Adriano - racconti e altro

Osservazioni preliminari

Ho visitato l’isola di Ezo per la terza volta nell’estate del 1886, allo scopo di studiare la lingua ainu, con l’intenzione di illustrare attraverso di essa il problema oscuro della nomenclatura geografica del Giappone. Come tende però ad accadere in occasioni simili, il principale obiettivo della mia visita smise presto di essere il mio unico obiettivo. Chi vuole imparare un linguaggio deve cercare di balbettare in esso, e più specialmente deve cercare di indurre i nativi a parlarlo in sua presenza. Ora, a Ezo sono pochi gli argomenti di discussione. Gli ainu si trovano troppo in basso sulla scala dell’umanità per avere una qualunque idea dell’arte civilizzata di “fare conversazione”. Quando, dunque, la pesca e il tempo sono esauriti, un europeo che si trova in uno dei loro terribili, sporchi insediamenti lungo la costa, si ritroverà – o almeno io mi sono ritrovato – tristemente a corto di ogni altro mezzo per mettere in moto le lingue dei suoi compagni nativi. È a quel punto che le fiabe vengono in soccorso. Gli ainu non suggeriranno loro stessi l’idea. Proporre una idea non è nelle loro abitudini. Sono però contenti di seguirle, quando sono suggerite. Ripetere semplicemente qualcosa che hanno conosciuto a memoria fin dai giorni della loro infanzia non è uno sforzo eccessivo per i loro cervelli che si stancano facilmente, a differenza di quanto lo sia il mantenere una conversazione con qualcuno che parla a fatica il loro linguaggio. Le loro lingue sono sciolte in un attimo.

Nel mio caso, mi sono ritrovato, dopo poco tempo, ad ascoltare le storie per quello che erano – non solo come un esercizio nel linguaggio; mi sono anche azzardato a includerne alcune nel mio “Memoir on the Ainos” che è stato pubblicato alcuni mesi fa dall’Università Imperiale del Giappone. Alcuni commenti in una recensione di questo “Memoir”, contenuta in Nature del 12 maggio 1887, mi hanno incoraggiato a credere che antropologi e studiosi di mitologia comparata potevano essere interessati ad avere a propria disposizione qualcosa più di alcuni esempi dei prodotti mentali di un popolo che è interessante per tre ragioni: interessante perché il suo dominio si estendeva un tempo sull’intero arcipelago giapponese; interessante perché assolutamente niente di certo si sa sulle sue origini e relazioni; interessante perché si trova, per così dire, ai suoi ultimi momenti. Ho dunque collezionato e classificato tutte le storie che sono state trasmesse a me dagli ainu, in lingua ainu, durante il mio ultimo soggiorno sull’isola e molto più tardi a Tōkyō, quando, con la gentile collaborazione del presidente dell’università, il signor H. Watanabe, un ainu di eccezionale intelligenza fu procurato dal nord e trascorse un mese a casa mia. Queste storie formano il documento che io ho adesso l’onore di presentare all’attenzione della vostra istruita Società.

Sarebbe senza dubbio possibile trattare il soggetto del folklore ainu in grande dettaglio. Il commento potrebbe facilmente diventare più lungo del testo. Ogni storia potrebbe essere analizzata in accordo con metodi proposti dalla Società del Folklore; una “rassegna degli incidenti” potrebbe essere allegata a ognuna, come nelle incantevoli Wide-Awake Stories dei signori Steel e Temple dal Punjab e dal Kashmir. Più interessante per gli antropologi, rispetto a una simile dissezione meccanica di ogni storia considerata come una entità indipendente, sarebbe un tentativo di districare le affinità di queste storie ainu. Quante di queste, quali parti di queste, sono originali? Quante di queste sono prestiti, e da dove?

Portare a termina una simile indagine con la completezza che, sola, le darebbe un serio valore, richiederebbe una spesa molto maggiore di tempo rispetto a quanto i miei doveri mi consentirebbero, e forse anche una dotazione di conoscenza multiforme che io non possiedo. Mi limiterò dunque a suggerire di passaggio che le probabilità del caso sono a favore del fatto che gli ainu le abbiano importate dai loro unici vicini intelligenti, i giapponesi (l’arrivo dei russi è così recente che non possono neppure essere presi in considerazione in questo caso). Le ragioni per attribuire ai giapponesi, piuttosto che agli ainu, il precedente possesso (che peraltro non implica in alcun modo l’invenzione) delle storie comuni a entrambe le razze, sono in parte generali e in parte specifiche. Dunque è a priori più probabile che lo stupido e barbaro sarà educato dall’intelligente e civilizzato, invece che l’intelligente e civilizzato dallo stupido e barbaro. D’altro lato, come ho dimostrato altrove, uno studio comparato dei linguaggi dei due popoli mostra chiaramente che questa visione a priori è finora pienamente supportata almeno per quanto riguarda il campo linguistico. La stessa osservazione si applica ai costumi sociali. Anche nella religione, la più conservativa di tutte le istituzioni, specialmente tra i barbari, gli ainu hanno permesso che si infiltrasse l’influsso dei giapponesi. È il liquore di riso giapponese, sotto il nome giapponese di sake, che loro offrono alle proprie divinità. La loro stessa parola per preghiera sembra essere in giapponese arcaico. Un eroe medievale giapponese, Yoshitsune, è generalmente tenuto da loro in reverenza religiosa. L’idea dei terremoti come causati dal movimento di un pesce gigantesco sotto la terra è condivisa dagli ainu coi giapponesi e con svariate altre razze.

Allo stesso tempo, il tenore e la tendenza generale delle storie e tradizioni degli ainu ci mostrano un aspetto estremamente diverso da quello che caratterizza il folklore del Giappone. Gli ainu, nella loro umile forma, hanno l’abitudine di moralizzare e speculare sulle origini delle cose. Una osservazione delle storie seguenti mostrerà che un numero sorprendentemente largo di loro è costituito da tentativi di spiegare qualche fenomeno naturale, o di esemplificare qualche semplice precetto. In effetti sono scienza, - scienza fisica e scienza morale -, a uno stadio molto primitivo. Le spiegazioni date in queste storie soddisfano completamente la mente dell’ainu adulto del giorno d’oggi. Le fiabe ainu non sono, come lo sono le nostre, sopravvivenza di uno stadio precedente di pensiero. Sgorgano dal loro stadio attuale di pensiero. Anche se non inventate negli ultimi anni, coincidono con la visione delle cose degli ainu attuali, - al punto che un ainu, che racconta una di queste storie, lo fa con l’impressione di stare narrando un evento reale. Non “fa finta” come le balie europee, o anche come i bambini europei, che hanno sempre, in un qualche angolo della loro mente, un presentimento dello scetticismo dei loro anni successivi.

Per quanto io posso giudicare, quella “malattia del linguaggio” che noi chiamiamo metafora e che è considerata da certe autorità essere stata il principale fattore per la produzione dei miti ariani, non ha posto per esistere nel mondo fantastico ainu; neppure i fenomeni meteo hanno attirato più attenzione delle altre cose. Ma io parlo pronto a essere corretto. Forse non è saggio stimolare controversie su un punto come questo, a meno che non si sia ben armati per la lotta.

Mancando una elaborata analisi delle fiabe ainu, e una discussione delle loro origini e affinità, ciò che io mi avventuro a sottoporre all’accettazione della vostra Società è il semplice testo delle storie stesse, tradotto in inglese. Nove di queste sono già state stampate nel “Memoir” sugli ainu già menzionato. Una è stata stampata (ma non proprio nella sua forma genuina, che era proibita dalla decenza) alla fine della grammatica del signor Batchelor inclusa nello stesso “Memoir”. Tutte le altre sono offerte adesso al mondo per la prima volta, non essendo mai apparse in altri linguaggi, neppure in giapponese.

Vorrei attirare soprattutto l’attenzione sulle caratteristiche della traduzione, che è assolutamente letterale nel caso di tutte quelle storie che ho trascritto originalmente in ainu da quanto mi dettavano informatori nativi. Quando il tempo era scarso, però, a volte mi sono fatto raccontare la storia in modo più rapido e l’ho trascritta in seguito solo in inglese, ma mai più di un paio di ore dopo. In casi simili, benché ogni dettaglio si sia preservato, la resa è ovviamente non letterale. Questo, e il fatto che c’erano diversi informatori, spiegherà le differenze di stile tra le varie storie. Ho chiosato ogni storia o con le parole “tradotta letteralmente”, oppure con le parole “trascritta a memoria”, assieme alla data e al nome dell’informatore, in modo che chi userà la collezione potrà sapere esattamente che cosa stia maneggiando. In tutte queste situazioni, assoluta accuratezza, assoluta letterarietà, quando la si può ottenere, sono di sicuro la sola cosa necessaria. Né tutto il fascino della parola, né tutte le teorie ingegnose del mondo, possono per un momento essere messe sul piatto della bilancia contro la rigida correttezza, anche se alcuni aspetti della rigida correttezza potrebbero rovinare il soggetto per un suo trattamento popolare. La verità, la verità nuda e cruda, la verità senza neppure un perizoma addosso, dovrebbe di certo essere l’unico obiettivo dell’investigatore quando, dopo avere scoperto un nuovo gruppo di fatti, si prepara a presentarli all’attenzione del mondo scientifico.

Naturalmente le storie ainu, come altre storie, possono anche essere trattate da un punto di vista letterario. Alcune delle storie della presente collezione, illustrate graziosamente da disegni di artisti giapponesi, e alterate, purificate e arrangiate virginibus puerisque, sono in corso di preparazione proprio in questo periodo dai signori Ticknor & C., di Boston, che pensano come me che un lavoro simile potrebbe piacere ai bambini sia in Inghilterra che negli Stati Uniti. Ma lavori simili non hanno valore scientifico. Non hanno alcuna volontà di averne. Sono solo letteratura giovanile, i cui abiti inglesi hanno così poca relazione con gli originali barbarici quanta la moda parigina ne ha con l’anatomia del corpo umano.

La presente opera, invece, è destinata al solo esame di antropologi ed etnologi, che sarebbero stati privati di uno dei modi migliori per giudicare lo stato della mente ainu, se le orribili indecenze degli originali fossero state rimosse, o se fossero stati corretti gli errori occasionali. Le madri ainu, per far addormentare i figli, mentre li dondolano nelle culle appese sopra il focolare della cucina, usano parole e toccano argomenti che noi non menzioneremmo mai; proprio questa è una caratteristica degna di nota. L’innocente selvaggio non si può trovare nel paese degli ainu, se mai lo si può davvero trovare da qualche parte. L’immaginazione degli ainu è pruriginosa quanto quella di uno Zola, ma molto più esplicita. Vi prego, dunque, di biasimare lei, se molto del linguaggio della presente collezione è di un tipo che non è di solito messo in stampa. Le storie ainu e le conversazioni ainu sono il corrispettivo intellettuale dello sporco, dei pidocchi e delle malattie della pelle che coprono i corpi degli ainu.

Per la quadruplice classificazione delle storie, non c’è alcuna pretesa di importanza. Era solo necessario sistemarle in un qualche modo, e la suddivisione in “Storie sull’origine dei fenomeni”, “Storie morali”, “Storie del ciclo di Panaumbe e Penaumbe” e “Storie miste” si suggeriva da sola come un comodo arrangiamento per il lavoro. I “Frammenti di folklore” che sono stati aggiunti alla fine possono forse essere considerati fuori luogo in una collezione di storie. Ho pensato però che fosse meglio sbagliare per eccesso invece che per difetto. Si può infatti presumere che l’obiettivo di ogni ricerca di questo genere sia piuttosto quello di guadagnare una conoscenza tanto minuta quanto possibile dei prodotti mentali del popolo studiato, invece di adeguarsi scrupolosamente a un qualunque sistema.

Deve esserci un grande numero di storie ainu al di fuori di quelle qui proposte, siccome i principali narratori di storie sono le donne, nel paese degli ainu come in Europa, e io ho ricevuto le mie storie soltanto dagli uomini: le donne ainu erano fin troppo timide davanti a uomini stranieri perché fosse possibile intrattenere una qualche conversazione con loro. Anche tra le storie che ho sentito io, molte sono andate perse per la distruzione di alcuni documenti – fra le altre, almeno tre del ciclo di Panaumbe e Penaumbe, che non mi azzardo a ricostruire a memoria dopo tutto questo tempo. Molte ore preziose furono sprecate in modo simile, e molto materiale reso inutile, dal vizio nazionale dell’ubriachezza. Un intero mese a Hakodate fu sprecato in questo modo e non ottenni alcunché da un ainu di nome Tomtare, che era stato trovato per me grazie alla cortesia di Sua Eccellenza il Governatore di Hakodate. Si può trascorrete tempo in compagnia di uomini che puzzano e che soffrono, come quasi tutti gli ainu, di pidocchi e di una varietà di disgustose malattie della pelle. È una mera questione di sopportazione e di disinfettanti. Ma è impossibile ottenere informazioni da un ubriacone. Una terza ragione per il numero relativamente piccolo di storie che è possibile raccogliere durante un periodo limitato di frequentazione è la frequenza delle ripetizioni. Senza dubbio queste ripetizioni hanno un valore di conferma, specialmente quando la ripetizione ha la forma di una variante. Tuttavia, si possono sacrificare volentieri in cambio di nuove storie.

I nomi ainu allegati a queste storie sono quelli degli uomini da cui mi furono raccontate, ossia Penri, l’anziano capo di Piratori; Ishanashte di Shumunkor; Kannariki di Poropet (Horobetsu in giapponese) e Kuteashguru di Sapporo. Tomtare di Yūrap non compare per la ragione succitata, che ha rovinato tutta la sua utilità. I soli nomi mitologici che appaiono sono Okikurumi, che gli ainu considerano essere stato il loro civilizzatore in epoca antica, sua sorella-moglie Turesh o Tureshi[hi] e il suo braccio destro Samayunguru. I “simboli divini” di cui si parla di continuo nelle storie sono gli inau o bastoni intagliati, spesso descritti in libro di viaggi.

Basil Hall Chamberlain.
Miyanoshita, Giappone,
20 luglio 1887.