Introduzione
Dodici secoli fa, uno storico cinese dichiarò che “sulle frontiere orientali del paese del Giappone c’è una barriera di grandi montagne, oltre la quale si trova la terra degli Uomini Pelosi.” Questi erano gli ainu, chiamati così dalla parola nella loro lingua che significa “uomo”. Sulla maggior parte del paese di questi indigeni rozzi e inermi i giapponesi si sono espansi già da molto tempo e soltanto un numero sempre più piccolo di superstiti di quel popolo abita ancora l’isola di Ezo. Fin dai tempi antichi in cui un paio di loro furono inviati come curiosità all’imperatore della Cina, la rozzezza del loro aspetto e dei loro costumi li ha resi oggetto di interesse presso nazioni più civilizzate. Molti scrittori europei li hanno descritti, ma quasi nessuno ebbe opportunità simili a quella del signor Basil Hall Chamberlain, Professore di Filologia all’università di Tōkyō, che ha trascritto direttamente dagli ainu la presente collezione di loro storie, introducendola con una descrizione dei loro modi e del loro stato mentale. Non può certo essere il mio compito offrire informazioni su un soggetto trattato in maniera così eccellente, ma la richiesta dell’Editore della Rivista di Tradizioni Popolari, perché io scrivessi una introduzione, mi permette di attirare l’attenzione sulle opinioni portate avanti dal Professor Chamberlain in un’altra sua pubblicazione1 che, essendo stata stampata in Giappone, potrebbe essere sfuggita a molti studenti inglesi di folklore, anche tra quelli interessati al curioso problema degli ainu.
Come è ben risaputo, la pelosità degli ainu li contraddistingue nettamente dai giapponesi dal volto liscio. Nessuno può guardare le fotografie degli ainu senza ammettere che il loro confronto coi barbuti contadini russi, proposto così spesso, è molto appropriato. La somiglianza è molto rafforzata dai forti lineamenti quasi europei degli ainu, in netto contrasto col tipo giapponese di faccia. Ovviamente tutto questo ha suggerito una teoria secondo cui gli ainu apparterrebbero alla razza ariana e, benché l’idea non arrivi da nessuna parte quando la si esamina strettamente, la sua esistenza è già un attestato delle speciali caratteristiche razziali ainu. Bisogna anche menzionare una peculiarità anatomica dello scheletro ainu, consistente in un notevole appiattimento delle ossa di braccia e gambe. Nel complesso, è evidente che gli ainu sono un’antica razza in questa parte dell’Asia, e così tanto isolata che l’antropologia non ha ancora i mezzi per stabilire la sua connessione fisica con le altre tribù asiatiche. Lo studio accurato del linguaggio ainu condotto dal Professor Chamberlain lo ha portato a un risultato simile. È basato non soltanto sulle sue conoscenze, ma col vantaggio di lavorare assieme al Rev. John Batchelor, che ha vissuto come missionario tra gli ainu per anni e ha scritto la grammatica stampata come parte di questi Studi Ainu. Nella sua struttura, la somiglianza che l’ainu presenta col giapponese è soverchiata dalle differenze e, benché sia possibile che alla fine si dimostri ricadere in un gruppo di linguaggi est-asiatici, questo è così lontano dall’essere provato che è più sicuro, per il momento, trattare sia la razza che il linguaggio come isolati. Considerato che il poco di civiltà posseduto oggi dagli ainu è in gran parte stato insegnato loro dai giapponesi, è naturale che il loro linguaggio moderno abbia raccolto numerose parole giapponesi, dal nome di kamui che attribuiscono alle loro divinità, fino al liquore di riso o sake, in cui cercano una continua ubriachezza, oggi la loro principale fonte di divertimento. Un proposito a cui il loro linguaggio serve è il dimostrare quanto un tempo si estendesse il loro popolo sul paese che è oggi il Giappone, dove soltanto i nomi di luogo rimangono a indicare una precedente popolazione ainu. Alcuni di questi sono inconfondibilmente ainu, come Yamashiro, che deve avere significato “terra dei castagni” e Shikyu, “luogo dei giunchi”. Altri, se interpretati come giapponesi, avrebbero un significato strampalato come, per esempio, i villaggi di Mennai e Tonami, che, se trattati come giapponesi, significherebbero “dentro permesso” e “lepri in fila”; se invece li trattiamo come ainu in origine, avrebbero un significato più ragionevole di “torrente cattivo” e “torrente uscito dal lago”. L’ipotesi basata su registri e nomi locali, a cui il Professor Chamberlain ha lavorato con monta cura, è che “gli ainu erano davvero i predecessori dei giapponesi su tutto l’arcipelago. Gli albori della storia ce li mostrano vivere molto più a sud e a ovest dei loro attuali insediamenti; da allora, secolo dopo secolo, li vediamo costantemente ritirarsi verso est e verso nord, così costantemente come gli indiani d’America si sono ritirati verso ovest sotto la pressione dei coloni europei.”
Quanto è accaduto al loro linguaggio è accaduto anche al loro folklore, che si mostra in larga misura adottato da quello giapponese. Nella presente collezione, le storie del re-salmone (XXXIV), l’isola delle donne (XXXIII) e altre, sono basate su episodi di storie giapponesi, talvolta appartenenti a cicli mitici diffusi in tutto il mondo, come per il tema del mortale che mangia il letale cibo di Ade (XXXV), che ha il suo esempio tipico nella storia di Persefone. Nel leggere la breve ma curiosa storia (XVI) “Come è stato deciso chi dovesse governare il mondo”, si vede subito che lo scaltro dio-volpe è arrivato dalla ben nota mitologia giapponese delle volpi; per quanto poi riguarda l’episodio mitico molto scaltro del cercare il sorgere del sole a ovest, domandando a un gentiluomo giapponese che vive a Oxford, il signor Tsuneta Mori, ho scoperto che questo appartiene alla storia della scommessa della fenice, nota a tutti i bambini giapponesi, e in cui la fenice deriva chiaramente dalla Cina. D’altra parte, ci sono molti elementi ainu genuini nella presente collezione. Per esempio, impariamo dal summenzionato trattato del Professor Chamberlain perché sia Panaumbe (“quello del basso corso del fiume”) ad agire con scaltrezza, mentre Penaumbe (“quello dell’alto corso del fiume”) è l’imitatore stupido che finisce sempre male. È semplicemente l’espressione di antipatia e disprezzo che gli ainu della costa, quelli che raccontano le storie, provano verso gli ainu di collina, più a monte lungo il corso dei fiumi. È superfluo menzionare qui i molti tocchi di idee, morale e costumi ainu, che queste storie ci mostrano, perché è proprio nel notarle che consiste il grosso dell’interesse che i lettori proveranno nello sfogliarle. La loro caratteristica più importante, infatti, è quella su cui insiste il Professor Chamberlain, sottolineando come questo valore non debba essere trascurato. Di tutte le difficoltà incontrate dallo studente di folklore, la più grande è quella di giudicare fino a che punto chi racconta e ascolta creda davvero a quelle storie fantastiche di animali parlanti e così via, o quanto le considerino solo un divertimento consapevole. Noi stessi ci troviamo al punto più estremo di scetticismo e molta gente che noi possiamo esaminare si trova in uno stadio intermedio, non del tutto increduli che grandi rocce possano un tempo essere state dei giganti, o che è un incidente appropriato nella vita di un eroe l’essere inghiottito da un mostro e poi uscirne di nuovo, ma allo stesso tempo pronti ad ammettere che, dopotutto, queste potrebbero essere solo chiacchiere da vecchia comare. Anche tribù selvagge a contatto con persone civilizzate si trovano per lo più in questo stadio intermedio; per questo la testimonianza del Professor Chamberlain sulla posizione del folklore nella mente degli ainu, fondata come è sulla osservazione personale, è un documento di reale importanza. Si è persuaso che i suoi ainu non raccontavano solo fantasie, come gli europei con le fiabe per bambini, ma che i miti per spiegare fenomeni naturali erano per loro teoremi di scienza fisica, e che le storie fantastiche erano raccontate sotto l’impressione che fossero davvero accadute. Quanti sostengono il valore serio del folklore, in quanto incarnazione di primitivi ma sufficientemente reali stati di filosofia per l’umanità, saranno grati per questa collezione, nonostante le sue caratteristiche ripugnanti, in quanto fornisce la più chiara evidenza che la base delle loro opinioni non è solo teorica ma reale.
1The Language, Mythology, and Geographical Nomenclature of Japan, viewed in the light of Aino Studies. By Basil Hall Chamberlain. Including an Ainu Grammar by John Batchelor. (Memoirs of the Literature College, Imperial University of Japan, No. 1.) Tōkyō: 1887.