Adriano - racconti e altro

L’isola delle donne

Nei tempi antichi, un capo ainu di Iwanai andò in mare per catturare leoni marini, portando con sé i suoi due figli. Arpionarono un leone marino che, però, nuotò via con la lancia conficcata nel corpo. Nel frattempo un vento di burrasca cominciò a soffiare giù dalle montagne. Gli uomini tagliarono la corda che era legata alla lancia. Allora la loro barca continuò a galleggiare. Dopo un certo tempo, raggiunsero una bella terra. Quando l’ebbero raggiunta, un gran numero di donne in begli abiti scese dalle montagne alla spiaggia. Arrivavano portando una bella donna in una lettiga. Poi tutte le donne che erano venute alla spiaggia tornarono alle montagne. Soltanto quella sulla lettiga venne vicino alla barca, e parlò così: «Questa terra è la terra delle donne. È una terra dove nessun uomo vive. Essendo adesso primavera, ed essendoci qualcosa di speciale in questo mio paese, voi sarete accolti e mantenuti nella mia casa fino all’autunno; in inverno poi voi diventerete i nostri mariti. La prossima primavera vi manderò a casa. Dunque adesso portatemi a casa mia.»

A quel punto il capo ainu e i suoi figli trasportarono la donna in lettiga alle montagne. Videro che il paese era tutto come una brughiera. Poi la signora del paese entrò in casa. Vi era lì una stanza con una rete dorata, come una zanzariera. I tre uomini furono messi al suo interno. La donna li nutrì lei stessa. Durante il giorno, numerose donne venivano. Sedevano accanto alla zanzariera dorata, guardando gli uomini. Di notte tornavano a casa. Così un poco alla volta venne l’autunno. Allora la signora parlò così: «Siccome l’autunno della foglia è adesso arrivato, e siccome ci sono due seconde in comando oltre a me, manderò da loro i tuoi due figli. Tu diventerai mio marito.» Poi arrivarono due belle donne e si portarono via per mano i due figli, mentre la signora si tenne per sé il capo.

Così gli uomini vissero là. Quando venne primavera, la moglie del capo gli parlò così: «Noi donne di questo paese siamo diverse dalle vostre. Nello stesso periodo in cui l’erba comincia a spuntare, i denti spuntano nelle nostre vagine. Così i nostri mariti non possono stare con noi. Il vento dell’est è nostro marito. Quando il vento dell’est soffia, noi tutte giriamo il nostro sedere verso di lui, e così concepiamo figli. A volte partoriamo figli maschi. Ma questi figli maschi sono uccisi ed eliminati quando diventano grandi a sufficienza per giacere con le donne. Per questo motivo è una terra che ha solo donne. È chiamata il paese delle donne. Così quando, portato da un qualche vento cattivo, tu arrivasti su questa mia terra, c’erano denti nella mia vagina perché era estate, per questo motivo non ti ho sposato. Ti ho sposato però quando i denti sono caduti. Ora, siccome i denti stanno crescendo di nuovo nella mia vagina perché è arrivata la primavera, è adesso impossibile per noi dormire assieme. Ti manderò a casa domani. Dunque dirai ai tuoi figli di venire qui oggi, per essere pronti.»

I figli vennero. La signora rimase in casa. Poi, con le lacrime che le segnavano il volto, parlò così: «Anche se è pericoloso, stanotte è la nostra ultima notte. Dormiamo assieme!» Allora l’uomo, molto spaventato, mise un bel fodero in una borsa sul suo petto, e giacque con le donna usando questo fodero. Il segno dei denti rimase sul fodero. Venne il giorno seguente. Allora l’uomo andò alla sua barca, portando i figli con sé. La signora pianse e parlò così: «Dato che sta soffiando un buon vento via dal mio paese, se monterai la vela e veleggerai dritto in avanti, tu potrai raggiungere la tua casa a Iwanai.» Così allora gli uomini salirono sulla barca e uscirono in mare. Un buon vento stava soffiando giù dalle montagne e loro lo seguirono con la vela. Dopo un certo tempo videro terra; videro le montagne attorno a Iwanai. Andando ancora avanti per un po’, giunsero alla spiaggia di Iwanai. Le loro mogli indossavano cappucci da vedove. Così i mariti le abbracciarono. Così la storia del paese delle donne fu ascoltata con attenzione. Tutti gli ainu videro il bel fodero che il capo aveva usato con quella donna.

(Tradotta letteralmente. Raccontata da Penri il 17 luglio 1886.)

Commento

Una storia della vagina dentata, un motivo che sembra godere di una certa popolarità tra gli ainu: Bronisłav Piłsudski ne raccolse un esempio anche tra gli ainu di Sachalin, anche se il suo racconto è piuttosto diverso da questo, come vedremo in seguito. Nella storia raccolta da Chamberlain, infatti, il motivo della vagina dentata si fonde con quello delle amazzoni, producendo così un paese abitato da sole donne, tutte anatomicamente letali per gli uomini di passaggio. Rispetto alla tipica storia della vagina dentata, però, le “amazzoni” di questo racconto non conservano i denti per tutto l’anno, ma li perdono e li riacquistano seguendo un ciclo stagionale. Non è forse un caso che siano prive di denti proprio in inverno, ossia nel periodo in cui la natura è morta, mentre li recuperano all’inizio della primavera, quando la natura si risveglia e ricominciano vita e accoppiamenti.

O forse è solo un caso e sto interpretando troppo, complicando una storia che è invece molto più semplice? Ai posteri l’ardua sentenza.

Sia come sia, l’inverno è il solo periodo in cui la vagina delle donne non ha denti e possono così fare sesso senza uccidere l’uomo di turno. Come da tradizione nelle storie di questo genere, non manca la scena in cui il protagonista inserisce un oggetto, anziché usare il proprio pene; a differenza delle altre scene di questo tipo, però, il gesto non serve a spezzare i denti, ma solo a dare al pubblico una prova concreta della pericolosità di quelle donne. Forse perché, in generale, le donne non si sono comportate da nemiche in questa storia, per cui non è necessario usare mezzi drastici.

Molto diversa è la situazione nel racconto che Piłsudski registrò tra gli ainu di Sachalin. In quel caso, troviamo una sola donna che ha una vagina dentata; i primi due uomini che interagiscono con lei, contro la sua volontà (o con la sua complicità? Il racconto suggerisce che la donna potrebbe avere aggiunto un filtro stimolante al cibo offerto agli uomini), muoiono per ovvie ragioni. Dettaglio interessante è che la morte si verifica in contemporanea col coito: solo a quel punto la vagina li azzanna. Il terzo a tentare, invece, sopravvive, perché utilizza una pietra per spezzare i denti e rompere così la “maledizione” che gravava sulla donna. Se davvero è una maledizione: il racconto non è chiaro a riguardo, ma la donna li ringrazia a lavoro concluso.

Una terza storia, registrata sempre tra gli ainu di Sachalin ma da Emiko Ohnuki-Tierney e pubblicata a pagina 25 del suo The Ainu of the northwest coast of southern Sakhalin (1974), ci racconta che alcuni pescatori ainu, usciti in mare per una battuta di caccia, si perdono nella nebbia e finiscono sulla solita isoletta misteriosa, dove trovano un insediamento ainu abitato soltanto da donne. Queste donne erano molto entusiaste alla vista degli uomini e volevano subito dormire con loro, ma nascondevano un piccolo particolare: le loro vagine erano piene di denti, che rendevano fatali i rapporti sessuali (per gli uomini, quantomeno). Si salva soltanto un pescatore, che inserisce la propria spada al posto del pene: i denti si spezzano sul metallo e lui può fuggire illeso, tornando infine al suo villaggio. Queste donne erano ingravidate dal vento che soffiava dalle montagne, nella cui direzione loro esponevano il sedere.

Se il racconto ainu registrato da Chamberlain ci mostra donne pericolose sì, ma in linea di massima pacifiche e ragionevoli, quello di Ohnuki-Tierney le descrive come amazzoni che cercano attivamente di uccidere ogni uomo di passaggio e introduce il motivo del ricorso a un oggetto per spezzare i denti, invece che per proteggersi soltanto. Questo motivo, ancora più chiaro nella storia registrata da Piłsudski, dove non abbiamo un gruppo ma una singola donna affetta dal problema, si inserisce piuttosto bene in un tipo di racconto analizzato di passaggio da Vladimir Propp nel suo Le radici storiche dei racconti di fate. Potrebbe essere il caso di spenderci qualche parola, già che ci siamo.

Nel capitolo nono della sua opera, nella sezione numero diciannove, “La notte nuziale”, Propp esamina un episodio che ricorre in diverse fiabe russe, ma non solo: la notte di nozze con la principessa che diventa una prova in cui l’eroe di turno rischia la vita. Perché? A differenza di quanto accade nelle storie ainu qui osservate, nelle classiche fiabe russe non è reso esplicito il pericolo sessuale della prima notte di nozze: si preferisce ricorrere a eufemismi, giri di parole e variazioni sul tema. Gli aspiranti mariti sono uccisi dalla forte stretta della mano della ragazza o cose simili. Qualunque sia la forma in cui è descritto, a ogni modo, il nucleo non cambia: se l’eroe va a letto con la principessa, morirà. Deve di solito provvedere l’aiutante magico a prendersi cura della donna, per renderla innocua rimuovendo la maledizione (o quello che è, a seconda dei casi) e salvare così la vita al protagonista. Spesso si tratta di fare stringere alla donna un oggeto di metallo, forte a sufficienza da resistere alla presa. Sempre per rimanere in tema di eufemismi, insomma.

Eufemismi che, in effetti, potrebbero anche essere derivati da un altro episodio che troviamo in diverse fiabe: il gigante che chiede all’eroe di stringergli la mano, con l’intenzione di stritolarla grazie alla sua forza prodigiosa, per ritrovarsi poi battuto dall’astuzia dell’eroe (spontanea o suggerita dall’aiutante magico, a seconda dei casi), che gli porge una sbarra di ferro al posto della mano. Le storie della prima notte di nozze fatale potrebbero proprio avere usato questo episodio per rimuovere gli elementi sessuali che erano presenti nelle versioni più antiche. Siamo sempre nel campo delle ipotesi, sia chiaro, ma questa mi pare ragionevole e plausibile.

Prendendo in esame le storie del Nordamerica e della Siberia, però, la situazione si fa più chiara: il pericolo è la vagina dentata della donna, che uccide tutti gli uomini che cercano di andare a letto con lei. Propp riferisce anche l’esempio di un racconto raccolto da Lev Sternberg, in cui i protagonisti sono sei ainu che incontrano sei donne e il resto si può immaginare. È il capo della spedizione ainu a risolvere il problema, procurandosi un sasso e introducendolo poi in una vagina, per spezzarle i denti. La spiegazione proposta da Propp è che in tutti questi racconti si nasconda un riferimento a quello che lui definisce “il pericolo derivante dalla deflorazione”, riflesso mitologico della rappresentazione del potere della donna. Propp prosegue poi ipotizzando che all’origine ci sia un rito di iniziazione femminile, in cui le ragazze erano deflorate ritualmente nel corso di una cerimonia, in modo non dissimile dalla circoncisione a cui erano sottoposti i ragazzi per essere ammessi tra gli adulti della loro comunità.

Interpretazione ragionevole? Dipende dai gusti. Propp ammette che non esistono dati sufficienti per dimostrare che rituali simili si siano mai svolti davvero (o almeno non esistevano quando lui scrisse quel libro), però l’ipotesi gli piace molto e così cerca di autoconvincersi che sia vera. Per dettagli, leggete pure quella parte della sua monografia, se proprio vi interessa.

Possiamo anche menzionare una curiosa storia raccolta da Knud Rasmussen tra gli Inuit della Groenlandia, che non appartiene proprio alla serie della vagina dentata, ma presenta somiglianze a sufficienza da indurci a pensare che, forse, la sua origine si trovi nelle sue immediate vicinanze. È la storia di una donna che aveva una coda di ferro e la simpatica abitudine di divorare gli uomini. Quando uno straniero passava a visitarla, lei aspettava che si addormentasse, poi balzava in aria e atterrava sopra di lui, trapassandolo a morte con la sua coda di ferro. Un giorno, un uomo più astuto degli altri, nonché dotato di poteri magici, fa solo finta di addormentarsi; quando la donna gli balza addosso, lui la schiva e spezza con un sasso la coda di ferro. Dopo un inseguimento in cui entrambi usano la magia delle parole per sconfiggere l’altro, l’uomo riesce a fuggire e da allora la donna non ha più ucciso nessuno, perché la sua coda di ferro è stata spezzata.

Sono sicuro che Freud si divertirebbe un mondo ad analizzare una storia di questo tipo, con tutti i doppi sensi e le allusioni che vi si possono trovare, specie quando l’uomo esprime il desiderio magico di poter trapassare la donna col suo arpione, mentre sta fuggendo da lei. Non che la trapassi davvero, ma il potere della sua parola la butta a terra e gli concede il tempo necessario a raggiungere il kayak e mettersi in salvo. Può essere considerata anche questa una variante sul tema della vagina dentata? Non è impossibile, direi, ma più in generale mi sembra che condivida la stessa idea di fondo, pur sviluppandola in modo diverso: la donna nasconde pericoli dentro di sé e l’uomo deve imparare a disarmarla, per evitare che quel potere sia rivolto contro di lui.

Se poi ci vogliamo interrogare sulle possibili origini dell’immagine di una vagina dentata, qualunque sia il luogo e il tempo in cui ha fatto la sua prima comparsa, una risposta ipotetica potrebbe partire dalle affinità tra vagina e bocca. Entrambe dotate di labbra e poste grossomodo agli estremi opposti del tronco umano, sono anche gli orifizi utilizzati di preferenza dalle divinità creatrici in varie mitologie. Se le dee possono generare il mondo e tutte le sue componenti in un modo molto naturale, tramite il parto, gli dèi non possono ricorrere allo stesso metodo, per ovvie ragioni anatomiche, e devono così utilizzare un surrogato. La creazione vocale, tramite la potenza della parola, è una di queste possibilità. La troviamo nel primo libro della Genesi, per esempio, ma anche nel Popol Vuh dei Quiché discendenti dei Maya (grossomodo), e anche lo stesso Marduk, nello Enuma Elish babilonese, prima di combattere contro Tiamat e procedere alla creazione del mondo è sottoposto a una prova dalle altre divinità, che vogliono verificare la potenza distruttrice e poi creatrice della sua voce. Ptah in Egitto è un altro dio che crea utilizzando il potere della propria voce, e la lista potrebbe continuare. Il punto è che, se le dee ricorrono al parto, gli dèi devono spesso arrangiarsi con la voce, usando quindi la bocca come surrogato dell’organo femminile.

Questa non vuole certo essere una discussione esaustiva, ma solo uno spunto. Considerate certe affinità fisiche e mitiche tra vagina e bocca, è possibile che alcuni popoli abbiano spinto la metafora più in là, dotando anche la vagina di denti, come li possiede la bocca. Per esprimere un qualche timore degli uomini nei confronti delle donne? Forse, ma qui si sconfinerebbe in un campo diverso con la nostra analisi e io lascio molto volentieri ad altri questo viaggio.