La galassia di Madre - 72
Ritti sul terrapieno che sembrava circondare tutta l’area davanti a loro, almeno fino a dove la vista li potesse guidare, Davide e Olaf osservavano lo spiazzo più in basso, largo e vuoto, che separava (o univa, a seconda di come la pensavi) i vertici di un triangolo artificiale, non proprio delle Bermuda ma forse neppure dei bermuda. Il vecchio ascensore, gli scavi delle rovine aliene, la base militare. Si vedevano linee nel terreno, che potevano essere strade o qualcosa di simile, ma erano piuttosto rozze, non migliori di quella che avevano percorso loro per giungere fino a lì, attraverso campi e campi, e ancora qualche campo. Di movimento non ce n’era più: gli ultimi riflessi di (forse) veicoli erano spariti dal paesaggio. Tutto calmo, in superficie. E in vista.
«Bene, e adesso che si fa?» chiese Olaf, mani in tasca ed espressione da tonno perplesso. Perso nel vuoto contemplare e probabilmente nella noia post- o pre-azione, dondolava piano sul posto, con il peso che si spostava dalla punta dei piedi ai talloni, e viceversa. Ricordava un poco un bambino, se ignoravi il suo fisico da orso depilato. Un bambino che si annoia mentre i genitori decidono, tra un litigio e l’altro.
Davide lo guardò, poi tornò a fissare lo spazio davanti a loro. «Non lo so.»
«La tua idea era di venire qui, no? Per vedere il posto dove c’era tuo papà.»
«Sì, era qualcosa del genere.»
«E adesso lo hai visto.»
«Beh, non l’ho proprio visto.»
Olaf annuì. «I pozzi, eh? Ma hai detto anche tu che secondo te se li è inventati, no? L’amico di tuo papà, dico, quello che ti ha raccontato la storia.»
«Sì, beh. Potrebbe esserseli inventati, sì. Ma...»
«Ma adesso che sei qui ti è venuta voglia di controllare? Ok, ormai che ci siamo, controlliamo pure, ma vedi, il problema è... come controlliamo? Qui è tutto piatto e di pozzi non ce ne sono. Sì, ok, ci sono gli scavi, quelli delle rovine, ma non sono proprio pozzi, ecco. Vuoi che scendiamo e andiamo a chiedere? Per me va bene.»
Davide sospirò. «Chiedere a chi? Agli archeologi?»
«Beh, sono gli unici che scavano, no? Voglio dire, se non lo sanno loro...»
«E pensi che se ci presentiamo là, bussiamo a uno dei loro uffici o quello che sono e poi gli diciamo “Salve, siamo due sconosciuti di passaggio, avete visto per caso dei pozzi da queste parti?”, quegli archeologi ci risponderanno?»
«Beh, più dei militari, secondo me. O vuoi andare a chiedere alla base? Ok, gli archeologi magari non saranno molto contenti di avere due sconosciuti in mezzo ai piedi a fare domande, ma per quel che ne so io i soldati di solito li apprezzano molto meno. Specie se è un segreto militare o qualcosa del genere, sai com’è.»
Sì, Davide sapeva come fosse. O almeno immaginava di sapere, il che è più o meno la stessa cosa, da un certo punto di vista e per un certo tipo di mentalità. Sapeva anche, però, che non poteva certo tornare indietro senza fare niente, non dopo essere arrivati fino a lì. Aveva proposto quella vacanza al mare perché era il posto più vicino alla base militare. Aveva cercato un modo per raggiungere la base. C’era riuscito. E adesso? Ok, quello è il vecchio ascensore, quella è la base, quelli gli scavi, li abbiamo visti, torniamo pure a casa, tanti saluti a tutti?
Sarebbe stata la scelta più sensata. I pozzi potevano esserci o non esserci, ma in ogni caso non erano accessibili. Aveva anche visto un insetto come quello della storia di Zeke. Valeva come prova, no? È vero, non il tipo di prova che avrebbe voluto lui, ma era comunque meglio di niente. Quindi poteva mettersi il cuore in pace, chiudere con quelle scemenze, dimenticarsi Isolazionisti e palle varie, che tanto erano finiti male di sicuro, perché dalla Terra non si era sentito mai niente, e proseguire con la sua vita da colono. Perché aveva una vita, no? Aveva amici. Aveva un gruppo. Non era molto, ma in fondo sono soltanto pochi a poter dire di avere molto: tutti gli altri cercano di accontentarsi di avere abbastanza e tanti ci riescono. Ad accontentarsi, se non proprio ad avere abbastanza. E lui lo aveva quello abbastanza, almeno per adesso. Era messo bene. Meglio di molti.
Chiudiamo? Torniamo in città?
«Devo pensarci ancora un poco,» disse a voce alta. «Ormai che siamo qui...»
Olaf scrollò le spalle. «Pensaci finché vuoi, ma ricordati che poi dobbiamo tornare indietro prima di notte. Cioè, non è proprio obbligatorio, ma di dormire in mezzo a un campo non ho proprio voglia e poi dovremo pagare una multa per non avere riportato il veicolo in tempo. È a noleggio, lo sai.»
«Devo pensarci ancora un poco.»
«Ok, questa è la tua avventura, no? Intanto che ci pensi, però, io vado a farmi una pisciata.» E scese di buon passo dal terrapieno, fischiettando un motivetto che Davide non riconobbe, anche perché il suo amico non era proprio uno zufolatore provetto, né particolarmente intonato. La larga figura del compagno si allontanò tra i campi alla base, in cerca di un albero o un arbusto adatto all’uso che ne voleva fare. Era proprio un tradizionalista, il vecchio Olaf. Davide tornò a guardare in avanti.
Ascensore, scavi, base. E spazi vuoti nel mezzo. Cosa poteva fare adesso? Escludere l’ascensore era una buona partenza: poteva anche essere interessante, a modo suo, ma nel caso specifico non gli era di alcuna utilità. Cercava pozzi, non stazioni orbitali. Gli scavi... sì, senza dubbio erano la zona più accessibile a un profano, lì in basso, e avevano ricoperto un ruolo nella storia della spedizione, ma il racconto di Zeke non li includeva, quindi anche loro potevano essere scartati. Restava la base.
Davide sapeva che erano lì. I pozzi. Dovevano essere lì, nascosti sotto file e file di edifici che quasi formavano una città. Peccato solo che non avesse alcuna possibilità di entrarci. Di soldati ne aveva già visti, anche da vicino, quando al cantiere stradale avevano trovato quel fossile e quando la pietra era spuntata dagli scavi per le fondamenta del museo. Se dal sottosuolo spuntava qualcosa di strano, i militari arrivavano subito: era più o meno una legge non scritta di Madre, o almeno non scritta per quel che ne sapeva lui. Dunque, se tutto ciò che si trovava sotto era segreto per un qualsiasi motivo, a maggior ragione dovevano esserlo i pozzi. L’esistenza di quella enorme base militare era per forza causata dalla presenza di quei fantomatici nove pozzi enormi. Ragionamento impeccabile. QED.
Peccato che non servisse a una beata mazza. O anche a una mazza non beata.
In alto, un sole smorto continuava a giocare a nascondino con le nuvole. Qualche raggio era passato e illuminava a fatica il terreno, rendendolo un poco più vivo, un poco più animato. Si rifletterono su un puntino che usciva dalla base e sfrecciava verso ovest, forse un veicolo o forse altro, e riflessi si alzavano anche dall’area degli scavi, dove macchinari dovevano essere in funzione. Strano come un poco di luce bastasse a trasformare il paesaggio, cambiandolo da vivo a morto. Si vedevano adesso anche altri puntini in movimento, lampi e luccichii brevi e improvvisi: uno si staccò dalla base del vecchio ascensore, un altro viaggiava da sud verso l’area degli scavi, altri ancora si muovevano nel recinto della base. Non che Davide potesse vedere davvero un recinto attorno alla base, non a quella distanza, ma era ovvio che ce ne dovesse essere uno, no? Poi il sole svanì di nuovo e con esso tutto il movimento. La zona era tornata morta, o dormiente.
Passi pesanti risalivano il terrapieno dietro di lui. Olaf di ritorno. L’amico si fermò e sospirò. «Hai pensato abbastanza, allora? O ci vuole ancora un po’?»
«Penso... che dovremmo scendere,» rispose Davide, che in realtà non aveva pensato proprio. Non si era mai sentito a proprio agio, pensando, non almeno se quei pensieri erano seghe mentali continue, che si riavvolgevano sempre su se stesse, senza procedere di un passo. Ed era ciò che gli succedeva adesso. Più pensava a cosa fare e meno sapeva cosa fare. Non andava bene. Erano... sì, erano cose da Matteo. Era lui il cerebronanista di famiglia, il fesso sempre chiuso in casa a studiare, o almeno a fare cose nella propria stanza. Matteo pensava, Davide agiva. Era sempre stato così, in famiglia. Dal suo punto di vista, perlomeno, e secondo il suo modesto parere.
«Ok, scendiamo,» rispose Olaf. «E poi cosa facciamo? Andiamo davvero dagli archeologi?»
Davide tese il braccio. «Andiamo là,» disse. Il suo dito puntava verso la base militare. Ed era quasi convincente, se non badavi a come incerto fosse il suo puntare.
Erika Freire non si poteva lamentare. O meglio, poteva lamentarsi, nessuno glielo impediva, e nei primi giorni si era lamentata parecchio. Il problema era che non serviva, perché nessuno l’ascoltava. Così aveva smesso, almeno ad alta voce e quando c’erano altre persone attorno a lei. Adesso era da sola, ma non si lamentava ugualmente. Perché stava lavorando.
Due esemplari di quella specie di tafano erano chiusi in una teca di fronte a lei. Un bel modello di teca, solida e molto più attrezzata di quelle disponibili ai ricercatori nel centro studi giù in città: i militari si trattavano bene, o almeno la trattavano bene. Nessun problema su questo fronte. Peccato che il lavoro fosse uno schifo. O, più precisamente, peccato che gli insetti fossero uno schifo.
La fissavano, proprio come l’esemplare che aveva catturato col drone e tenuto per un certo periodo in casa, prima di sbolognarlo al professor Leitl (mossa vincente, davvero, astuta come poche). Ogni volta che lei entrava nella stanza, i due pseudotafani smettevano di fare qualsiasi altra cosa stessero facendo (erano parecchie: videocamere di sorveglianza non li lasciavano mai e avevano catturato un numero di attività che avrebbe richiesto mesi di studio anche solo per decidere se significassero poi qualcosa), si posavano al suolo e si giravano verso di lei. A fissarla. Come se fosse lei l’oggetto di studio e loro due gli studiosi. Il che non era da escludere, come Erika si ritrovava a pensare di tanto in tanto, solitamente la notte, quando non riusciva ad addormentarsi e il silenzio era rotto da rumori tenui e scricchiolii soffocati.
«Cosa volete da me?» chiese agli insetti. Gli insetti non risposero. Per fortuna, perché sarebbe stato davvero preoccupante se quei due cosi avessero cominciato a parlare. Non più preoccupante di altri particolari che aveva notato, vero, ma Erika Freire non voleva vivere in un mondo in cui sgorbi che assomigliano vagamente a tafani ti rispondono quando parli con loro. Pure, il suo lavoro adesso era studiarli e non sarebbe potuta tornare in città prima di avere concluso il lavoro (perché un giorno sarebbe tornata in città, giusto?), dunque era meglio concentrarsi e smettere di perdere tempo.
Peccato che studiarli fosse tutt’altro che facile.
Era rimasta sorpresa, all’arrivo nella base. Prima di tutto perché non corrispondeva all’idea che lei si era costruita di base militare. Le dimensioni del posto l’avevano preparata, mentre si avvicinava, ma entrarci era stata comunque una bastonata in fronte, per fortuna solo in senso figurato. Perché il posto non era una base, o un campus molto largo, o qualsiasi altro luogo analogo. La base era una città. Recintata, d’accordo, e sorvegliata come neanche la metropoli di un futuro immaginario assai distorto e oppressivo, ma comunque una città. Normale. Tranquilla. C’erano persino parchi giochi e bambini che saltavano e berciavano come macachi in calore. Ma non era una base militare? Cosa ci facevano i bambini? E i negozi? Da quando le basi militari avevano supermercati e piscine?
Ad aiutarla era arrivato un soldato, mentre si guardava attorno sperduta e confusa, appena uscita dal veicolo che l’aveva trasportata lì e coi bagagli ancora da scaricare. Non che ne avesse molti, perché viaggiava leggera e comunque la vita su Madre non aveva richiesto un guardaroba molto variegato, ma quei pochi erano ancora da scaricare e lei non sapeva neppure dove li avrebbe dovuti portare, o anche solo dove dover portare se stessa. Il soldato sembrava saperlo ed Erika si era fidata, anche per la mancanza di alternative. Era una donna e si era presentata come sergente Carla Hedges: poco più alta di lei ma con spalle decisamente più larghe, era sembrata sicura, rapida e piuttosto cordiale. Per tutta la sua permanenza nella base, il sergente Hedges sarebbe stata la sua responsabile.
«In altri termini ti seguirò, mi occuperò delle tue richieste, ti recapiterò le richieste altrui, ti guiderò nella base e insomma farò da tramite tra te e tutto il resto del mondo,» aveva spiegato, concludendo la sua presentazione.
«Quindi sarai la mai sorvegliante?» aveva chiesto Erika, ancora un poco confusa ma vedendo già il possibile profilo della propria vita in quel posto. Non un profilo piacevole.
«Anche, ma preferisco il termine “aiutante”. Tu sei stata trasferita qui da noi per motivi di studio e a me è stato assegnato l’incarico di agevolarti nel corso della tua permanenza in loco, occupandomi di ciò che ti potrebbe servire e assicurandomi che non si possano verificare incidenti.»
«Incidenti a me o incidenti alla base?»
«Incidenti in generale. E adesso seguimi, ti accompagnerò all’alloggio che ti è stato assegnato.»
Erika Freire l’aveva seguita col bagaglio. L’alloggio che le era stato assegnato si era dimostrato un miniappartamento non molto diverso da quello che aveva occupato in città, ma parecchio diverso da ciò che si sarebbe aspettata lei. C’era anche una specie di zona che si poteva utilizzare come cucina, se si era masochisti e molto, molto spartani, ma il sergente le aveva spiegato che non avrebbe avuto bisogno di cucinare, perché le mense non mancavano. Buona notizia per Erika, le cui competenze in fatto di preparazione dei pasti cominciavano e finivano col riscaldare qualcosa ed estrarlo quando il tempo era scaduto, oppure quando era stanca di aspettare.
«Ti è stato assegnato un budget, non molto elevato ma sufficiente per la tua vita quotidiana e per le ricerche che svolgerai,» aveva poi spiegato il sergente. «Se non ti dovesse bastare, chiedi pure a me e vedremo cosa si potrà fare. Probabilmente poco, ma si sa. Meglio che te lo fai bastare, insomma.»
Il quartiere in cui era sistemata era conosciuto come il buco degli scienziati, perché lì risiedevano quasi tutti gli abitanti della base che non avevano una connessione diretta con l’esercito, ma erano in ruoli di appoggio, come il personale medico e appunto tutti gli altri ricercatori che, proprio come lei, erano stati “requisiti” per gli argomenti a cui si erano dedicati. Campi di studio non molto adatti al pubblico, in apparenza, anche se Erika non aveva idea del perché. Immaginava che lo avrebbe poi scoperto col tempo, magari chiacchierando con qualche collega.
La seconda tappa era stata in un distaccamento dell’ospedale, dove era stato preparato il suo studio. «È qui che lavorerai,» aveva spiegato il sergente, «almeno quando lavorerai al chiuso. Quando poi avrai bisogno di muoverti all’aperto, e immagino che ti capiterà piuttosto spesso, almeno nel primo periodo, mi chiamerai e io ti accompagnerò. Questi sono gli ordini.»
Che Erika non aveva apprezzato, ma il posto non era male, l’equipaggiamento disponibile era tutto di ottima qualità, migliore di quello che aveva avuto in città, e insomma poteva andarle peggio, nonostante l’abuso della forma passiva nei verbi. Aveva anche già visto di sfuggita un esemplare di quello pseudotafano che l’aveva scaraventata in quella situazione. Forse non sarebbe stato un lavoro difficile, dopotutto. Palloso sì, immensamente palloso, ma non difficile. O così aveva pensato.
Adesso non lo pensava più. Perché sì, quell’esemplare era abbastanza frequente nella base e sì, non era difficile procurarsene di nuovi per gli studi e gli esami, ma il problema era un altro. Il problema era che non progrediva. Poteva studiarne e osservarne quanti ne voleva, ma il loro comportamento restava un enigma. Peggio, restava assurdo.
Guardando al lato positivo, quel sergente si era dimostrata una brava persona. Simpatica, socievole, comprensiva, disponibile e più o meno tutto il contrario di come era sembrava all’inizio, coi passivi e gli ordini da rispettare. Dopo due giorni erano passate a chiamarsi Erika e Carla e nel giro di una settimana erano praticamente amiche, uscivano a bere assieme la sera e parlavano di tutto, incluse le lamentele sui superiori passati e presenti, progetti per il futuro e quant’altro. Sì, tutto sommato non le era andata poi così male. Peccato per i tafani.
Uno di quei cosi l’aveva anche punta, nel suo secondo giorno di permanenza alla base. O meglio, le aveva punto un braccio durante il secondo giorno, mentre era in un parco con Carla a fare scorta di esemplari per i suoi studi. Una puntura quasi indolore, che aveva sanguinato un poco ed era sparita quasi da sola. Il sergente aveva comunque insistito per disinfettarla, perché di tanto in tanto capitava che qualcuno avesse reazioni allergiche e sarebbe stato meglio passare anche dal pronto soccorso, giusto per sicurezza, sai com’è. Erika non si era opposta. Non c’erano stati problemi e dopo meno di un’ora la puntura era quasi svanita, come lo spettro del passaggio di una zanzara.
«Alcuni le considerano proprio così, una versione locale delle zanzare,» aveva detto Carla. «Non so se lo siano davvero, ma di solito si comportano come loro: una puntura e via. E non ti ronzano mai attorno alla testa mentre cerchi di dormire, che secondo me è un pregio.»
«Ce ne sono parecchi?» aveva chiesto Erika, mentre tornavano verso il parco.
«Non molti e sono concentrati soprattutto nelle aree verdi della base. Lì ne potrai catturare quanti ne vuoi, sempre che tu non ne voglia centinaia, ovvio. Non so dirti quando siano più frequenti, se ci sono orari o periodi dell’anno che preferiscono, o altro. Non ci ho mai fatto caso, sai.»
«Magari te lo saprò dire io, quando le avrò studiate.»
Ne aveva catturate una decina, in quella occasione, e si era illusa che sarebbero potute bastare, non per una comprensione approfondita ma almeno per farsi una prima idea. Non era andata così. Nelle tre spedizioni successive, ogni volta in un parco diverso, avevano raccolto un numero crescente di esemplari, ma il loro comportamento ancora sembrava privo di senso. Talvolta assomigliavano nel modus operandi a mosconi, talvolta a zanzare, talvolta ricordavano addirittura api, come se ci fosse un ordine nascosto dietro il loro apparente muoversi casuale. Se ce n’era davvero uno, però, doveva essere nascosto molto bene, perché Erika non aveva ancora capito neppure da dove cominciare una ricerca. E adesso le sarebbe toccata una nuova battuta di caccia, perché erano rimasti solo quei due esemplari nella teca davanti a lei.
Esemplari che la fissavano. Immobili.
Paragonata a loro, tutta quella immensa base militare era perfettamente logica e sensata. Somigliava a una città, perché questo era: una città, dove vivevano i militari, le loro famiglie, il personale che si occupava dei servizi (dalle pulizie alla cucina ai vestiti), le famiglie del personale che si occupava dei servizi, medici e infermieri, le famiglie di medici e infermieri, più tutta la massa raccolta sotto la categoria dei vari ed eventuali, come Erika stessa. Una città, una comunità, un piccolo mondo il cui primo prodotto erano militari. Li esportavano nelle aree circostanti, per così dire. Tutto funzionava, tutto si manteneva benissimo.
«È più o meno come una città nata attorno alla sede di una grande industria, o una grande fabbrica, hai presente?» le aveva detto Carla una sera, in un locale del posto. « Soltanto che qui l’industria è l’esercito. Non produciamo granché, ma abbiamo comunque bisogno di vari servizi e così tac, ecco che ci spunta una città, i soldi girano e l’economia funziona. O qualcosa del genere, vedi?»
Erika vedeva e sì, tutto sembrava funzionare. Ma le considerazioni sociologiche, economiche o quel che erano non occupavano né il primo né il sedicesimo posto nei suoi pensieri. Quel posto adesso era occupato dagli pseudotafani, maledetti loro. Gli pseudotafani e lo studio che non proseguiva.
Eppure doveva esserci una spiegazione per il loro comportamento. Non si trovava lì da molto e non poteva certo sostenere di avere visto l’intera base, anche perché comunque c’erano aree a cui le era vietato l’accesso, ma le sue prime osservazioni avevano grossomodo confermato quanto aveva detto Carla: quella specie di insetti sembrava raggrupparsi soprattutto nelle zone verdi della città. Se poi erano un parco, magari con acqua, tanto di guadagnato, ma sembravano accontentarci anche di una concentrazione di alberi e arbusti superiore alla media. Perché sì, c’erano alberi e c’erano anche dei cespugli ornamentali: non molti, ma confrontati alla miseria di Oklahoma City e del territorio che circondava la base, anche due sputi di ortica sarebbero stati una foresta tropicale.
Aree verdi, dunque. Erika ne aveva contate sei, distribuite in modo quasi uniforme sulla superficie della base. Stiracchiando un poco la definizione, poteva arrivare a quota otto, ma per gli ultimi due si trattava giusto di vialetti alberati. Ai tafani sembrava bastare, perché era lì che li potevi trovare e catturare più facilmente; se ne vedevano anche altrove, ovvio, appoggiati sulle pareti delle case o su pali, ma in quelle otto zone potevi sempre essere sicura di vederne. Esisteva anche un’altra zona verde, una specie di piccolo parco più o meno al centro della base, ma l’accesso le era vietato. Carla si era però informata per suo conto e le aveva confermato che sì, anche lì la concentrazione degli insetti era notevole. «Ma non posso fornirti numeri, perché nessuno li ha contati,» aveva aggiunto.
Oh beh, bisognava sapersi arrangiare. La possibile predilezione per le aree verdi era l’unico dato in suo possesso e su quello aveva cercato di basare il proprio studio del loro comportamento. Amavano il verde perché trovavano più cibo? Plausibile, peccato solo che nessun esemplare tenuto in cattività volesse mangiare. Come poteva lei studiarne le abitudini, se quei maledetti si rifiutavano persino di mangiare? Si lasciavano morire di fame, probabilmente per farle dispetto. Aveva anche eseguito una rudimentale autopsia su alcuni esemplari, scoprendo che possedevano un apparato digerente e che quell’apparato digerente sembrava funzionare, progettato per cibi solidi, forse piccoli insetti o cose simili. Ma non mangiavano. Qualunque cosa lei offrisse, non mangiavano. E la fissavano.
Aveva imparato diverse cose sulla struttura di quegli pseudotafani, anche se nulla aiutava a capirne il comportamento. Le due proboscidi che avevano sotto la testa servivano effettivamente a pungere e aspirare piccole quantità di sangue; il problema era che quel sangue non finiva poi nell’apparato digerente, ma attraversava tre minuscoli organi per essere convogliato verso il loro cervello. O quel ganglio nervoso che faceva funzione di cervello, sistemato nell’addome. Il loro apparato digerente era invece connesso a una microscopica bocca, poco sotto le due proboscidi, che presumibilmente utilizzavano per mangiare... qualunque cosa mangiassero.
Il loro cervello aveva una struttura particolarmente complessa, diversa dagli pseudoscarafaggi che aveva studiato in precedenza. Non sembrava un cervello completo, neppure per gli standard di un insetto, molto più rilassati di quelli dei mammiferi: sotto minaccia di morte, Erica avrebbe forse dichiarato che sembravano permettere soltanto un piccolo numero di decisioni all’individuo, mentre il grosso del cervello poteva forse essere una specie di ricetrasmittente. Contatto telepatico con altri individui della stessa specie? Possibile, ma solo come vaga ipotesi. Avrebbe dovuto poterne studiare il comportamento da vivi, non smontarli da morti! Ma quei maledetti si lasciavano crepare, piuttosto di darle uno straccio di soddisfazione professionale.
Pure, in via del tutto provvisoria li poteva considerare come insetti sociali. Anzi, invece di pensarli come singoli individui, era meglio vederli come cellule (neuroni?) di un organismo (cervello?) che era... sparpagliato là fuori. Un organismo che non possedeva una reale esistenza concreta, ma era in un qualche modo distribuito fra tutti i pezzi che lo componevano. Ciò non spiegava cosa o come gli insetti mangiassero, né perché decidessero di lasciarsi morire (a meno che chiuderli in una teca non bloccasse in qualche modo le comunicazioni, lasciandoli incapaci di funzionare), ma un problema alla volta, ok? Partiamo dal comportamento.
Presentati così, assomigliavano alle api. Non che le api terrestri fossero telepatiche o roba simile, sì, ma in un certo senso era come se lo fossero. Un senso figurato. Metaforico. E comunque su Svarga esistevano alcune specie di insetti che funzionavano più o meno così, no? Dunque era possibile, da qualche parte nella galassia. E se era possibile da qualche parte nella galassia, perché non anche lì su Madre? Sarebbe stata una bella scoperta, una che forse ripagava anche del trasferimento in una base militare, in cui avrebbe dovuto spendere chissà quanto tempo ancora.
E, adesso che ci pensava, se i militari fossero così interessati a questo insetto proprio perché sanno o sospettano che possieda capacità telepatiche, o quello che è? Avrebbe senso. Spiegherebbe molto. Sarebbe anche un poco paranoico, d’accordo, ma un poco di paranoia è...
Uno dei due esemplari superstiti morì, tranciando il filo dei suoi pensieri. Erika lo osservò quasi in diretta: vibrò un piano di ali, ne vibrò un altro paio, poi sembrò assieme irrigidirsi e rattrappirsi. Il compagno ronzò per alcuni secondi, senza muovere le ali, quindi si azzittì e tornò a fissarla, come se niente fosse. E forse niente era, per il piccolo cervello di un insetto. Come poteva lei saperlo?
«Voi mi tirerete scema,» mormorò Erika Freire. Poi si alzò, contattò Claudia e la avvertì che domani sarebbero dovute andare di nuovo a caccia di insetti: gli esemplari che aveva morivano come... hah, come mosche. Ne risero assieme. Forse era il caso di richiedere davvero un tipo di teca differente e verificare se ci fosse del vero nella sua idea che rinchiuderli bloccasse le comunicazioni, causando la loro morte. Chissà, poteva anche aver trovato finalmente il bandolo della matassa. O forse della carcassa, si corresse, osservando l’insetto appena defunto.
Valeva comunque la pena di fare un tentativo.
Valeva comunque la pena di fare un tentativo, no? Magari non entrare nella base, d’accordo, quello era pressoché impossibile e irrealizzabile, ma avvicinarsi e basta? Avvicinarsi il più possibile, giusto per vedere cosa sarebbe successo. Poteva esserci qualche traccia, no? Qualche, non so, indizio o una suggestione, un, come si chiama, un qualcosa che ti dice sì, ecco, ci sono i pozzi, sono qui. Eh?
Olaf lo ascoltò in silenzio, con una espressione che poteva indicare preoccupata perplessità, oppure stitichezza prolungata. Davide optò per la prima interpretazione: con tutti i richiami della natura che aveva già ricevuto nel corso del viaggio non poteva certo essere la seconda. Una qualche risposta, però, sarebbe risultata gradita. Tanto per non sentirsi troppo stupido, ecco.
«Cosa ne pensi allora?»
Olaf rimase in silenzio ancora per un poco. «Beh, sì, potremmo anche avvicinarci,» disse alla fine. «È che, insomma, non servirà a niente, no? Voglio dire, ok, facciamo questa camminata in mezzo al niente, va bene, ma poi? Anche se ci avviciniamo alla base, cioè, non è che ci sarà molto da vedere, no? Più di quello che vediamo da qui, voglio dire.»
Il che era vero e ragionevole. Corrispondeva anche a ciò che pensava Davide stesso. Non sarebbe cambiato nulla avvicinandosi e basta; se proprio voleva scoprire qualcosa sui pozzi, doveva entrare nella base, semmai, e frugare in giro. Frugare sotto. Avvicinarsi e basta sarebbe stato proprio quello che diceva Olaf: una scampagnata in mezzo al niente. Non il massimo della vita. Eppure...
«Lo so che è inutile, ma ormai che sono qui voglio anche avvicinarmi,» rispose. «Non è una cosa utile o sensata, ma è una cosa che voglio fare. È qualcosa che...» Gesticolò a casaccio, in cerca di un buon modo per completare la frase. Non ne trovò. L’unica conclusione che fosse anche vera era dire «lo faccio per capriccio», oppure «lo faccio per dispetto», ma nessuna delle due lo avrebbe aiutato a perorare la propria causa, qualunque cosa significasse “perorare”. Ma Olaf annuiva col suo testone, per cui qualcosa doveva essergli arrivato.
«Sì, beh, ok, capisco. Ormai che siamo qui, vuoi andarci il più vicino possibile, non per scoprire o vedere qualcosa, ma per esserci andato vicino. Cioè, come dire, hai fatto quello che potevi e bene, ti sei messo il cuore in pace. È qualcosa così, no?»
No, non proprio così, ma neppure Davide sapeva bene come fosse, ora. Zeke gli aveva ordinato di trovare i pozzi e far scendere qualcosa in un pozzo, in un modo o nell’altro, ma quella missione era ormai fallita. O meglio, non proprio fallita: era impossibile e basta. Davide si era costruito una idea di come potesse essere Madre, prima di partire, ma quella idea si era dimostrata una scemenza, una volta arrivato sul pianeta. Di pozzi allo stato brado non ne avrebbe mai trovati, ammesso che i pozzi esistessero davvero; tutto ciò che poteva trovare erano basi militari a proteggerli e nasconderli (se i pozzi esistevano, beninteso). Dunque la missione di Zeke era irrealizzabile, almeno da lui. Poteva dimenticarsene una volta per tutte e continuare la propria vita da colono. Sarebbe stato facile. Lo aveva fatto per mesi. Lo aveva fatto quasi per due anni, in effetti.
Solo che ormai non era più il piano di Zeke. Trovare i pozzi, vedere un pozzo, era diventata adesso una questione personale per Davide. Si era ostinato a trovarli, di una ostinazione così cieca da fargli credere ancora che personale e importante fossero sinonimi. E davanti a sé aveva la fine della corsa. Non gli si sarebbe più presentata una occasione di arrivare così vicino a una base, non almeno in un futuro prossimo. In un futuro remoto, forse, chissà; in un futuro remoto poteva succedere di tutto; se spendeva anni a vivere lì, come colono, magari alla fine avrebbe anche avuto occasioni migliori. Un giorno magari i pozzi sarebbero anche diventati di dominio pubblico (ammesso che esistessero). Un giorno, appunto. E forse.
Ma maledizione erano lì, davanti a lui, e lui avrebbe continuato ad avvicinarsi, anche strisciando, fino a che non fossero arrivati i militari a prenderlo per un orecchio e rispedirlo a casa a calci. Poi sarebbe partito, ok, poi sarebbe tornato a fare la sua vita da bravo colono, con gli amici, col lavoro e tutto il resto, poi si sarebbe potuto mettere più o meno il cuore in pace, assieme a qualsiasi altro muscolo od organo retorico, e rinviare tutto a un futuro da destinarsi, una data remota, quel che era. Ma adesso sarebbe andato avanti. E poi ancora avanti. E... avanti, sì.
Andarono avanti. Scendere dal terrapieno non fu difficile, proprio come non era stato difficile salire. Doveva essere solo una specie di barriera per segnare il confine, come un cartello stradale, perché di certo non lo potevi usare per tenere lontano gli intrusi. Oh beh, di cose strane ce n’erano parecchie su quel pianeta: una in più non avrebbe fatto alcuna differenza. Ma Davide e Olaf lo superarono e si incamminarono attraverso la distesa di terra brulla e giallastra, spolverata di marrone, che riempiva il vuoto tra i vertici del triangolo: ascensore, scavi, base. Loro puntavano verso la base.
Il sole sopra di loro continuava a giocare con le nuvole, regalando di tanto in tanto sprazzi di luce e reticolati di riflessi, splendendo sulle superfici di veicoli e macchinari: verso gli scavi archeologici, soprattutto, ma anche ai piedi dell’ascensore. La base davanti a loro sembrava calma, magari non proprio addormentata ma sonnecchiante. Tanto di guadagnato. Davide si aspettava da un momento all’altro un veicolo diretto verso di loro, piuttosto grande, magari con una colorazione mimetica o la roba che piace ai militari. Sarebbe arrivato, fermandosi proprio davanti a loro per bloccare la strada, e ne sarebbero scesi due, tre, forse anche cinque o sei soldati. Armati, ovviamente. Fermi, chi siete, cosa volete, questa è zona militare, divieto d’accesso, palle varie. Li avrebbero sgridati, facendo un po’ di scena per dimostrare che sì, loro erano grandi e grossi e avrebbero sculacciato tutti i bambini cattivi, dopodiché li avrebbero cacciati, magari con una nota di demerito sulla loro scheda di coloni o quello che era. Funzionava così, giusto? Funzionava così, almeno nella fantasia di Davide.
Nella realtà il veicolo non arrivava. Avevano ormai percorso due o tre chilometri, l’ascensore era un pilastro luminoso, Atlante artificiale che sosteneva il peso del cielo sulle spalle, e l’area degli scavi era un mosaico di crateri, barriere opache, reti, altre barriere opache, con ogni tanto qualche figura poco più grande di una formica che si muoveva nel mezzo, lontana. Umani, archeologi, o semplici manovali. Ne avevano visti alcuni, sia al cantiere stradale per il fossile, sia al cantiere del museo per la pietra, e Davide non ne era rimasto impressionato. Ne rimase ancora meno impressionato adesso, quando la distanza li riduceva a insetti. Non erano importanti, loro.
Lo era la base, sempre più vicina. C’erano strade che la congiungevano sia all’ascensore sia all’area degli scavi, strette e squallide ma ricoperte col materiale che si usava per la pavimentazione stradale su quel pianeta, quello che sembrava vecchia gomma da masticare. Materiale ricavato dallo studio delle rovine aliene, dicevano. Non che avesse rilevanza. Ma da lontano le strade gli erano sembrate poco più di mulattiere, come quella che avevano percorso loro per arrivare lì; avvicinandosi, però, il loro aspetto migliorava, si faceva più serio, professionale. Altro dettaglio curioso, ma di nuovo non rilevante. Non come la base.
Che era una città, sì. Una città rinchiusa da reticolati e barriere, come mille, duemila o tremila anni prima erano state racchiuse da mura, secondo i manuali di storia. Era veramente grande. Per quanto ne capiva Davide, noto esperto in urbanistica, poteva contenere trenta, quarantamila persone. Forse anche di più, perché alcuni degli edifici sembravano piuttosto alti, e poi non potevi escludere che ci fossero strutture sotterranee. Hah, quello non lo escludeva di sicuro, anzi! Le strutture sotterranee c’erano e si chiamavano pozzi, giusto? Davide ne era sicuro. Doveva essere così. Perché se non era così, allora stava solo perdendo tempo, nel migliore dei casi. Nel peggiore, Zeke lo aveva ingannato su tutta la linea e gli ultimi anni della sua vita erano stati solo una buffonata, una pagliacciata, spesa a seguire la carota immaginaria che il padrone gli faceva dondolare davanti al muso.
Ma ancora nessuno arrivava.
Dovevano averli visti, no? Dovevano avere visto due fessi che camminano in mezzo a una specie di deserto terroso, no? Voglio dire, non c’era niente a coprirli e quella era una base militare. Avranno le sentinelle, umane o meno che siano. Videocamere ovunque, supersistemi di sorveglianza, cose così.
«Ci mettono parecchio ad arrivare,» disse Olaf.
«Chi? I soldati?»
«Sì, voglio dire, ormai dovrebbero averci visto, no? Pensavo che, cioè, avvicinarci così a una base, sai, dovrebbe essere zona vietata, no? Qualcuno dovrebbe uscire a fermarci, no?»
Davide annuì. Qualcuno doveva uscire a fermarli. Era così che funzionavano le sue fantasie. Era ciò che ti dovevi aspettare, quando ti avvicinavi a un posto supersegreto e superprotetto. Pure, ancora non si vedeva nessuno. La strada davanti a loro era vuota, sgombra, libera. Procedettero, sempre in attesa, sempre senza essere fermati. Ancora un paio di chilometri al massimo e avrebbero raggiunto il reticolato. E poi? Davide non ne aveva idea. Recitava a soggetto, sperando che qualcosa sarebbe successo, contando che qualcosa sarebbe successo, in un modo o nell’altro.
Poi qualcosa successe. Non arrivarono di fronte, ma da dietro, e non si accontentarono di fare loro una bella predica, corredata da un poco di sana scena, tanto per spaventarli e rafforzare il concetto che si trovavano nel posto sbagliato ed erano chiaramente le persone sbagliate. Quando giunsero a fermarli, li fermarono davvero. Senza tante parole, ma con azioni, mani che afferravano, polsi che si bloccavano, serrati dietro la schiena, e tutto il resto della pantomima consueta.
Perché non vennero per sgridare o parlare, ma per arrestare. E poi li condussero nella base.