Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 98

Rientrarono agli alloggi nel pomeriggio, dopo l’incontro col gruppo lakshmita. Erano passati dagli uffici della vicina sede del Teatro, ma non c’era niente per loro e la nuova responsabile che aveva sostituito lo scomparso Olaf, in un impeto di generosità, aveva concesso il giorno libero a tutti, in attesa di novità. «Così vi riposare e vi riabituate alla città, ahaha, che magari ci dovremo restare per un po’, stavolta». Spiritosissima. Non che loro si fossero lamentati, ovvio, perché un giorno libero è sempre un giorno libero e solo uno stupido ci sputerebbe sopra, ma come aveva detto Sebastian, con Olaf si stava meglio. Non perché facesse battute migliori (non le faceva), ma perché Olaf era... Olaf. Era il gigante buono, se mai ne avevano visto uno nel mondo reale. Tonto sì, e spesso tanto, ma anche e soprattutto buono. E accettabilmente irresponsabile.

La nuova responsabile, invece, era tutta un’altra cosa. Per cominciare, l’avevano già avuta una volta ai tempi del cantiere per il museo, quando Klaus si era fatto spappolare una mano e c’era stato ogni genere di problemi. Leena Branch, la responsabile del gruppo a cui erano stati aggregati nel tempo in cui Olaf era impegnato a farsi masticare e fustigare dai superiori, per non ave controllato ciò che i suoi sottoposti stavano facendo e soprattutto non avere chiuso e disattivato tutto prima di lasciare il cantiere per la notte. Era stata lei a guidarli quando avevano trovato la famosa e famigerata pietra e Sebastian la ricordava con nostalgia, più o meno come si ricorda con nostalgia il primo ricovero in ospedale. Non perché era severa, ma perché era quadrata.

«Ma è proprio la donna della mia vita,» aveva ripetuto spesso a quei tempi, a chiunque lo volesse ascoltare e a molti di quelli che non avrebbero voluto. «Saremmo una coppia fantastica: io in catene in cantina a spaccare pietre e lei che mi frusta.» Nessuno aveva mai capito bene cosa volesse dire di preciso, ma tutti avevano ritenuto opportuno non chiedere. Come aveva commentato Selina, «Non infili la testa in un nido di vespe, se puoi farne a meno». Poi Olaf era tornato, il cantiere del museo era stato chiuso e a Leena Branch non avevano pensato più. Almeno fino a che Olaf non era sparito di nuovo, questa volta assieme a Bruno Kitzis. Senza un responsabile, il gruppo era stato diviso e distribuito: a loro era toccata la Branch.

«Olaf non tornerà più, vero?» disse Tunde Bohr. Sedevano in una delle sale comuni al pianoterra nel dormitorio del Teatro che fungeva da loro alloggio. Avevano il pomeriggio libero e forse sarebbero stati liberi anche il giorno seguente, ma per adesso non avevano voglia di fare qualcosa. Soltanto di parlare, discutere dell’incontro con quel gruppo venuto da Lakshmi, discutere della storia che aveva raccontato il terrestre, Matteo. Quello che si era presentato come fratello di Bruno, che però non era Bruno ma Davide. Quello che... Quello che, appunto.

«A questo punto dubito che lo rivedremo,» rispose Selina Dialla. «Sempre se si chiamava Olaf.»

«Quindi tu ci credi a tutta quella storia.»

Selina scrollò le spalle. «Che Bruno non fosse Bruno ma Davide? Certo. È documentato, hai visto anche tu. Che quel Matteo fosse suo fratello? Idem come sopra. Che Davide fosse fuggito qui per cambiare aria, dopo essersi messo nei casini a casa? Terza risposta affermativa e la ragione è sempre la stessa. È documentato. È attestato anche dall’ambasciata. Se anche non fosse documentato, ma lo è, sarebbe credibile comunque. Sai quanti ce ne sono tra i coloni con una storia del genere, un nome falso e un bisogno pressante di lasciare la Terra? Più di quanti ne immagini, probabilmente: mi sono documentata anch’io, prima di partire. Per sapere dove sarei finita, capisci?»

«In una specie di discarica della Terra, insomma.» Il sorriso di Tunde era allegro soltanto per valori molto bassi di allegria. «Sì, questo lo so anch’io. È solo che non ti aspetti mai che sia qualcuno che tu conosci, no? Qualcuno vicino a te. Sai che ci sono mezzi delinquenti, ma pensi sempre che siano da un’altra parte, in altri gruppi. Ci sono, ma... fuori. Nell’aria.» Agitò una mano. «È quando scopri di averne avuto uno di fianco che il discorso cambia.»

«Beh, beh, mezzi delinquenti,» disse Sebastian Hahn, raddrizzandosi sulla sedia. «Adesso stiamo un poco esagerando, non trovi? A quanto ha detto quel Matteo, suo fratello non aveva ancora fatto veri danni. Si stava solo preparando ed è scappato prima che cominciassero. Magari ha capito che stava per fare una scemenza e ha deciso che trent’anni luce erano una distanza sufficiente.»

«E poi è sparito. Assieme a Olaf. Dopo che ci avevano detto che sarebbero rientrati con un giorno di ritardo, per fare qualche “esplorazione in zona”. Curioso, vero?» Selina lo fissò con mezzo sorriso.

«Quindi tu dici che c’era dentro anche Olaf?» chiese Tunde.

«Dentro, fuori, a metà. Non lo so. Dico solo che in qualche modo c’entrava pure lui. Erano sempre in coppia, quei due. Non so a cosa servisse quella loro esplorazione o cosa volessero esplorare, ma è ovvio che qualunque cosa sia successa a Davide - ed è meglio che ci abituiamo a chiamarlo così, col suo vero nome - qualunque cosa sia successa a lui è successa anche a Olaf.»

«Va bene, va bene, va bene, va bene, va bene,» Sebastian allargò le braccia. «Sia come sia, va bene. Il punto è: e adesso? Abbiamo quei due che sono spariti, abbiamo un gruppetto piombato qui dalla lontana Lakshmi per cercare il figliol prodigo, o il fratel prodigo, e ancora non abbiamo un lavoro o un incarico. È dunque? Incontriamo di nuovo quei tizi, ce ne andiamo per i fatti nostri, ci sbattiamo egregiamente le palle di tutto quanto... o cosa? Attendo con entusiasmo le vostre proposte.»

Seguirono diversi momenti di silenzio, tutti allineati in fila indiana, come soldatini, o come persone molto educate che attendono il proprio turno per pagare alla cassa o eseguire qualche operazione al più vicino sportello. La sala comune del dormitorio era vuota, a parte loro tre: tutti a lavorare, o per lo meno tutto fuori, per strada, in giro, da qualche parte. Tranne loro, che pensavano e attendevano. Nella pace vagamente sepolcrale del posto si sarebbe potuto sentire il peto di una mosca, ammesso che le mosche scorreggino. Non si sentivano però opinioni o proposte, che sarebbero state molto più utili di ditteri affetti da meteorismo.

«Bene, vedo che siamo tutti pieni di idee, così pieni che potremmo scoppiare a ogni momento e più o meno ci escono dalle orecchie e da ogni altro orifizio corporeo tranne la bocca,» disse Sebastian, battendo le mani. Un sordo clap che rimbombò ovunque, anche dove non sembrava che un clap o se per questo un altro tipo di suono potesse rimbombare. «Cambiamo la domanda: che ne pensate di quei tizi? Qualcosa ne dovrete pure pensare, no? Anche solo un insulto etnico, dai.»

Altra fase di silenzio, durante la quale tutti e tre pensarono, persino Sebastian che aveva lanciato la domanda. Cosa ancora più sorprendente, tutti e tre pensarono alla risposta, o almeno nei dintorni di una possibile risposta. Quattro viaggiatori provenienti da Lakshmi e tre persone a visualizzarli, per un totale di dodici immagini più o meno diverse tra loro. Per semplicità e pigrizia le riassumeremo e condenseremo in quattro immagini, una per persona immaginata, in cui verseremo una sintesi più o meno parziale dei pareri formati dai tre coloni madriani.

Matteo Kori, prima di tutto. Per acclamazione generale, uno sfigato: il genere di persona che non sa trovare il proprio ano, neppure con un atlante e l’ultimo modello di navigatore. Passabilmente alto e passabilmente longilineo, capelli corti e di un castano rossastro, esistenzialmente incerti sul proprio colore tanto quanto l’entità su cui sono cresciuti lo è in più o meno qualsiasi cosa. Non assomiglia a Davide, ma ne condivide grossomodo l’aria da persona in prestito. Ispira fiducia come un pacchetto anonimo che fa tic-tac. Sembra dire la verità, forse perché incapace di raccontare balle credibili.

Rabindranath Sharma, il tizio più basso e dalla pelle scura, con la barba da filosofo o aspirante tale. Se mai uno di loro ha visto un lakshmita (ma nessuno di loro ne aveva mai visti prima), lui ne è il perfetto stereotipo. Sembra anche una persona seria e tendente al noioso, una di quelle che parlano come un vocabolario e traggono un piacere poco salutare dall’uso di parole lunghe e complicate, se possibile ignote agli ascoltatori. Vestito bene ma non elegante. Una persona che pare affidabile, ma che di certo non vorresti attorno a una festa, non per più di sedici secondi.

Indira Qi Yong, la donna che parla. E parla. Probabilmente ha imposto un regime di terrore sul suo gruppo: un gigante gassoso (ma solo in senso figurato) attorno a cui ruotano satelliti insignificanti o quasi. Fra i suoi antenati devono esserci più o meno tutte le varianti umane conosciute e approvate, ma il risultato è decisamente apprezzabile, con pelle ambrata, occhi a mandorla, capelli ricci ma non troppo e zigomi medio-alti. Le riflessioni di Sebastian Hahn si dilungano poi su altre sue aree e altri suoi dettagli, ma la decenza invita a soprassedere ed escluderle dal riassunto. È senza dubbio il boss della comitiva lakshmita e nessuno desidererebbe fare cambio. Persino la quadrata Leena Branch sa incutere meno timore reverenziale.

Mei Saddhatissa, la tipa che, mah, sì, c’era anche lei, lì in un angolo, ma non è che si sia sentita, una specie di, non so, soprammobile. Capelli scuri, credo, e lisci. Non molto alta, ma insomma, forse era anche, ecco, un po’... No, seriamente, ma voi l’avete notata? Risultati non pervenuti.

«Potrebbe essere interessante vedere cosa combinano da queste parti,» azzardò Tunde. «Non so un granché di Lakshmi, so solo che esiste, ma immagino che sarà molto, molto diverso da Madre.»

«Non c’è proprio paragone,» disse Selina. «Per quello che ho studiato io, Lakshmi è un pianeta fatto di verde, con tanta acqua e tanta, tanta vegetazione. E caldo. Parecchio caldo. Pare che durante certi periodi dell’anno sia sconsigliato uscire, perché la temperatura è troppo elevata. Non so se sia vero, mi suona come una delle classiche leggende metropolitane, ma caldo lo è come media. E la struttura sociale è completamente diversa da quella degli altri mondi coloniali.»

«Cioè?» chiese Tunde.

«Cioè è un mondo senza moneta. Non chiedermi i dettagli di come funzioni, perché non ne ho idea, non era quello il mio campo di studi all’università, prima di mollarla, ma fanno tutto senza soldi.»

«Qualcosa del genere l’ho sentito anch’io,» disse Sebastian. «Praticamente uguale a noi, eh? Volete scommettere che entro un mese o se ne scapperanno a casa, senza scoprire nulla, oppure si saranno messi in qualche casino? Non ce li vedo a resistere molto da queste parti.»

«Il fratello di Davide sì, ha la faccia di chi è capace di mettersi in qualunque tipo di casino, ma non credo che gli altri lo seguirebbero,» disse Selina. «No, la ragazza, Indira, li tiene in riga tutti quanti. Se ne torneranno a casa presto, immagino, perché su un pianeta primitivo come il nostro non so se avranno molta voglia di restare, specie se dovranno anche lavorare, ma casini no, non ce ne saranno. Non credo che ce ne saranno, almeno.»

«Dite che dovremmo tenerli d’occhio, almeno per un po’?» chiese Tunde. «Giusto per, non so, così per vedere se sanno qualcosa di interessante, o scoprono qualcosa di interessante. Non credo, ma chi lo sa? E poi mi piacerebbe chiacchierarci un po’, sapere qualcosa del loro pianeta.»

Sebastian scrollò le spalle. «Perché no? Tanto per adesso non abbiamo niente da fare e dubito che il nuovo incarico ci arriverà nei prossimi giorni. Possiamo anche fare qualcosa di diverso dal girarci i pollici nei locali della città. E poi ci sono due ragazze nuove.»

Tunde e Selina si astennero dal commentare l’ultima osservazione. Che non sarebbero arrivati nuovi lavori a breve era ovvio. Quando ne finivano uno, c’era sempre un interregno di qualche giorno o di qualche settimana nel peggiore dei casi, in cui si decidevano le prossime assegnazioni, valutando di volta in volta i risultati ottenuti, le attitudini personali e i cavoli a merenda. E poi non è che ancora si fossero integrati molto bene nel nuovo gruppo. Perché dunque non divertirsi coi nuovi arrivati?

Poi a cena Bianco Veigel portò una notizia a sorpresa: si parlava di riprendere i lavori al museo. Si parlava seriamente di riprendere i lavori al museo. «Ma non è la solita chiacchiera, eh? Ho sentito la Branch che ne parlava col responsabile di un altro gruppo. Ancora non c’è nulla di certo e non si sa di preciso quando, ma pare che sarà a breve. O almeno relativamente a breve, sapete: tempo che dai militari arrivi l’ok definitivo, ma in linea di massima dovrebbe succedere. Presto.»

Sebastian aveva parecchi dubbi su quanto presto quel “presto” sarebbe stato e li espresse; Selina li condivideva in parte, ma li tenne per sé. Che prima o poi sarebbero ricominciati era ovvio: avevano ormai costruito troppo e neppure quelle teste bacate dei militari avrebbero accettato di sprecare tutto e magari ripartire da capo in un altro posto. Che accadesse proprio adesso, però, sembrava strano.

O forse non lo era, si disse poco dopo. Sembrava che ci fosse un grande interesse verso Madre, se ti fidavi dei notiziari che arrivavano sul pianeta: la storia di quel planetologo che aveva scoperto o che sosteneva di avere scoperto strutture organiche nei giganti gassosi, per cominciare. Più o meno tutta la intellighenzia madriana ne aveva parlato male, per un motivo o per l’altro, e dai notiziari pareva sparita ogni traccia del planetologo, ma c’era anche la delegazione che era arrivata da Agni e di cui le aveva parlato Rick Huebner. Volevano studiare la pietra, diceva, e se in tanti vogliono studiare la nostra pietra, o anche solo vederla, avranno pure bisogno di un posto decente in cui metterla, no? Il museo, concluso e decorato, sarebbe stata la risposta perfetta. O almeno una risposta.

Se ne discusse per un poco attorno alla tavola, anche solo come alternativa alla necessità di pensare a ciò che stavano mangiando, ma alla fine tutte le chiacchiere furono soltanto chiacchiere: ipotesi e pareri, opinioni e supposizioni, elucubrazioni e previsioni, ma di concreto? Nulla, a parte voci prese qui e là per strada. E se le voci per strada sono qualcosa di concreto...

Il giorno seguente pranzarono col gruppo lakshmita. Ancora non erano arrivati incarichi e secondo la Branch non sarebbero arrivati per una settimana, così potevano considerarsi in libera uscita fino a quel momento. Ma libera uscita provvisoria, eh! Che vi possiamo richiamare senza preavviso, se le cose cambiano. Perché le cose potrebbero cambiare. Sebastian aveva commentato a modo suo, cioè in modo non riferibile al pubblico, quell’ultima frase della capa, vagamente minacciosa e profetica, ma nessuno gli aveva dato la soddisfazione di rispondere e così il gioco era morto non compianto. Ma su un punto poteva avere ragione: la frase suggeriva qualcosa, forse una verità dietro le voci.

Fosse come fosse, lo avrebbero scoperto poi e nessuno aveva fretta. Meglio godersi il riposo finché c’era, che su un pianeta in costruzione come Madre i lavoracci non mancavano mai. Come quello da cui erano appena rientrati, quasi un mese a ingoiare sabbia in una specie di cantiere stradale che dal nulla correva verso il nulla. Adesso. Ma tornate tra una ventina di anni e vedrete che posto che sarà, eh! Perché lo sviluppo urbano non si è ancora girato da questa parte, ma intanto è bene sistemare le cose, lì, le basi, le fondamenta, e poi su queste fondamenta costruiremo, altroché se costruiremo.

Sebastian aveva suggerito una collocazione migliore per le fondamenta e il resto, ma per sua fortuna la responsabile non si trovava a portata di orecchio, al momento. Né si trovava a portata di orecchio adesso, mentre i tre coloni sedevano in un locale triste triste triste assieme al gruppetto lakshmita e fingevano con scarso successo di apprezzare la cucina del posto. O meglio, i lakshmiti (e Matteo, il lakshmita di adozione) fingevano di apprezzare la cucina del posto: i coloni avevano ormai smesso di fingere e si erano rassegnati nel male o nel peggio a una vita che non avrebbe previsto cibi buoni o anche solo decenti per almeno altri vent’anni circa. «E questo secondo i tizi che si occupano dello sviluppo, per cui probabilmente sarà almeno un secolo nella realtà,» spiegò Selina. «È la dura vita dei coloni, sapete. O magari non sapete, sono passati più di due secoli da quando il vostro pianeta si trovava in fase di colonizzazione. Fase di pionieri, anzi.»

«Due secoli abbondanti e comunque non è stata così,» rispose Indira. «A quanto pare avete deciso di ripartire da zero; da noi su Lakshmi, invece, abbiamo preferito partire con la società prefabbricata fornita da Svarga e poi da lì abbiamo costruito il resto. Tutti i mondi coloniali dopo Svarga hanno preso la scorciatoia. Per questo alcuni di noi considerano romantico e rustico l’ambiente di Madre.»

«Rustico sì, ma al momento non ricordo di avere utilizzato l’aggettivo “romantico”,» disse Sharma.

«Avete anche qualche trattamento per la memoria, qui da voi?» chiese Indira ai coloni. «A quanto ci risulta, il nostro compagno qui soffre di una grave forma di rimembranza selettiva degli aggettivi nel discorso.» Seguirono risa, quasi naturali e spontanee ma non troppo.

«Comunque avete trovato un sacco di roba nel vostro lavoro,» disse Matteo. «Prima un fossile nel cantiere stradale, poi la pietra nel cantiere del museo. Tutto voi? Sembra... forzato, ecco.»

«Non tutto noi,» rispose Tunde. «Potrebbe sembrarti così perché siamo noi a raccontarlo e quindi vi parliamo soprattutto di quello che è capitato a noi, ma anche altri gruppi hanno trovato cose. E poi la pietra è stata trovata da uno di noi solo accidentalmente, perché in quel periodo era stata affidata a noi la zona in cui era sepolta. Puoi considerarla fortuna, se vuoi.»

«Un gruppo che lavorava a sud della città, più o meno a un centinaio di chilometri, ha trovato una sezione di rovine piuttosto ampia,» intervenne Selina. «Non mi ricordo il nome del responsabile o la responsabile, ma ne hanno parlato abbastanza, sia qui che altrove, credo. Poi quasi ogni gruppo che lavora all’aperto per più di una settimana o due, che lo voglia o meno, finisce spesso per scoprire un nuovo animale, di solito molto piccolo, o una nuova specie di insetti, di solito nociva in un qualche modo. Se foste al tavolo con gente di altri gruppi, sentireste storie molto diverse.»

«Non credo di averne mai sentito parlare, a casa,» disse Sharma, sforzandosi di mantenere la faccia più inespressiva che gli riuscisse, mentre deglutiva qualcosa su cui non voleva indagare, ma che era parte del menu. Parte non molto consenziente, a giudicare dall’aspetto che aveva avuto nel piatto.

«Magari non ne hai sentito parlare perché non studi né archeologia, né exologia e i notiziari non è che parlino molto delle nuove specie scoperte sui vari pianeti. Non i notiziari generalisti, almeno, o non resterebbe spazio per gli altri avvenimenti,» disse Indira. «Non ne avevo sentito parlare neppure io, se è per questo, come non avrò sentito parlare di molte altre cose che sono successe altrove. Non si può parlare di tutto, quindi si parla solo di ciò che può interessare al maggior numero possibile di persone allo stesso tempo. Se ti interessa il resto, te lo cerchi su canali specifici.» Il trio di Madre si scambiò uno sguardo e non commentò.

«Voi avete trovato la pietra,» disse Mei, sorprendendo tutti i presenti al tavolo, che si erano ormai dimenticati della sua esistenza e la consideravano una specie di cosa appoggiata su una sedia come decorazione. «È possibile vederla?»

Di nuovo i tre coloni si guardarono, scambiandosi stavolta espressioni e gesti di ignoranza. «Non so se si possa vedere, ma suppongo che la risposta sia no,» rispose infine Selina. «L’hanno requisita i militari subito dopo la scoperta, proprio come hanno requisito l’intero cantiere, e dove sia finita ora lo sapranno solo loro. E gli archeologi che la studiano, ovvio, ma non lo verranno certo a dire a noi manovali da strada. Se concluderemo davvero il museo, probabilmente poi la esporranno lì, ma per adesso non credo che sia accessibile al pubblico.»

«Quindi concluderete il museo?» chiese Sharma. «Mi sembra un peccato che sia rimasto così, quasi a metà. D’altro canto io non conosco il funzionamento della vostra struttura sociale o come il lavoro sia organizzato, per cui è possibile che esista una ragione non solo valida, ma anche ragionevole per avere interrotto ogni attività, lasciando la struttura alla mercé delle intemperie.»

Sebastian sbuffò. «La ragione valida è che sono arrivati i militari e hanno chiuso tutto. Quando trovi qualcosa, arrivano sempre i militari e chiudono tutto. È la maniera madriana, puoi dire. Lo abbiamo già spiegato, no? Tutte le nostre scoperte, due, si sono concluse così.»

«La scoperta di Davide non si è conclusa proprio così,» disse Tunde. «Anche se quella non contava forse come scoperta, ma come aggressione o incidente. Non mi pare che abbiano mandato militari a esplorare le fogne. Non che io sappia, almeno.»

Matteo si raddrizzò sulla sedia. «Quale incidente, scusa?»

«Non te ne avevamo ancora parlato? È che tuo fratello ha avuto tanti di quei problemi con gli insetti più o meno ovunque che dopo un po’ te li dimentichi, no?» Tunde si strinse nelle spalle. «È stato un po’ prima che partissimo per la vacanza, quella da cui tuo fratello non è mai tornato. Gli era toccato un lavoro in una sezione delle fogne cittadine, assieme a Luis, Luis Morago, magari te lo ricordi, lo hai visto ieri al nostro alloggio.» Glielo descrisse in breve. Matteo rispose col suo migliore sguardo di profonda e completa incomprensione, su cui si era già allenato innumerevoli volte.

«Beh, non mi pare sia una cosa molto importante, o almeno non molto diversa dal solito per Davide, ma se proprio ti interessa...» E Tunde gli raccontò l’incidente che Davide aveva avuto nelle fogne e il successivo, breve ricovero. Intervenne un paio di volte Selina ad aggiungere dettagli, mentre più frequenti e molto meno benvoluti furono Sebastian e le sue battute di cattivo gusto. «Alla fine non hanno mandato militari, ma mi pare che uno studioso sia andato a cercare esemplari di quel bruco,» concluse Tunde. «Non ne so molto, perché non mi interessava molto.»

«Steve,» disse Matteo, per una volta veloce nel collegare gli avvenimenti. «Hanno mandato lui nelle fogne, allora. E il tizio aggredito era proprio mio fratello. I casi della vita.»

«Stai delirando, adesso?» chiese Indira.

«No,» e fu il turno di Matteo a raccontare. Riferì del dialogo col suo conoscente (perché in pubblico non lo avrebbe mai definito amico, soprattutto se il pubblico includeva ben quattro esseri umani di sesso femminile, due dei quali lo avevano già visto e schifato di persona) e gli altri concordarono che sì, era proprio piccolo il mondo, che coincidenza, ma pensa te, è la vita. Poi tutto si perse nel silenzio quasi imbarazzato, ma non del tutto, di chi aspetta che il narratore spieghi la morale della storia. Che però non c’era. «Era solo così, per dire,» spiegò Matteo. «Per completare.»

Indira si schiarì la gola e cambiò argomento. «Dunque poi è guarito, vi siete presi una vacanza per andare in questa località di mare, che non ha un nome ma un soprannome, ci siete rimasti per un po’ di giorni e alla fine suo fratello è sparito assieme al vostro responsabile. Bene. O non bene. Credete che in questo posto potrebbe esserci qualche traccia di dove volessero andare? Immagino che li avrà già cercati qualcun altro, da quelle parti, ma non si sai mai, così il nostro amico qui si mette il cuore in pace e magari si decide anche a fare qualcosa, sapete.»

Sebastian sorrise. «Luoghi turistici da visitare? A Bidonia? Direi proprio di no, se non hai feticci o perversioni molto, ma molto particolari. Non c’è proprio niente, davvero. Le cose più interessanti o meno noiose che puoi trovare nei paraggi sono il triangolo dell’ascensore vecchio, con gli scavi e la base militare, ma non è decisamente aperto al pubblico ed è vicino solo per modo di dire. Ci metti ore ad arrivarci e non so neppure se ci sia una strada. Solo uno stupido ci andrebbe.»

Indira sorrise a propria volta e si sporse in avanti sul tavolo, appoggiata ai gomiti. «Ragazzi, forse ve lo siete dimenticati, ma ricordate che il vostro Davide è sempre suo fratello.» E puntò il pollice verso Matteo. «Non so come fosse lui di persona, ma la genetica è una cosa terribile, davvero.»

Matteo grugnì. «Grazie come al solito per i complimenti, eh? Non ti devi sforzare, guarda.»

«Non era un complimento. Era un dato di fatto. Considerate le fantastiche imprese che hai compiuto su Lakshmi, da tuo fratello non mi aspetto un comportamento molto più saggio. Anche lui non ha di preciso i precedenti migliori, giusto? Buon sangue non mente, dicono.»

«Che cosa avrebbe combinato su Lakshmi?» chiese Tunde. Indira lo raccontò, rendendo accessibile a tutti la cronaca di Matteo il fesso e Kemala l’archeologa pazza, soffermandosi con un certo gusto sulle conseguenze lakshmite, che erano costate al diretto interessato l’etichetta di irresponsabile: da molti punti di vista, la peggiore delle colpe per chi viveva su Lakshmi. Seguì una fase di commenti e di battute ai danni del diretto interessato, che le apprezzò come una vespa nelle mutande.

Sopporta, sopporta e aspetta: presto o tardi verrà il tuo turno. Così si ripeteva in silenzio, dietro un sorriso quasi buddhico nel suo distacco dalle cose terrene, ma soprattutto dalle cose che avvenivano attorno alle sue orecchie. Che parlassero loro era bene, così lui aveva tempo e modo di pensare a ciò che, in mancanza di definizioni migliori, considerava “più importante”. Ancora non gli era del tutto chiaro cosa fosse questo “più importante” o in cosa sarebbe stato più importante, ma ci sarebbe poi arrivato, con calma. Un risultato a cui doveva arrivare, nel mentre, era decidere cosa fare in futuro, e deciderlo in un senso molto più concreto dell’astratto “cosa farò da grande” che Chakra gli aveva proposto prima del loro anno sabbatico.

Stava coltivando una mezza idea di andare davvero in quella misteriosa città di Bidonia e vedere da vicino l’ultimo luogo in cui Davide aveva vissuto. Potevano esserci indizi. Non indizi chiari al resto del gruppo, ma magari comprensibili a lui, in quanto fratello. Improbabile, d’accordo, ma anche una cosa improbabile era meglio di nessuna. Certo non sarebbe andato a bussare alla porta della base militare (ammesso che le basi militari avessero porte) e chiedere se avessero visto il fratello: non era così stupido, per quanto ne potesse dire Indira. Guardarsi un poco attorno, tuttavia...

Seduta accanto a lui, anche Mei aspettava e sopportava, senza speranze. Per un attimo, ma un attimo soltanto, la discussione al tavolo aveva toccato quello che avrebbe voluto sentire lei, per un attimo il ritrovamento della pietra era stato quasi l’argomento principale, c’erano state addirittura ipotesi sul posto in cui la pietra poteva essere conservata, ma quell’attimo era passato. I soliti noti si erano fatti sentire e avevano dirottato il discorso verso i soliti lidi, soliti e alquanto noiosi. Forse poteva tentare di riportare indietro il tempo, ritornare alla pietra, ma quante possibilità aveva? Nessuna, secondo il suo punto di vista. Meglio dunque sedere e pazientare, sperando che la marea cambiasse da sola.

E la marea stava cambiando, ma non in una direzione che i due tristi figuri apprezzavano. Passata la fase del tiro a segno su Matteo, Selina stava parlando raggiante ed entusiasta del magico museo che potevi trovare a Bidonia. Vi erano conservati esemplari veri o riprodotti di varie specie ittiche, o ciò che su Madre faceva spesso funzione di specie ittica. Sharma la ascoltava simulando con successo un cauto interesse, mentre Sebastian si esibiva in boccacce e imitazioni ogni volta che Selina non lo poteva vedere. Tunde e Indira sorridevano, convinta la prima, glassata la seconda. La vita scorreva a balzi e scossoni verso il nulla dell’abisso, ma almeno il supplizio del pasto si era concluso e poteva attendere fino a sera, prima che il rito si dovesse ripetere. Il locale era quasi vuoto.

Le giornate di Davide su Madre erano sempre così? Matteo se lo chiese, poi preferì abbandonare il pensiero e non sfiorarlo più. Si sentiva il muschio crescere sulle sopracciglia. Si girò verso Mei e vi trovò lo stesso rivo strozzato che gorgoglia e persino lo stesso incartocciarsi della foglia riarsa. Non era escluso che anche il cavallo stramazzato fosse nei paraggi, ma di certo non vedeva né nuvole né falchi alti levati. Sospirò, poi sospirò di nuovo, perché la prima volta gli era piaciuta.

Non era così che si era immaginato il viaggio su Madre. Non era sicuro neppure lui di cosa si fosse immaginato di preciso, ma senza dubbio non quella scena che, orrore e raccapriccio, pareva uscita da un pomeriggio piovoso al centro culturale terrestre di Varshi. Era tutto sbagliato e probabilmente anche tutto da rifare. E toccava a lui. Lo sapeva, lo sentiva, lo immaginava. Era il suo momento, un momento che avrebbe dato un senso alla sua presenza sul pianeta, che avrebbe cambiato la sua vita, capovolto il suo personaggio, lo avrebbe spinto verso evoluzioni rapide e definitive, che nel giro di poche ore lo avrebbero portato da un paramecio marino a un grande mammifero terrestre. Sì!

Peccato solo che non sapesse cosa fare, né come farlo. E comunque nessuno lo avrebbe ascoltato, e se anche lo avessero ascoltato, beh, allora nessuno gli avrebbe badato. Era così. Era sempre così, in saecula saecolurum e così sia, amen. Ma uno sturm und drang di ribellione tardogiovanile lo prese e Matteo si alzò. «Vado in bagno,» disse. Ma in realtà non andò in bagno. Non ne aveva bisogno.

Uscì. Il primo pomeriggio era sereno variabile, tinto da una luce dall’aria usata e scolorita, ma forse più calda del solito. O lo immaginava lui soltanto? Non aveva importanza. Era fuori. Era solo. Tutta la città si schiudeva davanti a lui, carica di promesse, carica di possibilità. Puzzava di cantina, ok, e non lontano c’erano due tizi ubriachi che litigavano in un dialetto nordamericano a lui ignoto, ma la sua ribellione non si sarebbe lasciata fermare da dettagli così insignificanti, così miseri, così terreni. La sua era una ribellione celeste, divina, e del cielo possedeva la forza, della divinità l’eterno. Era...

Passi. Qualcuno si fermò accanto a lui. Matteo si girò e fu sorpreso dal non sorprendersi che c’era Mei qualcosa, anche lei uscita dal locale. Un giorno forse ne avrebbe memorizzato il cognome, ma quel giorno non era ancora arrivato e Matteo scrollò le spalle. Mei qualcosa. Perché era uscita? Che cosa voleva? Difficile capirlo dalla sua faccia. Si sentiva sempre a disagio vicino a quella tizia: non parlava quasi mai, a parte con Indira, e non si capiva cosa pensasse. Poteva sempre chiederlo e così fece, in mancanza di idee migliori o anche solo di idee.

«Non mi interessava la discussione,» rispose Mei. «Volevo sapere della pietra, ma non ne parlano.»

Semplice, breve, diretto. Non troppo informativo, ma era il suo stile, per quanto ne sapeva Matteo. «Saranno ancora impegnati a ridere di me, suppongo. Oh beh, niente di nuovo, no? Ormai io ci sono abituato e non è che mi tocchi molto, sai,» mentì. Mei rimase a fissarlo in silenzio, come se tutto ciò non le interessasse. Il che probabilmente era vero, per quanto ne sapeva lui.

Ma era il suo momento, la sua ribellione e avrebbe fatto qualcosa, qualunque cosa, nonché una cosa qualunque. Il problema era decidere cosa, ma il problema poteva anche andare a problemarsi dove e come gli pareva e piaceva, perché Matteo aveva una idea. Sì! E l’avrebbe messa in atto. «Senti, ma perché ti interessa tanto la pietra, scusa? Magari lo hai anche già detto, ma, uhm, forse non ti stavo ascoltando,» disse, fissando la sua imprevista compagna con quella che riteneva una espressione di quieto e intelligente interesse, con venature di saggezza e una spruzzata di brio spiritoso. Di fatto la sua faccia suggeriva che si fosse appena liberato di una grande quantità di gas intestinali in maniera assai silenziosa e soddisfacente, ma non c’erano specchi attorno, per cui Matteo non lo sapeva.

Mei lo guardò come se fosse qualcosa portato a casa dal cane. «Perché, tu non la trovi interessante? È quasi uguale alla pietra di Agni e io non ho potuto vedere neanche quella di persone, per adesso.»

Matteo si sorprese a ripensare a Kemala la pazza, che per quanto ne sapeva lui adesso era davvero a studiare quella pietra, su Agni o dovunque fosse. Fu un pensiero di breve durata, perché portava con sé una serie di associazioni mentali non del tutto piacevoli e ricordi ancora più sgradevoli. Adesso si trovava di fronte un’altra tizia che, per motivi a lui ignoti e in gran parte incomprensibili, sembrava interessata a sassi d’annata. Il tutto mentre, in un locale squallido alle loro spalle, un gruppo di altre persone stava probabilmente ridendo ancora di lui. C’era da abbracciare un albero e lasciarsi morire.

Matteo non lo fece, sia perché non c’erano alberi nelle vicinanze, sia perché comunque abbracciare un albero e lasciarsi morire era un gesto alquanto sopravvalutato nonché stupido. E poi era giunto il momento della sua ribellione, era la sua ribellione, e lui avrebbe seguito la propria strada, sotto la bandiera che sventolava fiera e orgogliosa nel suo cuore e palle varie. E va bene, non sarebbe stata proprio la ribellione che auspicava lui (auspicare, verbo assai più nobile di sperare), ma da qualche parte bisognava pure cominciare, no? E lui cominciò.

«Lasciamo che chiacchierino, se si divertono così,» disse. «Andremo noi a cercare informazioni sul tuo sasso e su dove lo hanno messo.»

«La pietra, non il sasso,» lo corresse Mei.

«Sulla pietra, giusto. E per cominciare...» Lampo di ispirazione. «Per cominciare sentiremo Steve. È un exologo, non un archeologo, lo so, ma è sempre nel gruppo di ricercatori e studiosi, ci saprà dare qualche nome o qualche contatto, una pista da seguire. E poi avrei due o tre cose da chiedergli io.»

Mei lo fissò con l’entusiasmo di un tacchino nordamericano consapevole dell’arrivo imminente del giorno del ringraziamento. Una breve immagine di quel tizio coi capelli rossi e diversamente curati le attraversò la mente, ma lei la scacciò a colpi di bastone virtuale. «È proprio necessario?» chiese, mascherando quasi con completo successo il profondo disgusto che provava e facendolo suonare soltanto come vago fastidio viscerale.

«Beh, non è strettamente necessario,» ammise Matteo. «È che non conosco molta gente qui e penso che partire da un altro accademico potrebbe essere la strada più semplice. Hai proposte migliori?»

Risultò che sì, Mei aveva una proposta migliore. Dietro la sua personalità da fungo, almeno secondo il modesto parere di Matteo, doveva avere raccolto informazioni pure lei, sia prima di partire, alla maniera di Indira, sia dopo essere arrivata. Per motivi che Matteo poi non riusciva proprio a capire, ma che probabilmente avevano parecchio a che fare col carattere della ragazza, una carta da parati antropomorfa se mai lui ne aveva vista una (doveva avere poca dimestichezza con gli specchi e altre superfici riflettenti, il nostro eroe), Mei non aveva ancora deciso di usare quelle informazioni, né di parlarne con loro. Le stava usando adesso.

Cominciare la ricerca dal dipartimento di scienze naturali (perché quello era di fatto il campo in cui Steve operava) significava scegliere la strada più lunga e contorta. Esistevano vie più dirette e loro le avrebbero potute usare. E quali? Nel quartiere in cui era concentrata la maggior parte degli edifici per ricercatori, studiosi e altra fauna pensante, non lontano dalla specie di museo temporaneo in cui erano stati alcuni giorni prima e dove l’amico di Matteo lavorava, sorgeva anche un centro dedicato a ricerche archeologiche. Non la sede vera e propria, dove si svolgeva il grosso di ricerche e studi, ma un distaccamento cittadino o qualcosa di simile. Forse non li avrebbero ascoltati, forse neppure li avrebbero lasciati entrare, ma poteva essere un inizio.

Matteo la guardava perplesso. «Se sapevi già che c’era questo posto, perché non ne hai mai parlato? Ci potevamo passare, se proprio ti interessava tanto. Con tutto il tempo che abbiamo sprecato a fare niente in giro per questa città...»

«Interessava solo a me,» rispose Mei. «Non li volevo disturbare.»

Matteo si avvalse della facoltà di non rispondere, per diplomazia e quieto vivere. Valla a capire! Ma adesso non c’era niente di meglio da fare, lui doveva riaffermare la propria esistenza e tutto il valore che sentiva di possedere, voleva soprattutto prendersi una breve vacanza da ironie e sbeffeggiamenti e dunque... perché non andare? A quel centro dedicato alle ricerche archeologiche. Vero, non gliene poteva fregare di meno, ma sarebbe stata una decisione sua, spontanea, gesto di autoaffermazione o qualcosa del genere. E poi, chissà, magari poteva anche ricavarne qualcosa di utile.

«Va bene, andiamo!» disse. E andarono, alla ricerca di informazioni sulla pietra o, in mancanza di alternative, di autoaffermazioni e papparapà. Dietro di loro, nel locale, il resto della comitiva ancora sedeva e chiacchierava, ridendo di tanto in tanto. Nessuno si era accorto che due erano spariti, tanto grande era stata la loro presenza in scena.