preso forma, potrebbe dipendere dal modo di pensare o di fantasticare di singoli individui o di interi popoli. Potrebbero esserci stati scambi di idee in epoche remote o potrebbero essere pure coincidenze. Per mia parte, trovo interessanti e affascinanti le somiglianze nelle storie di popoli così lontani tra loro: sulle cause di queste somiglianze, però, preferisco lasciare aperto il giudizio, a parte quei casi in cui lo scambio culturale è palese e documentato, come tra popoli confinanti da secoli.

Per quanto riguarda i Cherokee, scambi certi ci sono stati con tribù come i Seneca, che erano loro vicini, e forse anche coi Sioux, che potrebbero essere partiti dalla zona del South Carolina. Col mondo europeo o asiatico, però, i contatti possono essere esistiti soltanto in un periodo molto recente, a meno che non si vogliano abbracciare ipotesi più fantasiose, come Charles Leland che vedeva influssi scandinavi nelle storie delle tribù algonchine, localizzando anche uno pseudo-Loki che, a suo parere, sarebbe stato portato dai navigatori vichinghi e integrato poi nel folklore di quei popoli nordamericani. Sarà successo davvero? Chi lo sa. Fantasticare è lecito, ma è sempre meglio non eccedere con le comparazioni, almeno se le vogliamo usare come prove certe di contatti reali tra popoli.

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NOTE

1 - Per i Cherokee il cielo è solido e assomiglia un poco alla copertura di una caverna, di colore azzurro. Il Sole entra ogni giorno da una porta a est, lo percorre fino a ovest e poi esce di scena, per ripartire da capo il mattino seguente. Maggiori dettagli si possono trovare in altre storie contenute nello stesso volume da cui è tratta questa.

2 - Per i Cherokee il Sole è donna e la Luna è uomo. Sono fratello e sorella, ma esiste anche un mito in cui la Luna fa visite notturne al Sole, in incognito, e con intenzioni non esattamente fraterne. Il Sole scoprirà poi l’inganno in un modo simile a quello che vediamo nella storia di Amore e Psiche, fra le altre, e non la prenderà molto bene; da allora i due vivono separati in cielo, senza contatti, ed è dunque sorprendente vederli qui in rapporti pacifici. Il Sole avrà sepolto l’ascia di guerra, invecchiando. Troviamo la narrazione di questo incidente nella prima metà della storia numero 8, a pagina 256 del volume Myths of the Cherokee (1902) di James Mooney.

3 - Sono i figli del Tuono: come il padre, nelle storie cherokee sono sempre dalla parte degli esseri umani.

4 - Gigantesco serpente cornuto, dalle scaglie robustissime e capace di ammazzarti in mille modi diversi, a volte anche mentre dorme. Chi riesce a ucciderlo può trovare nella sua testa una pietra magica, che conferisce poteri enormi. Vive in laghi di montagna ed è più o meno l’equivalente cherokee del nostro drago, con tracce di basilisco.

5 - Tipo di legno che ricorre abbastanza spesso come materiale con cui sono fabbricati gli strumenti utilizzati negli incantesimi cherokee, almeno nelle loro storie.

6 - Potrebbe però anche essere una tanagra scarlatta. Nel testo inglese di Mooney si parla di “redbird”, un termine con cui si possono indicare entrambi gli uccelli. Ho scelto di tradurlo con “cardinale rosso” perché sembra essere tuttora l’uccello più comune nelle aree abitate un tempo dai Cherokee.

7 - Josiah Gregg, The Commerce of the Prairies, or The Journal of a Santa Fe Trader During Eight Expeditions across the Great Western Prairies and a Residence of Nearly Nine Years in Northern Mexico; vol. II, pp. 239–240; New York and London, 1844. (Nota di Mooney)

8 - Francis Parkman, The Jesuits in North America in the Seventeenth Century, seconda edizione, p. lxxxiii (citando Le Clerc); Boston, 1867. (Nota di Mooney)

9 - Teit, Thompson River Traditions, p. 85. (Nota di Mooney)

10 - Alfred Wiedemann, Religion of the Ancient Egyptians; New York, 1897, p. 55. (Nota di Mooney)

11 - Il corvo rosso a tre zampe, chiamato in giapponese yatagarasu, è una figura associata al sole in Estremo Oriente. A seconda delle storie in cui compare, nonché del paese, il corvo a tre zampe abita dentro il sole, è il sole esso stesso, è un messaggero del sole e variazioni sul tema. Qui lo vediamo nascere, o forse uscire, dalla distruzione dei soli extra; curioso notare che anche nel mito cherokee la morte di un sole extra sarà l’origine di un uccello rosso.

12 - Il nome Amanojaku, di solito, compare nel folklore giapponese in riferimento a un tipo di demone, soprattutto in un contesto buddhista. In questa fiaba è invece l’eroe che salva l’umanità. Si potrebbe dire parecchio su questa figura, ma ci porterebbe troppo fuori tema ed è meglio passare oltre, per il momento.

13 - Per gli ainu, ad esempio, il serpente era il fulmine, portatore del fuoco e innamorato della dea del fuoco, destinato o condannato a morire per propria scelta nel fuoco che bruciava i campi, per prepararli alla coltivazione. La forma di agricoltura praticata dagli ainu era infatti del tipo “taglia e brucia”, dove bruciare le sterpaglie nei campi serviva sia a liberare spazio, sia a fertilizzarli con la cenere: era facile trovare serpenti morti, dopo questi incendi, ma tutto era a posto, perché Kinasut Kamui (il dio serpente) aveva accettato questo compromesso in illo tempore.

14 - Nel mito hittita in cui il dio del sole scompare, invece, il problema principale per il mondo non è l’oscurità, ma il freddo, altro particolare che lo allontana dalle storie che ci interessano. Anche tra le tribù nordamericane esistono racconti in cui si deve risolvere il problema del freddo, ma non sono legati alla scomparsa di una divinità del sole che sia antropomorfa e soprattutto una madre in lutto, per cui non ci interessano in questa sede.

15 - E in molti altri modi. Il Nihonshoki ci elenca diversi nomi con cui era indicata questa dea, a seconda delle varianti delle sue storie: se Amaterasu è diventato poi il suo nome “ufficiale”, nell’antichità ne aveva anche diversi altri, forse legati a varie zone del Giappone, ma tutti che in un modo o nell’altro definivano la sua natura solare.

16 - Un vello di ariete, altro animale tipicamente abbinato al sole, almeno in area mediterranea. Il materiale di cui è fatto, l’oro, rafforza ulteriormente la sua natura solare: le figlie del sole abitualmente tessono con fili d’oro.

17 - In questo senso, il mito cherokee è più vicino ai miti hittiti di divinità scomparse, dove sono sempre indicati i danni che gli umani subiscono dalla sparizione del dio di turno.

18 - A volte il cerchio diventa spirale, immagine collegata tipicamente al regno dei morti, ma che può raccontare sia una storia di discesa nell’aldilà, sia una storia di ritorno dall’aldilà, a seconda della direzione in cui si muove la spirale. Questo però è un altro discorso e non ha a che fare col mito cherokee nello specifico.

19 - Il quattro sembra essere il più sacro, quello che ritorna con più frequenza. Al suo fianco c’è di solito un altro numero, a seconda della tribù. Spesso è il tre.

20 - E il novilunio è a propria volta collegato al numero tre, perché sono tre i giorni della luna nuova: il primo giorno in cui la luna muore svanendo dal cielo, il secondo giorno in cui la luna è assente, nell’aldilà, e il terzo giorno in cui la luna risorge, per un nuovo ciclo. Se i giorni li chiamiamo venerdì, sabato e domenica, abbiamo il modello alla base di un’altra figura divina che muore, scende nell’aldilà e poi risorge, una figura che dovrebbe essere nota a tutti, almeno in Occidente.

21 - E se un vivo partecipa? Beh, sappiamo cosa succede a chi siede alla tavola dei morti, mangiando qualcosa. Non è poi così difficile immaginare cosa potrebbe succedere a chi si unisce alle danze dei morti...

22 - Quando queste cerimonie erano condotte all’aria aperta, cosa che non sempre accadeva, i cadaveri erano di solito esposti sopra una piattaforma rialzata, raggiungibile solo dagli uccelli, che collaboravano con le intemperie e la normale decomposizione a rimuovere la carne, lasciando solo le ossa, considerate la sede dell’anima e meritevoli dunque di una sepoltura definitiva, spesso in preparazione alla rinascita che ci si attendeva. È in genere dalle sole ossa che i morti sono fatti tornare in vita, sia nei miti che nelle fiabe, nonché nel folklore di svariati popoli, incluse le confessioni estorte alle presunte partecipanti ai sabba nell’Italia del nord qualche secolo fa.

23 - Presumibilmente di pelle, anche se nelle note di Mooney non è specificato il materiale. Le nascite o rinascite da otri di pelle le troviamo anche nella mitologia greca, come in una variante sull’origine di Orione, e anche la storia delle api che nascerebbero dal cadavere di un bovino, sopravvissuta e considerata reale in Europa almeno fino al Seicento se non oltre, si può inserire nel motivo della vita che nasce da un’otre di pelle, a modo suo.

24 - Il gesto di sollevarsi le vesti per esporre i genitali. Erodoto lo chiamò in questo modo nelle sue Storie, descrivendo le donne egiziane che lo avrebbero praticato nel corso di una particolare festività agraria come forma di insulto scherzoso, ma lo ritroviamo in varie modalità e con vari significati presso numerose popolazioni, fin dal neolitico e forse anche prima. Il suo valore comico e offensivo è sopravvissuto molto a lungo, specie nelle storie.

25 - Provocate anche in quel caso da un tipo di anasyrma, a opera della danzatrice Ame no Uzume.

26 - Gli orchi del folklore giapponese. Ovviamente le donne li faranno ridere sollevandosi le vesti anche loro, tanto per cambiare.

27 - Ma i Sioux si sono spostati più volte per sottrarsi agli invasori europei, per cui è possibile che abbiano raccolto la loro immagine del cielo come cupola di pietra mentre si trovavano nei pressi della costa atlantica, nelle vicinanze dei Cherokee, o almeno ci sono gli estremi per formulare ipotesi di questo tipo, volendo.

28 - L’inconscio collettivo di Jung è annidato dietro l’angolo, pronto a balzarci addosso in ogni momento, se osiamo incamminarci su questa strada. Sono però rischi che potremmo anche voler correre, se lo riteniamo opportuno.