Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 71

Partirono poco prima dell’alba di una giornata che, se non proprio serena e calda, prometteva di essere asciutta, a grandi linee e senza incrociare le dieta dietro la schiena. Olaf guidava e Davide sonnecchiava sul sedile accanto, perso in quel particolare stato rosaceo di coscienza in cui, seppure già tecnicamente sveglio, abile e arruolato, la notizia non ha ancora raggiunto le porzioni periferiche della tua mente e, a volerla dire tutta, neppure quelle centrali hanno accettato la realtà del non essere più a letto e hanno eretto barricate per opporsi fino all’ultimo. Anche e soprattutto perché non è che ci fossero rimaste molto a lungo nel letto.

Andiamo a dormire presto, era stato il progetto generale. Più che giustificato, visto che per tutti ci sarebbe stato parecchio da fare il giorno dopo, chi per tornare direttamente in città e chi per farlo in un secondo momento, dopo la deviazione esplorativa. Deviazione che non aveva lasciato il resto del gruppo piuttosto indifferente, quando Olaf l’aveva annunciata: Selina Dialla aveva approvato il loro spirito pionieristico e avventuroso, Tunde Bohr aveva alzato le spalle e Sebastian Hahn aveva ormai incorporato una quantità di alcool sufficiente a renderlo inattaccabile alla maggior parte degli eventi che si svolgevano all’esterno del suo cranio, nonché a parecchi di quelli che forse si svolgevano al suo interno. Tutto perfetto, perfino meglio di quanto Davide avesse osato sperare.

Poi la mente di Sebastian era tornata a sfiorare il piano di esistenza condiviso dagli altri e di perfetto non c’era stato più nulla. Almeno non in positivo, anche se probabilmente si sarebbe potuto parlare di un perfetto fastidio o perfetto scocciatore. Perché a quel punto Sebastian aveva cominciato con la sua storia che qualcosa lo aveva punto, mentre era in mare. Cioè in un momento trascorso già da più ore, durante le quali non si era lamentato di nulla. Le lamentele se le era tenute tutte per la sera, per qualche motivo; un motivo, secondo Tunde, connesso alla quantità di roba che si era ingollato.

«Se qualcosa ti ha punto non è uscito certo dall’acqua,» gli aveva detto lei, «ma da liquidi con una gradazione alcoolica parecchio più elevata.»

Sebastian aveva protestato che no, non era vero, lo avevano punto, guarda, ti faccio vedere, e aveva cercato di calarsi i pantaloni, per mostrare a tutti la puntura che, a suo dire, aveva ricevuto su una coscia. Olaf e Davide lo avevano fermato in tempo e rimesso a sedere. È una medusa, una medusa, mi ha punto una medusa, aveva continuato a dire Sebastian. Selina gli aveva fatto presente che non ce n’erano di meduse nei mari di Madre, aggiungendo una spiegazione sulla qualità dell’acqua che nessuno dei presenti aveva capito, ma che era suonata piuttosto convincente perché conteneva molte parole lunghe e complicate. Spiegazioni con parole lunghe e complicate sono inevitabilmente vere, è un fatto ben noto a tutti, specie a chi non conosce molte parole lunghe e complicate.

Sebastian non aveva ceduto e proseguito con le sue lamentele, che la gamba gli bruciava e mica ce la faceva a dormire così, eh? Voglio dire, neanche a stare coricato, dai! Alla fine le ragazze avevano abbandonato il campo, ritirandosi nella propria stanza, e Olaf e Davide erano rimasti soli con quella piaga di compagno, che li aveva allietati per almeno un’altra ora, fino a che non era collassato per puro atto di misericordia divina, o forse per sopraggiunta incoscienza alcoolica. Si era così conclusa la loro ultima giornata di vacanza a Bidonia, perfetto coronamento dell’esperienza marina.

Adesso il veicolo noleggiato li trasportava verso meridione, dove torreggiava la sagoma dal vecchio ascensore, come solo sa torreggiare un oggetto alto quarantamila chilometri circa, che abbandonava allegro l’atmosfera del pianeta fino a raggiungere la quota per l’orbita geostazionaria. Lassù c’era la stazione riservata ai militari, che in una forma molto più primitiva e provvisoria era stata utilizzata anche dalla seconda spedizione, secondo la vulgata della storia. Poteva essere tutto vero, poteva non esserlo: dettagli indifferenti, perché il loro obiettivo si trovava molto più in basso. Rasoterra, giusto ai piedi dell’ascensore o poco più in là. La base militare.

E, se si voleva credere al racconto di Zeke, anche il punto in cui sorgevano o sprofondavano i pozzi. Quelli in cui era sparita la prima spedizione, quelli che la seconda spedizione aveva esplorato. E da cui era emerso l’insetto che aveva punto il padre di Davide, sempre secondo Zeke.

Davide, diretto interessato e primo motore della escursione, almeno su un piano figurato (sul piano pratico di motori ce n’era solo uno ed era quello che azionava il veicolo a nolo su cui viaggiavano), si rigirava a disagio nel sedile, ancora immerso nella lotta eterna tra il bisogno di svegliarsi davvero e la voglia di continuare ancora per un poco a ignorare il mondo e le sue necessità. Una lotta che più o meno ogni esemplare del famigerato scimpanzé a pelo corto, meglio noto a se stesso come Homo Sapiens anche quando non è homo e soprattutto quando non è sapiens (cioè quasi sempre), è solito affrontare ogni giorno con alterne fortune. In quella particolare occasione vinse il mondo, che di viva forza strappò Davide a un dormiveglia quasi infinito e lo riportò alla realtà. O a quello che si è soliti accettare come realtà, in mancanza di meglio.

«Buongiorno,» disse Olaf, mentre il compagno di viaggio si stiracchiava e sbadigliava a piena gola tutta la propria voglia di vivere e agire. «Sei tornato tra noi, Bruno?»

«Sono sempre stato tra noi,» bofonchiò Davide, sfregandosi gli occhi. «Quel deficiente di Sebastian non mi ha fatto dormire, ieri notte, e sono ancora un po’...»

Olaf annuì. «Non se l’unico. Fra poco le ragazze lo butteranno giù dal letto a calci e torneranno in città e fino a domani sera non lo dovremo rivedere. Né risentire.»

Il che era una buona notizia, se non altro. Il resto del gruppo doveva partire verso metà mattinata e tornare a Oklahoma City, salvo imprevisti. Loro due, invece, avrebbero seguito più o meno lo stesso programma, ma con un giorno di ritardo. Il giorno che avrebbero speso nella spedizione al vecchio ascensore. «Dovremmo concludere tutto in giornata,» aveva spiegato Olaf, illustrando il piano che aveva preparato. «Partenza all’alba e ritorno dopo il tramonto. Magari un po’ più tardi, a seconda di cosa faremo là. Io ho previsto una sosta di un’oretta circa, per guardare il posto e altre cose, poi non so cosa hai in mente tu: magari ci metteremo di più, magari di meno.»

Davide non aveva risposto. Olaf lo aveva aiutato parecchio e sì, in linea di massima si fidava di lui, ma il problema era un altro, molto più fondamentale: non aveva idea di cosa avrebbe fatto una volta arrivati sul posto. Il grande progetto di Zeke prevedeva la discesa in un pozzo. Il piccolo progetto di Davide prevedeva soltanto di vedere un pozzo, magari dall’esterno e sì, magari anche non proprio dal bordo, perché ok, le altezze non erano mai state un vero problema per lui, non come lo erano per Matteo, ma esisteva anche una cosa chiamata prudenza e sarebbe stato meglio utilizzarla almeno in una piccola parte, no? Diciamo perché non si sa mai.

Oh beh, in ogni caso avrebbe scoperto tutto una volta arrivati. Di questo era sicuro. Moderatamente sicuro. Era convinto che tutto sarebbe stato chiaro, a quel punto. I pozzi forse esistevano e forse no. Di certo non erano accessibili al pubblico, e neppure visibili: aveva parlato con alcuni vecchi coloni nel corso dei mesi precedenti e nessuno ne sapeva nulla. Pure quel vecchio quarantenne, Bissonette o qualcosa del genere, che aveva lavorato all’ascensore militare ed era stato punto da un insetto che pareva uguale a quello della storia di Zeke: di fronte a domande dirette sui pozzi, Bissonette aveva scosso la testa con la miglior espressione bovina che sapesse produrre. Espressione che si intonava in modo quasi perfetto col suo odore vissuto, in effetti. O era un attore leggendario, oppure non ne sapeva davvero nulla. Davide propendeva per la seconda.

Quindi, se i pozzi c’erano ed erano lì, dovevano essere nascosti sotto la base militare. O, per essere più precisi, la base era stata costruita sopra i pozzi, per nasconderli e sorvegliarli. Questa era la sua conclusione, elaborata nei quasi due anni spesi sul pianeta, e adesso l’avrebbe dovuta verificare, in un modo o nell’altro. Peccato che non sapesse come.

Nei suoi sogni più fumosi e irrealistici si vedeva fare irruzione nella base, come il protagonista di un film sparatutto con più effetti speciali che neuroni dentro il cranio dello sceneggiatore. Scavalcare il reticolato che circondava la base (perché ce n’era sicuramente uno, giusto?), o magari sfondarlo col veicolo su cui viaggiava, correre schivando proiettili mentre soldati sbraitavano attorno a lui ma si guardavano bene dal prendere la mira, perché ci sono convenzioni da rispettare, e magari abbattere una porta a spallate, che fa sempre scena, poi correre correre correre ancora, come il cavallo che ti porta a Samarcanda, infine cadere in ginocchio proprio sull’orlo del pozzo, aggrapparsi ai bordi, protendere la testa per guardare in quell’abisso nero, infinito, dove ogni cosa poteva annidarsi e...

E poi di solito la fantasticheria finiva lì. Cosa poteva esserci nel pozzo? L’immaginazione di Davide non era sufficiente a rispondergli. Matteo magari ci sarebbe riuscito, magari si sarebbe inventato chissà cosa per popolare quella voragine nera, ma Matteo viveva con la testa fra le nuvole, oppure infilata nel proprio culo, a seconda dei punti di vista, e comunque non era lì. C’era solo Davide, con Olaf che guidava e guardava dritto davanti a sé, e tra qualche ora sarebbero arrivati. A quel punto si sarebbe dovuto inventare qualcosa da solo. Qualcosa per dare un senso al viaggio.

«Ti sei addormentato di nuovo?»

La voce di Olaf lo riportò al presente. «Ci sono, stavo solo pensando,» rispose Davide.

La città di Bidonia era finalmente dietro di loro, un grumo sputacchiato sulla riva del mare, avvolto in un quasi silenzio. Poteva anche essere descritta come un posto fiabesco, ma in quel caso la fiaba sarebbe stata sicuramente a opera dei fratelli Grimm. Nella prima luce del sole poteva riportare alla mente l’immagine di uno scarafaggio sorpreso dall’ingresso del padrone di casa, o comunque della persona che vive assieme a lui (o lei: è sempre difficile riconoscere il sesso degli scarafaggi, almeno per gli occhi del profano) in quella particolare stanza. A confronto, persino il mare smorto e grigio che poltriva sotto un cielo a tratti nuvoloso pareva luccicante e vivace.

Ma Bidonia era il passato. Il futuro era davanti, a sud, oltre distese di campi verdastri e coltivati. Se poi si fosse avvicinata un poco più in fretta sarebbe stato ancora meglio. Davide non aveva proprio urgenza di arrivare, non una urgenza urgente, ma avrebbe comunque gradito un viaggio più rapido.

«Ma questo coso ha solo la marcia “strisciante”, oppure dici che potremmo osare anche un passo da pensionato zoppo?»

Olaf lo guardò con una specie di sorriso, che non non era proprio un solco lungo il viso, nonostante il parere di personaggi autorevoli e defunti. «Penso che è meglio continuare così,» rispose. «Non è molto veloce e comunque preferirei non rischiare, sai. Poi magari ci tocca tornare indietro a piedi.»

«Se scendo e corro sono più veloce io.»

«Sì, beh, ok, lo so, ma se scendi e corri poi ti stanchi. Se stai seduto, invece, non ti stanchi e così è meglio, no? Voglio dire, ok, lo so che è piuttosto...»

«Lenta e traballante,» suggerì Davide.

«Lenta e traballante, ok, ma funziona, no? Voglio dire, sta andando. Sì, forse potremmo andare un po’ più veloci, d’accordo, ma è meglio di no. Capisci?»

«No, francamente non capisco. Esplode se acceleri?»

«Esplode no, direi di no, però...» Olaf si grattò la testa, sguardo sempre fisso sulla strada, che aveva l’aria di voler sparire da un momento all’altro. Davide non poté non notare che si stava restringendo e il manto era decisamente in condizioni peggiori, forse per usura o forse perché faceva schifo. Più probabile la seconda. Quanti potevano essere a usare quella strada?

«Però?»

«Però, ecco, hai presente dove l’ho noleggiato?» continuò Olaf.

«No, non ce l’ho presente, ma se proprio vuoi posso dire di sì. Tanto è uguale.»

«No, ok, comunque, voglio dire, l’ho provato, prima di prenderlo, non è che mi sono fatto fregare, è chiaro, ma la tizia che li noleggiava mi ha detto che è meglio non superare questa velocità, perché se no non fa in tempo a ricaricarsi, hai presente? E poi rimaniamo a piedi.»

«Non fa in tempo a ricaricarsi.»

«Sì, beh, lo sai che l’energia è ancora un problema, no? Ne abbiamo più di prima, adesso, ma non è che possiamo sprecarla, no? Così, se noi procediamo a una velocità più bassa, tipo questa, poi c’è il tempo anche per ricevere il rifornimento, che arriva...»

Davide agitò una mano. «Sì, sì, ok. Non importa. Andiamo pure così. Arriveremo in tempo?»

«Beh, sì, i tempi il ho calcolati pensando a una velocità come questa. Non c’è problema, davvero.»

Oh beh, poco o niente da fare. Pian piano i campi coltivati avevano riempito tutto il mondo attorno a loro, o almeno tutta la parte del mondo rasoterra. Davide non aveva idea di che roba coltivassero da quelle parti, ma assomigliava a quelle piante di cui si erano occupati loro stessi, o di cui si erano occupati alcuni di loro, quando li avevano mandati nei cantieri stradali, in un tempo lontano ormai mesi sul calendario e secoli nella loro vita. Roba che sopravviveva ovunque, che richiedeva poca o nessuna cura, roba carica di energie, ma anche letale per le papille gustative. Roba che, a dirla tutta o quasi, non era proprio profumatissima: avrebbe fatto arricciare il naso anche ai cavoli, se i cavoli avessero avuto un naso e fossero stati piantati nei paraggi. Il che non era.

«Questo posto fa veramente schifo,» disse Davide dopo un silenzio prolungato e poco piacevole, in cui gli unici suoni erano stati il brusio del motore e il fruscio delle ruote sulla strada.

«Beh, non è molto allegro, ok, però non è neanche così male. Sembra un po’ il posto dove vivevano i miei, sulla Terra. Quando ero bambino, voglio dire.»

«Vivevano in mezzo ai campi?»

«Non proprio in mezzo ai campi, no, ma in campagna, sai? In una di quelle zone per il recupero del territorio, hai presente? Coltivavano cavoli. O cose derivate dai cavoli, sai: li chiamavano così, ma non è che assomigliassero più molto ai cavoli veri. Era quella roba modificata, hai presente?»

Davide non aveva presente. Il solo rapporto che avesse mai avuto con la verdura era alimentare e pure in quel caso la vedeva soltanto come materia colorata, un poco sospetta e insapore, ammassata in un angolo del piatto. Quale fosse l’aspetto reale della verdura prima di diventare poltiglia era in gran parte un problema altrui e non aveva mai avvertito il desiderio di farlo diventare un problema personale. Ci pensassero altri. Erano pagati per questo, no? Ritenne comunque saggio annuire, per evitare noiose lezioni su cavoli e derivati.

«Beh, comunque vivevo là coi miei, no, ed era un po’ un posto di merda, d’accordo. Voglio dire, ok, non è che facesse proprio schifo, non c’era niente di così terribile, ma... non c’era niente, ecco. Era un po’ come qui attorno, no? Campi, campi e ancora campi. E case, va bene, ci vivevano altri, non eravamo proprio isolati dal mondo, ma...»

«Ma era comunque una rottura di palle e hai deciso di cambiare aria appena potevi,» disse Davide.

«Sì, beh, qualcosa del genere. Però, guardare tutti questi campi, adesso, su un altro pianeta, voglio dire, a decine di anni luce dalla Terra o quello che è... è tutto un po’, non so, nostalgico

«Ti fa pensare a casa.»

«Sì.»

«Ti fa sentire la mancanza del posto in cui sei cresciuto.»

«Sì, beh, più o meno.»

«O almeno quello che ti ricordi del posto in cui sei cresciuto, dopo aver tolto tutto quello che faceva schifo. Ti fa venire nostalgia di quel periodo, ma solo guardandolo da lontano e senza i dettagli che odiavi quando c’eri davvero.»

«Beh, non è proprio... cioè...»

Ci fu un altro prolungato periodo di silenzio. Fu Davide a romperlo, stavolta, sentendosi un poco in colpa per aver rovinato i flashback dell’amico. «Non so bene come sia la campagna. Io sono sempre stato in città, sempre vissuto lì, e tutti questi campi attorno mi mettono un po’ a disagio, capisci? A stare qui su Madre pensavo di essermici abituato, ma... no, meglio avere case attorno. È più sicuro.»

«Sei sempre stato in città?»

«Periferia di città,» precisò Davide. «Non so se sia proprio la stessa cosa, e comunque era un posto da schifo pure quello, te lo garantisco. Non c’era niente neanche lì, anche se ok, probabilmente era un niente diverso da quello che non c’era da te. Era più...»

«Tipo Oklahoma City?»

«No, non proprio così. Oklahoma City è un cesso, ma un cesso vivo, con cose che cambiano sempre e sì, insomma, è una città nuova, che ancora deve decidere cosa fare da grande. Capisci? Non è la stessa cosa. Quella dove sono nato io no, era una città vecchia in un posto vecchio, che non sapeva più cosa fare. Non era un posto vivo, ma un posto che sopravviveva, più o meno.»

«E tu sei venuto qui a cercare qualcosa di nuovo, di meglio,» disse Olaf annuendo. «Sì, è quello che ho fatto anch’io, grossomodo. È quello che hanno fatto tutti, secondo me. Pure Sebastian è venuto a cambiare, anche se non so bene cosa e come, e anche Tunde, Selina, tutti gli altri della squadra. Non trovavamo un posto a casa e siamo venuti a cercarlo qui, no?»

Davide si prese un attimo per riflettere. «Sì, possiamo metterla così,» disse poi. «Abbiamo fatto tutti strade diverse, ma alla fine siamo arrivati nello stesso posto e più o meno per lo stesso motivo.» La sua strada era stata decisamente diversa e i suoi motivi completamente fuori dall’ordinario, secondo il suo modesto parere, ma sì, fondamentalmente era andata così. Volendo. Sul piano metafisico.

Il mattino si allargava attorno a loro, tra luce che aumentava e nuvole che non accennavano a calare, ma almeno non accennavano neppure a scaricarsi, per cui tutto era bene. A sud, stagliata sempre contro l’orizzonte ma adesso più vicina, c’era la consueta sagoma dell’ascensore, colonna che univa cielo e terra in modo non soltanto figurato. Luccicava, quella sì, bagnata dal sole, o almeno Davide la immaginava luccicare, anche se la distanza era ancora eccessiva per un luccichio reale, ma anche un luccichio immaginario poteva bastare, se si era nel corretto stato mentale. Lui lo era. Sospeso tra il presente di quella mattina in viaggio e il passato che i ricordi di Olaf avevano disseppellito, più o meno malvolentieri, Davide si sentiva pronto a credere a tutto, o almeno a tutto quello che voleva.

Si sentiva anche parte del gruppo, sebbene quel gruppo fosse composto soltanto da due elementi, i due coloni seduti su un veicolo a nolo, lento e un poco traballante, partiti da una miseranda città da villeggianti, diretti verso una ignota zona militare e alla deriva nel mare di nessuno di campi, campi e ancora campi, coltivati e fetidi come poche altre cose al mondo. O poche altre cose nei paraggi, il che era pressappoco la stessa cosa. Olfatto a parte, era una bella sensazione.

«Cos’è che hai combinato di preciso, prima di partire col Teatro?» chiese al compagno di viaggio, non per un reale desiderio di conoscere, ma per il puro piacere di parlare e ascoltare qualcuno che parlava. Un amico che parlava. Olaf glielo raccontò. Di preciso.

Era nato e cresciuto in un paese di campagna della zona nordeuropea, in mezzo alla pianura: terreno riservato al recupero del territorio, cose così. I dettagli erano smarriti nel tempo e nella memoria, e in ogni caso non è che da bambino ci avesse mai pensato molto. Anzi, non ci aveva pensato proprio. Non era stato solo, c’erano altri con cui giocava, ma nel complesso era stato una palla di vita, tra i cavoli, attorno ai cavoli, sopra i cavoli e forse anche sotto i cavoli. Se n’era andato all’epoca delle superiori o giù di lì, anno più o anno meno: invece di iscriversi come gli altri bravi bambini, o bravi ragazzini, aveva fatto i bagagli, salutato tutti e via. Chi si è visto si è visto. Statemi bene.

«Solo che non è che li ho proprio salutati, sai,» spiegò. «È più che sono scappato e basta. Mio padre me ne avrebbe date chissà quante, se mi vedeva.»

Aveva lavorato, arrangiandosi con tutto quello che capitava. Era grande, era forte, non proprio il più sveglio del reame, ma imparava in fretta e ricordava tutto. Se la cavava bene a trafficare coi vari meccanismi: non li capiva, non con la testa, ma li capiva con le mani. Gli era bastato. Aveva passato tutti gli impieghi disponibili a un operaio non specializzato, spesso in nero e spesso con padroni che non badavano molto ai documenti di identità e alle date di nascita. Si era stabilizzato verso i venti anni, quando la sua carriera si era orientata verso tutto ciò che poteva essere abbinato all’aggettivo “meccanico”. In via forse definitiva, o almeno in via che sarebbe diventata definitiva, se solo avesse scelto di restare sula Terra. Magari avrebbe anche potuto studiare qualcosa, per il fantomatico pezzo di carta, anche se da secoli avevano smesso di stamparli su carta.

«Ma non ne potevo più, davvero,» aggiunse Olaf. «Voglio dire, sì, erano buoni lavori, mi arrangiavo da solo, non avevo bisogno di niente. Ero coso, lì, come si dice? Autosufficiente, sì. Però non è che ero proprio contento. Neanche scontento, cioè. Ero... ero. Non so bene come si dice. Ma più o meno da lì non si usciva, no? Potevo fare tante cose, ok, ma erano sempre la stessa cosa, in modi diversi. E alla lunga ti schianta, capisci? Così poi ho visto le pubblicità del Teatro di Oklahoma e mi sono detto ma sì, dai, cosa ti costa? Cos’hai da perdere? Sulla Terra è tutto uguale, vediamo com’è in un altro posto, no? Tanto bene o male mi arrangio ovunque.»

«E come è andata?» chiese Davide.

Olaf scrollò le spalle. «Beh, abbastanza bene dai, per adesso. Ok, non è fantastico, ma non mi posso lamentare, no? Posto nuovo, gente nuova... e poi ci siete voi, no? Prima conoscevo tanta gente, sì, ma di amici non ne avevo proprio. Non amici amici, capisci? Adesso qui siamo un gruppo, no? Uno per tutti e tutti per uno, quella roba lì,» concluse, con un sorriso che mise Davide in imbarazzo e lo fece sentire un poco un viscido sfruttatore egocentrico. Gli passò presto.

Ancora i campi scorrevano attorno a loro, nel silenzio del veicolo. Di tanto in tanto il ronzio di vari insetti, non visti ma sentiti piuttosto bene, si alzava dal verde smorto delle coltivazioni, riempiva il paesaggio, poi si spegneva in lontananza. Malinconico, sì. E ancora più malinconico era raccontarsi storie malinconiche in un paesaggio malinconico. Pure, a Davide piaceva. Si sentiva bene.

Forse era il caso di restituire qualcosa, raccontare anche lui. Perché adesso erano un gruppo, uno per tutti e tutti per uno, o quella roba lì. Davide non era proprio d’accordo con Olaf, ma avrebbe voluto che fosse davvero così. E chissà, magari lo sarebbe stato sul serio, una volta chiuso con quel viaggio e la storia dei pozzi. Una volta tagliato quell’ultimo filo, una volta libero da quel pensiero che sì, lo potevi anche rinviare, come aveva fatto per quasi due anni, ma prima o poi lo dovevi affrontare, ci dovevi passare attraverso, per scoprire cosa ci fosse dall’altra parte. Una volta chiuso quel capitolo, come stava dicendo, forse sarebbero stati davvero un gruppo. Amici, senza segreti. O non troppi.

Così Davide Kori infilò di nuovo la maschera di Bruno Kitzis, la sua identità madriana, creata per lui da Zeke Boodie l’Isolazionista in quella che sembrava una era geologica diversa. Raccontò di un ragazzo che era cresciuto nella periferia di una città nella zona mediterranea, non aveva mai visto il padre, aveva un fratello maggiore partito per un altro pianeta e di recente era rimasto solo, quando gli era morta anche la madre. Non aveva altro a cui attaccarsi, nulla che lo legasse alla Terra, non un obiettivo, non una prospettiva reale, a lungo termine. Il Teatro di Oklahoma era stata una fune, a cui si era aggrappato per farsi tirare a riva, in salvo, o almeno verso qualcosa.

Bruno Kitzis parlava, e più parlava più Davide Kori si infiltrava nella storia, in controluce, poi via via più nitido e definito, fino a che divenne la confessione di Davide, coi nomi cambiati e senza la parentesi tra gli Isolazionisti, ma con tutta la sua vita, tutti i suoi dubbi, tutti i suoi problemi. E tutta la sua voglia di essere parte di un gruppo. Quasi perso in uno stato ipnotico autoindotto, raccontò a Olaf anche la storia che Zeke gli aveva riferito, secondo cui il padre era stato militare in servizio su Madre ai tempi della seconda spedizione: aveva sorvegliato un pozzo, era stato punto da un insetto e poi... e poi il cervello ascoltò quello che la bocca stava dicendo, ma ormai era tardi.

«Quindi cioè tuo padre era qui a fare la scorta quando hanno colonizzato Madre, venti e più anni fa, eh? Che storia...» Olaf sembrava sorpreso e anche un poco perplesso. Scuoteva piano il capo, come per scoprire se dentro ci fosse qualcosa, ma con cautela, giusto per non rischiare anche di rompere il teorico qualcosa che poteva esserci all’interno, una sorpresa o giù di lì.

«Beh, non so, ecco, ce lo ha raccontato un... suo ex collega, che era passato a trovarci, anni fa, ma è un po’, non so, io non l’ho mai neanche conosciuto mio padre, per cui magari era una storia un po’ esagerata, sai, tanto per fare scena coi bambini, sai come funziona...» rispose Davide, maledicendosi a ogni parola, nonché a ogni pausa tra le parole. Perché era andato a raccontarglielo, si può sapere? In quale labirinto di balle improvvisate si sarebbe dovuto seppellire adesso, per uscirne con almeno uno straccio di decenza e senza troppi rischi? Ammesso e non concesso che fosse ancora possibile una uscita senza rischi.

«Sì, ok, ma comunque... beh, ma tua madre lo saprà, no? Voglio dire, erano già sposati, no?»

«Sì, sposati sì, ma... non le ho mai chiesto niente, sai. Non parlava mai molto del papà. Anzi, non ne parlava proprio mai, dopo che è sparito. E prima... boh, io non ero ancora nato.» Il che almeno era vero: Ercole Cori, poi Kori, era argomento tabù, in famiglia. O no, non proprio tabù: più che altro lo si poteva definire come il famigerato elefante nella stanza. Qualcuno doveva avere necessariamente collaborato con la mamma per produrre lui e Matteo, un qualcuno che poi aveva deciso di sparire e non farsi più vedere, ma quel qualcuno era anche l’Innominato. Esisteva, o almeno era esistito: tutto il resto era silenzio, spazio vuoto tra le persone. Spazio vuoto che probabilmente aveva finito anche per inghiottire tutto il pieno che c’era stato in famiglia, a pensarci bene, ma Davide preferiva non pensarci bene, soprattutto non adesso. Adesso contava solo chiudere il discorso con Olaf e passare a nuovi e meno pericolosi argomenti. Tipo la necessità di soste fisiologiche.

«Ah, capisco,» disse Olaf, tutto pensoso. «Però davvero, che storia! E adesso tu vuoi andare fino al vecchio ascensore per vedere un posto in cui è stato tuo padre, eh? È molto, come si dice...» staccò una mano dal volante e gesticolò a casaccio in aria. «Non romantico, ma qualcosa del genere, no?»

«Sì, qualcosa del genere. Per questo non so quanto ci metteremo. Intanto voglio solo guardare come è fatto il posto, un po’ così, ma non credo che ci sarà molto da vedere. È più un... sai, come quando vai al cimitero, a vedere la tomba di tuo nonno o roba del genere. Non è che ci sia molto, è solo una lastra di... di marmo o altro, con una fotografia e un nome, ma...»

Olaf annuiva. «Sì, sì, capisco. Vuoi stare lì un po’, guardare attorno, dire wow, qui ci è passato mio papà, chissà com’era vent’anni fa, e poi, non so, si torna? Dopo aver fatto il pieno di ricordi o quel che è, d’accordo. E lasciato riposare un po’ il veicolo, che non si sa mai.»

«Sì, qualcosa del genere. Volevo solo... vedere di persona, sai. Coi miei occhi.»

Ci fu una breve pausa, mentre i campi continuavano a sfilare ai lati e la colonna dell’ascensore era più grande davanti a loro, più massiccia. Più vicina. «Comunque questi pozzi non so, io non ho mai sentito nulla,» riprese poi Olaf. «Secondo me se l’è inventato quel suo collega. Magari, non so, per metterci dentro qualcosa di più alieno, da raccontare ai bambini.»

«Sì, anche secondo me,» rispose Davide, con la voce più disinteressata che riuscisse a simulare. «È il genere di storia che si inventa per i bambini, no? Io sono stato su un altro pianeta, sai, c’era questa specie di montagna, che però era capovolta, non so come facesse a stare su, saranno stati gli alieni. O c’erano questi pozzi giganteschi, ma grandi come una città, chissà cosa c’era in fondo. Storie, già, giusto per divertirsi. Si sa come sono gli adulti, ogni tanto.»

«Già, già. Anche a me ne raccontavano di ogni, davvero. Di insetti però ce ne sono davvero, qui, e ti pungono anche da tirarti scemo. Tu ne sai qualcosa, eh?»

Davide sorrise. «Sì, quelli ti pungono davvero e fanno pure male. Chi lo sa, magari uno di quelli ha punto mio padre e gli ha fatto qualche reazione allergica, ma dire che è stata una qualche forma di vita strana, uscita da un pozzo gigantesco, fa molta più scena che dire che lo ha punto una vespa ed è svenuto, no? Voglio dire, mi inventerei anch’io qualcosa di più eroico.»

Olaf sorrise. «Sebastian se ne inventa sempre, anche senza bisogno di essere un soldato. Magari era un tipo un po’ come lui. O i coloni più vecchi, che te ne raccontano di tutti i tipi. Storie, già.»

Davide respirò meglio. Anche questo scoglio pareva superato. Tanto per stare sul sicuro, pero... «Se facciamo una sosta qui dici che è un problema? In mezzo a un campo non è proprio il massimo e di alberi non c’è neanche uno, ma se aspettiamo ancora un po’ mi sa che scoppio.»

«Sì, buona idea. Mi sa che è il caso di fare una sosta.»

Fecero la sosta e fecero anche altro, pure in assenza di alberi, che comunque non erano strettamente necessari se non per una pura questione di stile. Non c’erano neppure passanti occasionali, o meno occasionali, che si potessero lamentare. Non c’era proprio nessuno su quella strada, anche perché la parola strada era impropria per descrivere ciò su cui stavano viaggiando. Carraia sarebbe stato ben più adatto, ma forse un poco generoso: era giusto una striscia piatta e sgombra, che procedeva come una fucilata tra i campi. Doveva servire ai contadini, o a chiunque si occupasse di semina e raccolto, nonché delle altre attività collegate all’agricoltura, qualunque esse fossero. Il cittadino Davide non le avrebbe sapute indicare nemmeno per salvarsi la vita.

Quando tornarono al veicolo, trovarono una sorpresa ad attenderli. Posato sullo schienale del sedile del guidatore, con le ali che vibravano appena, un insetto si crogiolava nella luce sbiadita del giorno a tratti nuvoloso, a tratti blandamente soleggiato. Un insetto vagamente simile a un tafano, se usavi un poco di creatività per guardarlo, ma più lungo, con due sottili proboscidi appese alla testa, o alla parte anteriore del corpo, che presumibilmente faceva funzione di testa. E le ali erano sei paia, tutte aperte, come per asciugarle al sole latitante.

Davide lo riconobbe. O, per essere più precisi, lo accostò all’identikit che si era creato in testa, dopo la storia di Zeke, e che aveva ripetuto anche alla tizia dai capelli grigi, che teneva le lezioni serali ai nuovi coloni. Confrontò a lungo l’immagine mentale con l’immagine reale, in silenzio, mentre Olaf fissava prima l’amico, poi l’insetto, ma senza parlare. Alla fine Davide raggiunse una conclusione: non poteva certo essere lo stesso esemplare, perché un coso del genere non campa certo venticinque anni o giù di lì, ma apparteneva alla stessa razza. O specie. O quello che era.

«Qualcosa non va?» chiese Olaf, quando l’apparente paralisi dell’amico cominciò davvero a dargli sui nervi e preoccuparlo. Davide si riscosse e lo guardò.

«Tutto bene, davvero. Era solo... l’insetto. lì.» Lo indicò con un dito poco stabile.

«Sì, beh, fa piuttosto schifo, sì. Hai paura che ti punga?»

«Qualcosa del genere, sì. Sai com’è, non ho avuto bei precedenti con gli insetti...»

L’ospite indesiderato scelse proprio quel momento per togliere il disturbo. Si alzò con un ronzio più lieve di quanto ci si potesse aspettare dalla sua batteria di ali, girò un poco al di sopra del veicolo e poi sparì verso sud. Verso il vecchio ascensore. Qualche secondo più tardi era solo un ricordo.

«Beh, ha fatto tutto da solo,» disse Olaf. «Si va anche noi?»

Andarono anche loro. Era passato da poco il mezzogiorno quando il paesaggio a sud cambiò. Dove prima c’erano stati soltanto campi e la strada che svaniva, nella più nota delle illusioni prospettiche, si cominciò a poco a poco a delineare una linea quasi retta, grigiastra, che correva da est a ovest, o da ovest a est, a seconda delle preferenze, e sembrava tagliare il passaggio davanti a loro. Chiuderlo come un muro, per certi versi. Ma non era un muro. Sembrava una specie di terrapieno, come pian piano divenne più chiaro, mentre si avvicinavano. Non alto, non aspro, solo un rilievo di terra, poco ma sicuro di origine artificiale, che separava lo spazio in due aree. Oltre, sempre più grande, il fusto dell’ascensore saliva oltre il cielo e diretto nello spazio, dove la stazione militare era ancorata nella sua orbita geostazionaria.

«Dici che si può passare?» chiese Davide, quando ormai soltanto qualche minuto di viaggio ancora li separava dall’improvviso terrapieno.

Olaf scrollò le spalle. «Lo sapremo quando ci saremo arrivati. Comunque non sembra molto ripido, a occhio. Secondo me ci possiamo arrampicare. A piedi, almeno.»

Che col veicolo non sarebbero mai passati era chiaro. Si fermarono a ridosso del terrapieno, dove le coltivazioni non arrivavano e il suolo era brullo e marrone, con sfumature grigiastre: stesso colore del terrapieno, ma anche stesso colore del suolo in qualsiasi altro punto di Madre, per quanto loro avessero potuto verificare. E sì, non era particolarmente ripido, almeno non per due coloni giovani e sani come loro. Non c’erano neppure recinzioni o altro. Era una specie di duna, ma di terra, e perché l’avessero piazzata lì era informazione che altri probabilmente possedevano, non certo loro due.

«Che si fa?» chiese Olaf.

Per quanto potevano vedere, il terrapieno proseguiva invariato in entrambe le direzioni: aggirarlo e proseguire col veicolo non pareva una buona idea. Tuttavia, non pareva neppure necessario. Salire e guardare cosa ci fosse oltre il terrapieno era lavoro di un minuto o due al massimo, anche se volevi muoverti con tutta la cautela possibile, e poi non c’erano cartelli, nessun “Vietato l’accesso”, niente di niente. Solo una barriera di terra, non troppo alta, non troppo ostica e forse neppure agnostica.

«Ormai che siamo qui, saliamo,» disse Davide.

Salirono. E quando furono in cima, davanti a loro si dischiuse la spianata dove era scesa la famosa seconda spedizione: il vecchio ascensore, proprio di fronte a loro, e l’area degli scavi archeologici, dove i primi resti di edifici alieni erano stati trovati, e la base militare, grande come una piccola città ma molto più inaccessibile. Erano sistemati a triangolo, più o meno regolare. Ascensore, scavi, base, separati da chilometri di nulla, o di terreno madriano, che era quanto di più vicino al nulla si potesse immaginare. Qualche veicolo lo percorreva adagio, lampi fugaci di luce nel grigiore costante della piana. Nel complesso, pareva addormentato.

Davide guardava la sua meta e rifletteva. E adesso?