La galassia di Madre - 30
Oklahoma City non era una città allegra, né una città bella. Aveva anche un nome che Davide Kori continuava a trovare ridicolo, anche se poteva capire a grandi linee perché lo avessero scelto: con l’ascensore alle sue spalle e le navi del Teatro di Oklahoma che scaricavano periodicamente nuovi coloni, era quasi inevitabile che una città avrebbe portato su di sé qualche traccia della sua origine e della sua funzione principale. Era il primo insediamento civile, era rifornito dal Teatro, dipendenti del Teatro si vedevano ovunque, Teatro qui, Teatro là, Teatro su, teatro giù: con tutta l’originalità che caratterizza da sempre gli esseri umani, era inevitabile che la prima città avesse dovuto subire un nome che includeva il Teatro in una qualche salsa.
Ma cosa aveva di tanto particolare l’Oklahoma? Davide non ne aveva idea, ma in fondo non era poi molto interessato. Era un nome e un nome valeva l’altro. Nome brutto, ok, nome poco originale, ma non si sentiva la persona più indicata a esprimere giudizi sulla qualità delle scelte onomastiche altrui, non con quella kappa ridicola che il padre gli aveva tanto gentilmente rifilato nel cognome, prima di sparire. Bel regalo di addio, grazie.
Bruttezza a parte, Oklahoma City era una città viva, brulicante. Anche un cadavere ai bordi della strada lo è, con tutte quelle formiche che entrano ed escono, come aveva gradevolmente fatto notare Sebastian Hahn poco dopo l’arrivo, ma la città in cui si trovavano non era un cadavere. Aveva la gradevolezza estetica di uno scarafaggio spiaccicato, era maleodorante, era spartana, era la brutta copia di un tema appena abbozzato, ma era anche e soprattutto viva.
C’erano case, più basse rispetto a quelle terrestri, ma soprattutto più brutte. Davide aveva trovato quasi impossibile credere che si potessero costruire case più brutte di quella in cui aveva vissuto sulla Terra, ma gli occhi gli dimostravano che sì, era possibile, e chi era lui per dubitare di loro? Se dubiti dei tuoi organi di senso, ti resta ben poco per interagire con la realtà che ti circonda.
Pochi edifici superavano i sei piani, nonostante una gravità un poco inferiore a quella terrestre, che avrebbe dovuto suggerire costruzioni più alte e slanciate. Non lo erano. Se c’erano abbellimenti o decorazioni, non andavano oltre uno striminzito vaso di fiori, o quantomeno roba vegetale, su un balcone o un davanzale, o qualche tenda bianca e anonima alle finestre. I giardini, ammesso e non concesso che si potesse parlare di giardini, erano solo riquadri di verde più o meno smorto attorno a un palazzo, a volte recintati da un qualche tipo di barriera.
Poteva ricordare una città dormitorio da rivoluzione industriale o giù di lì, se osservata da un certo punto di vista e da persone con una minima cultura in materia. Siccome nessuno nel gruppo di Davide possedeva una minima cultura in materia, la trovarono soltanto brutta e triste, un luogo in cui vai a dormire, non a vivere. Sembrava anche finta, con tutti quegli edifici allineati con cura, con una precisione da scacchiera: edifici uguali, fatti in serie, con identiche porte, identiche finestre, identico colore, identico tutto. Una città progettata e costruita, non una città nata e cresciuta: ecco il volto di Oklahoma City, capitale provvisoria di Madre. A Davide non piacque.
Le strade erano disegnate con righello e filo a piombo, a occhio, e gli isolati non erano mai sembrati così isolati, spezzettati com’erano in una griglia impeccabile. Ed erano strane, le strade, sotto ai tuoi piedi. Non era asfalto, non era cemento, non era nulla che Davide o i suoi nuovi amici conoscessero o avessero mai visto. Un materiale elastico, poroso, che sulla Terra nessuno avrebbe usato per la pavimentazione, per il semplice motivo che nessuno lo conosceva, non quando le città terrestri erano nate. Lo conoscevano su Madre, invece, e molto bene: era il materiale di cui erano fabbricati i pavimenti delle rovine aliene dissotterrate, o almeno un derivato quasi identico. Non che fosse poi rimasto molto, in fatto di pavimenti, ma i frammenti erano stati realizzati con quel materiale.
Secondo chi lo aveva studiato e analizzato, era un composto che mischiava l’argilla locale a una specie di resina, presumibilmente estratta da vegetali che dovevano essersi estinti, nel frattempo, così come estinti dovevano essere anche i vegetali da cui gli antichi costruttori aveva ricavato un altro tipo di sostanza gommosa, che faceva sempre parte della miscela. I tentativi di riprodurre il composto in laboratorio, sulla base degli elementi chimici che lo componevano, avevano portato al materiale usato per le le strade di Oklahoma City: non soddisfacente, ma il meglio che si potesse, al momento. Il futuro e nuovi reperti, forse, avrebbero cambiato le cose.
«Se volete i dettagli, andateli a chiedere a uno dei loro scienziati,» aveva spiegato Tomas Sironi, il responsabile del loro gruppo di coloni, la sera del primo giorno. «Non sarà come camminare per le strade di casa vostra, ma vi abituerete. Dopo un po’, vi assicuro che per i piedi è molto meglio. È un materiale che assorbe meglio l’impatto al suolo, o distribuisce meglio la forza, o qualche altra cosa del genere, non so. Quelle robe che dicono sempre gli scienziati, sapete, per complicare le cose. Ma funziona, ve lo posso assicurare anch’io. E se non ci credete, uscite pure a verificare. E che vi venga il caghetto!»
Che vi venga il caghetto! Davide ancora faticava a crederlo, figurarsi poi prenderlo sul serio, ma in apparenza era la sua esclamazione preferita, la preferita di quel Tomas Sironi, il tizio che si erano ritrovati come loro responsabile, all’arrivo sul pianeta. Un uomo sulla quarantina abbondante, che apparteneva alla prima ondata di coloni e viveva su Madre ormai da diciassette anni locali. Altezza media, pancia più che media, aveva quel tipo di fisico che ci si aspetta da un capocantiere vecchio stile, con braccia forti e pelle abbrustolita dal sole, una spruzzata di barba ispida, capelli corti e stropicciati, severo e un poco volgare, ma anche pronto agli scherzi. E poco amico col deodorante.
«Lavoravo in un cantiere,» aveva detto, nella sua presentazione, «ma poi ci ho lasciato tre dita di un piede e adesso mi hanno trasferito qui. Vi farò da balia, finché non sarete capaci di arrangiarvi da soli.» Aveva guardato i cinquanta neo-coloni che aveva davanti, quasi tutti giovani e quasi tutti con la faccia sperduta, e si era aggiustato la cintura, masticando. «Meglio se fate in fretta, eh,» aveva aggiunto, con una smorfia.
A Davide non aveva fatto una buona impressione e Tunde lo aveva accolto anche peggio, ma alla fine si stava dimostrando una brava persona, competente e seria. Li aveva suddivisi in sottogruppi, a ogni sottogruppo aveva assegnato un alloggio, senza stanze singole, e indicato un responsabile, che avrebbe fatto da portavoce per loro. Dal mattino seguente era cominciato l’addestramento vero e proprio, o quantomeno ciò che passava per addestramento, da quelle parti: spiegazioni pratiche su come si viveva su Madre, prove sul campo di ciò che avrebbero dovuto fare in seguito, adattamento ai cibi di Madre e alla lieve differenza di gravità, eccetera.
«I primi giorni vi cagherete l’anima,» li aveva avvertiti Tomas, «ma poi vi abituerete. Non sono tossici e non fanno male, anzi sono molto nutrienti. Il problema è che l’intestino ci mette un po’ a capirlo. Non sono molto sveglie, le budella. Tempo una settimana e sarete a posto. E se ancora non lo sarete, che vi venga il caghetto! Haha!»
Aveva avuto ragione, anche se la fase di adattamento non era stata particolarmente piacevole e ogni giorno c’era la fila davanti al bagno. Budella a parte, Davide Kori era stato fortunato: tra le dieci persone del suo gruppo c’erano i compagni con cui aveva fatto amicizia durante il viaggio e il loro responsabile, scelto per la stazza più che per le effettive capacità gestionali, era proprio Olaf Selke. Sorrideva beato, adesso, con lo sguardo un poco perplesso di chi non sa bene cosa sia successo, ma è contento che sia successo. «Vi farò rigare diritto, io!» li aveva minacciati, agitando la sua salsiccia di dito, poi avevano riso tutti assieme. A parte chi era in bagno.
Per le prove pratiche, Tomas Sironi li aveva spediti spesso a lavorare a un magazzino in periferia, che aveva bisogno di essere allargato. Alcuni si erano occupati di spostare e sistemare gli scatoloni che conteneva, altri avevano collaborato alla costruzione vera e propria delle pareti, altri ancora si muovevano da una parte all’altra, portando materiali e allontanandosi poi con gli scarti. Un lavoro faticoso, ma abbastanza semplice. Davide non si poteva lamentare, però si lamentava lo stesso.
Perché dovevano essere gli umani a fare quel genere di lavori? Non avevano prodotto apposta delle macchine, per occuparsi delle attività peggiori e più faticose? Ma in apparenza funzionava così, su Madre: macchinari a sufficienza non ne avevano ancora, e quelli che avevano valevano parecchio. Di manodopera umana poco qualificata, invece, ne trovavi ovunque e costava poco. Il risultato era ovvio, sebbene non particolarmente gradevole per la manodopera umana.
«Chiederò a Tomas di mandarti a svuotare una fogna, se continui» gli disse Olaf, mentre di prima mattina stavano raggiungendo il magazzino.
«Quelli come me le riempiono, le fogne, non le svuotano,» gli rispose Davide, con un sorriso da duro. «Cerca di non confonderti. Tocca a voi svuotarle.»
Olaf gli fracassò un paio di vertebre con una pacca sulla schiena e scoppiò a ridere. Quando Davide fu di nuovo in grado di respirare, guardò la strada che stavano percorrendo, dal finestrino del loro veicolo. Dritta, tranquilla, poco trafficata: una strada come mille altre, in quella città. I marciapiedi però erano affollati, gente che camminava avanti e indietro, a un orario in cui sulla Terra trovi solo gli avanzi della notte precedente. Non hanno molto da fare, qui, pensò, e sbagliava. Avevano molto da fare, per questo erano già tutti fuori, invece di poltrire a letto o aspettare il caffè caldo. Perché le comodità a cui si erano abituati, sulla Terra, qui non sarebbero arrivate ancora per diversi anni. E il divertimento notturno? Ripassa tra qualche decennio e ne riparleremo. Adesso c’era spazio solo per il lavoro e la gente che lavorava: gli altri, gli extra, non erano graditi.
E forse era proprio per questo che la città sembrava così viva. Trasmetteva energia, attività, da ogni angolo e ogni via. La sentivi nel movimento della folla, nei volti concentrati e stanchi, nelle voci che si chiamavano da un lato all’altro della strada, nel tono con cui ti parlavano nei negozi, o anche al magazzino, sul lavoro. Voci di gente che ha qualcosa da fare e sa come farlo, voci forse non belle, non eleganti né raffinate, ma voci sicure. E i volti, volti che credono che A sia A e B sia B e non si perdono dietro i forse e i dipende. Volti che erano l’opposto di quello di suo fratello.
Solo una volta pensò a lui, a Matteo, al disperso fuggito su Lakshmi un anno e mezzo fa, o forse due esistenze fa. Pensò a lui mentre si esercitava con poca passione e zero entusiasmo nel gesto antico, e forse immortale, di chi stende la calce, appoggia un mattone e lo fissa, in linea con gli altri, per poi stendere nuova calce, poggiare un nuovo mattone e così via, finché c’è spazio da riempire e braccia con cui farlo. Un gesto che sulla Terra avevano dimenticato, ormai, ma che lì, su Madre, era l’essenza del futuro. In fase di addestramento, almeno: il resto lo avrebbe scoperto poi.
Faceva caldo, quel giorno, un caldo che si percepiva molto più intenso lì, nella fascia tropicale, di quanto lo si sarebbe percepito in ogni altro angolo del pianeta. L’estate era finita ed era arrivato già l’autunno, ma il caldo non passava ancora. Davide sopportava, come sempre lo aveva sopportato. E lì, tra un mattone e l’altro, anche l’immagine di Matteo trovò un posto, il volto che un tempo aveva seguito come modello, lui, ma che adesso aveva perso per strada. O per lo spazio.
Cosa starà combinando, quell’idiota?, si chiese Davide. Studierà ancora o avrà mollato? Avrà saputo qualcosa degli attentati? E io sarò già un ricercato, sulla Terra? Saranno andati anche da lui, a chiedergli di me? Domande che gli ronzavano da tempo nella testa, almeno in parte, ma che soltanto quel giorno trovarono la forma di un pensiero articolato, fatto di parole e non di vaghe sensazioni.
Sì, lui era di certo un ricercato, sulla Terra. Se avevano preso gli altri, doveva essere uscito anche il suo nome, no? Era ovvio. Era inevitabile. Per questo adesso si nascondeva dietro l’altro nome, il secondo, quello di Bruno Kitzis. E se il suo nome era uscito, era almeno possibile che avessero interrogato anche Matteo, unico membro rimasto della famiglia, almeno per sapere se avesse notizie su di lui, suo fratello. E Matteo cosa avrebbe detto?
Niente, cosa vuoi che dica? Non gliene frega più niente di noi e della Terra. Già, giusto. Non si era fatto sentire neppure per la morte della madre, neanche uno straccio di messaggio di condoglianze. Come aveva detto Zeke, chi va sui mondi degli Altri diventa come gli Altri: cambia, lo cambiano, lo trasformano in uno di loro. Lo assimilano, ecco come aveva detto, ecco il verbo giusto. E Matteo? Ormai assimilato, era ovvio. Ma in fondo non si sarebbero più visti. Avevano scelto strade differenti e le avrebbero percorse per conto proprio, su mondi differenti. Il resto non aveva importanza.
«Ehi, ci sei o ti sei addormentato?»
Sebastian Hahn lo fissava, cazzuola in una mano e mattone nell’altra. Col berretto che gli avevano fatto indossare, la sua faccia era più strana che mai. Più buffa che mai, a essere precisi. Guardarlo e prenderlo sul serio era una impresa.
«Ci sono, stavo pensando,» rispose Davide.
«Pensa meno e rendi di più, Bruno. Sei il più giovane qui in mezzo e devi dare il buon esempio, no? Lavora, lavora, che ti fa bene alla salute!» Sebastian rise, sistemando un altro mattone.
Vero: era il più giovane, lì, e anche se ormai si stava abituando a essere chiamato Bruno, non si era ancora abituato a essere il più piccolo. Non che contasse molto, in fondo: non c’era anzianità, lì in mezzo, e si era tutti coloni uguali. Per adesso. Magari un giorno sarebbe cambiata, sicuramente un giorno sarebbe cambiata, ma quel giorno era piuttosto lontano e nessuno aveva fretta di vederlo.
Con un sospiro, anche Davide posò un nuovo mattone. Da un certo punto di vista, e con una buona dose di fantasia, stava costruendo il proprio futuro.
«Spero che siate pronti,» disse quella sera Tomas Sironi, «perché tra poco il vostro addestramento sarà finito e comincerete a fare sul serio. I capi del Teatro mi hanno spedito i dettagli con le zone a cui sarete assegnati, quelle che hanno più bisogno di gente, e mi dispiace dirvi che nessuna si trova in città. Dovrete fare i bagagli e viaggiare, ma non sarà un problema, credetemi. Ne approfitterete per vedere il mondo, così avrete qualcosa in più da raccontare ai nipoti, se e quando ne avrete, ma soprattutto se saranno vostri.»
«Saranno molto lontani da qui?» chiese una ragazza coi capelli scuri e la faccia abbronzata. Era la compagna di stanza di Tunde, se Davide ricordava bene, oppure un’amica della compagna di stanza, o qualcosa del genere. Non le aveva mai parlato, ma la vedeva spesso attorno a loro.
Tomas alzò le spalle. «Alcuni sì, altri no, ma ricordati che il concetto di “molto distante” non è lo stesso che c’era sulla Terra, qui. Molto distante sarà cento, forse duecento chilometri, ma non di più. È un mondo grande, più grande della Terra, ma è un mondo vuoto. Non vi spediremo dall’altra parte del pianeta, tranquilli, anche perché dall’altra parte del pianeta non c’è un bel niente.»
«Per adesso,» commentò un uomo di oltre trent’anni, con un principio di pelata sulla testa, che il sole aveva già provveduto a tingere di rosso mattone. Se non era il più vecchio dell’ultima infornata di coloni, era di certo nel consiglio degli anziani.
«Per adesso, per dopo, per quel che ne hai voglia. Abitiamo su uno sputo di terra e più di tanto non ti puoi allontanare, se non vuoi andare a zappare il deserto e a bere piscio di mare. Fuori dall’area della nostra colonia ci sono solo alcune basi militari, ma lì col culo che vi fanno entrare, e qualche posto dove vanno gli archeologi, quelli là. Qualche scavo, come li chiamano loro. Tutto qui. Oh, sì, certo, un giorno ci saranno città ovunque, piscine, grattacieli, luna park, e anche il culo di vostra nonna in vetrina, se vi piace, ma adesso non è un giorno e quindi chissenefrega. Adesso non c’è niente e voi non ci andrete. Resterete dove c’è qualcosa.»
«Come ci dividerete?» chiese un ragazzo ricoperto di brufoli.
«Come siete adesso,» rispose Tomas Sironi. «Ogni gruppo avrà una destinazione. Il Teatro mi ha fatto avere la lista e io l’ho corretta, così ognuno di voi si troverà il posto più adatto a lui. O a lei. E se non vi andrà bene, avrete il diritto di piangere e lagnarvi tra voi. Se vi lagnerete con me, io avrò il diritto di raddrizzarvi la mascella. E se vi lagnerete ancora, che vi venga il caghetto. Chiaro?»
Abbastanza chiaro, si disse Davide. Sperava che lo mandassero da qualche parte vicino ai pozzi, ma sapeva già che sarebbe stato impossibile. Da quando erano lì, aveva chiesto e ascoltato in giro, ma nessuno parlava dei pozzi, nessuno li aveva visti e nessuno ne sapeva qualcosa. Pareva proprio che non esistessero più, ma erano balle. I pozzi c’erano, c’erano vent’anni prima, quando suo padre era venuto lì, secondo la storia di Zeke, e ci sarebbero stati tra altri vent’anni. Mica li puoi far sparire da un giorno all’altro, pozzi profondi mille chilometri! Giusto? Ma li puoi coprire, o mimetizzare, e sì, doveva essere andata così. Qualunque cosa significasse quel “così”.
Le basi militari. Mi ci gioco quello che vuoi. Li hanno nascosti sotto le basi militari. Già, ovvio, se i militari li presidiavano fin dai tempi della seconda spedizione. Non aveva idea di come lo avessero fatto, ma era sicuro che i militari li avessero ricoperti, magari con un megatelo, un tappo, o qualche altra roba, e poi ci avessero costruito le basi in mezzo, con un bel recinto di filo spinato, vecchio stile, a chiudere la zona intera. Sistemati tutti i curiosi e tanti saluti. È per il vostro bene.
Ma io ci arriverò, pensò. Ci arriverò e guarderò cosa ci sia lì sotto. Zeke mi ha detto che mio padre ci è stato e deve essergli successo qualcosa. Magari lo hanno fatto sparire i militari, perché aveva visto o sentito troppo. Possibile. Succede spesso, nelle storie. E quindi...
E quindi? E quindi non aveva ancora deciso cosa fare, dopo, ma sapeva di dover raggiungere i pozzi e dare una occhiata. Poi lo avrebbe saputo, poi avrebbe avuto le sue risposte. Qualcuna, almeno. Un indizio, ecco. Ma se anche non avesse ottenuto nulla, avrebbe almeno visto e toccato un luogo dove suo padre era stato. Suo padre, quell’uomo che lui non aveva mai conosciuto.
La riunione proseguiva, intanto, e Tomas Sironi spiegava cosa ci si aspettasse da loro. «Non pensate alle colonie, o ai mondi da costruire. È il modo giusto per sbagliare e combinare disastri, fidatevi: ve lo dice uno che la sua parte di disastri l’ha già combinata ed era molto peggio, qui, quando sono arrivato io. Avrete un compito e sarà bene che pensiate solo a quello. Fate una cosa alla volta, la cosa che avete sotto il naso, e non guardate per aria. Il resto verrà da solo.»
«Sarà come sulla Terra, allora,» disse una voce maschile, delusa.
«Se pensi che sarà come sulla Terra, allora non hai capito un cazzo, credimi,» gli rispose Tomas. «A casa, sulla Terra, avevi un intero mondo attorno a te, già pronto per servirti, fatto su misura per tutti i tuoi bisogno. Se sulla Terra hai un incidente, qualcuno chiama l’ambulanza, i vigili del fuoco, l’esercito, quel che ti pare, e in un modo o nell’altro ti rimettono assieme e puliscono la tua merda. Qui no. Qui non hai niente intorno a te e quello che ti serve te lo devi costruire. E se non ci riesci, fai senza. Chiaro? Vedremo quando sarai là fuori da solo, a spalare merda, se penserai ancora che sia come la Terra. Se ti allontani troppo, qui non finisci in casa di qualcun altro, o in una città vicina. Se ti allontani troppo, non c’è niente, qui.»
«E noi siamo quelli che dovremo metterci qualcosa, giusto?» chiese una ragazza.
Tomas Sironi sorrise. «Questo è esattamente il tipo di idea che non vi dovete fare. Voi siete qui per fare un lavoro, un lavoro piccolo piccolo. Ognuno di voi è qui per fare un lavoro piccolo piccolo. Se però mettete insieme tanti lavori piccoli piccoli, allora otterrete un lavoro grande. Capito? Ma prima ci sono i lavori piccoli piccoli. Se fate male quelli, niente lavoro grande. Se penserete al lavoro grande, farete male il lavoro piccolo piccolo. Chiaro?» Gli rispose il silenzio dei loro sguardi.
«Se dovete tirare una linea dritta,» continuò, «pensate a tirare la linea dritta. Non pensate che quella linea sarà parte di una strada più grande, e che quella strada collegherà due città, e che quelle città formeranno una regione, e che quella regione sarà parte del territorio coloniale della Terra. Non vi servirà a niente, perderete solo di vista l’importante. E l’importante è tirare una linea dritta.»
Stavolta annuirono, con una vaga convinzione. Tomas pensò che poteva bastare, almeno per adesso. Il resto lo avrebbero scoperto sul campo e comunque non glielo avrebbe mai potuto insegnare lui. Il resto lo dovevano imparare sbattendoci il naso: lui poteva solo dare istruzioni e prepararli ai lividi. E magari spiegare dove avrebbero potuto trovare un kit di pronto soccorso. Ce l’avrebbero fatta ad adattarsi al nuovo mondo? Alcuni ce la facevano bene, molti ce la facevano e basta, alcuni non ce la facevano proprio. Avrebbe deciso il tempo, per tutti.
Davide, meglio noto come Bruno Kitzis, la sua decisione l’aveva invece già presa. I pozzi. Doveva trovare i pozzi. Qualunque incarico gli avessero affidato lì, rimaneva per lui un incarico secondario: il primo e più importante glielo aveva dato Zeke Boodie, sulla Terra. Nei pozzi di Madre è nascosto qualcosa; cerca di scoprire cosa sia, se riesci. Così gli aveva detto Zeke, poco dopo la morte della mamma. Gli aveva detto anche un’altra cosa, in effetti, e cioè che il segreto dei pozzi doveva venire al secondo posto: la cosa più importante era diffondere anche su Madre il messaggio Isolazionista.
Davide avrebbe cambiato le priorità. Il messaggio Isolazionista era importante, bello, giusto, quello che ti pare, ma a lui non interessava. A lui interessavano i pozzi, perché proprio attorno ai pozzi suo padre aveva lavorato. Era l’unico legame che avesse con lui. Quindi, prima Davide avrebbe cercato di scoprire il loro segreto e poi, in seguito, avrebbe anche pensato a diffondere il messaggio e palle varie. Non c’era fretta e poi, a dire il vero, adesso che era ad anni luce da casa, anche la presa che le riunioni avevano esercitato su di lui sembrava diminuire. Importanti, sì, ma non fondamentali.
E poi, diciamolo pure, non sembrava proprio che il grande progetto di Zeke avesse dato poi chissà quali fantasmagorici risultati. Potevano esserci state le esplosioni che avevano programmato, ok, e potevano anche aver portato qualche cambiamento, ma in tutta Oklahoma City non si sentiva una sola voce su problemi di governo, men che meno su attentati. Tutto procedeva normale, tranquillo, e non si era visto un solo militare, lontano dall’ascensore. Quindi, non era urgente il programma degli Isolazionisti, ammesso che esistessero ancora sia il programma che gli Isolazionisti stessi. Poteva dunque procedere come gli pareva, lì su Madre. E pensare ai pozzi.
Poi un brontolio di pancia lo strappò ai suoi progetti, ai fumosi piani di battaglia che preparava nella sua mente, e lo spinse verso il bagno, con le mani premute sul ventre e una urgenza frenata nei suoi movimenti: scena molto comune, tra i neocoloni, e scena a cui lui stesso aveva già assistito più volte, nel corso della riunione di quella sera. Quanto ci avrebbe messo ancora ad adattarsi a quel maledetto cibo? Per i minuti successivi, pozzi, rivoluzioni e Isolazionisti furono molto lontani dalla sua mente e dalle sue attività.
«Il bisogno chiama, eh?» gli disse Sebastian, quando fu tornato in sala, per una riunione che ormai era ai titoli di coda e si trascinava stanca, per dovere di forma.
Davide arrossì e non rispose. Quel maledetto! Non aveva mai avuto problemi di digestione: doveva avere uno stomaco di ferro, oppure essere un mezzosangue figlio di uno struzzo. Anche se a volte si comportava come qualcosa che differiva da uno struzzo per due lettere. Rise anche Tunde e questo a Davide piacque ancora meno. Pazienza. La colonia e i coloni erano solo una maschera, un gioco per tenersi impegnato: non ci si doveva attaccare troppo. Il suo vero compito era un altro.
Peccato che non fosse così facile convincere se stesso. Perché la vita del colono gli piaceva, almeno in termini generali e a grandi linee. L’idea del colono, più ancora che la vita vera e propria, ma in fondo potevano essere considerate la stessa cosa, no? Aveva fantasticato su come potesse essere, quando ancora viveva sulla Terra, e adesso che la stava sperimentando gli piaceva. Collaborare alla costruzione di un nuovo mondo: anche se Tomas Sironi li aveva appena esortati a non pensare in quei termini, Davide la pensava proprio in quei termini. E gli piaceva.
Ok, posso giocarci per un po’, ma niente progetti a lungo termine, si disse. Era un compromesso che sentiva di poter accettare. In fondo, c’era tempo prima che una occasione per cercare i pozzi gli si potesse presentare, e dunque perché non usare quel tempo, giocando al colono? Serviva anche a rafforzare la sua copertura. Ruminando altre giustificazioni analoghe, Davide Kori si preparò per la nottata, una delle ultime che avrebbe speso lì, a Oklahoma City, centro della colona di Madre.
Kemala Kexin sedeva su un letto che era poco più di una panca, coperta da un paio di lenzuoli. La suite personale, di extralusso, che avevano preparato appositamente per lei, per meglio consentirle di apprezzare quel soggiorno invidiabile su un nuovo pianeta, appena aperto alla colonizzazione umana. Una suite così unica e lussuosa, da possedere anche una elegante parete di sbarre metalliche, per garantire un continuo e impeccabile ricambio di aria, e addirittura un favoloso bagno privato, così ampio e spazioso da poter quasi allargare le braccia.
«Poteva andarmi peggio,» disse al vuoto. «Almeno il bagno è una specie di sgabuzzino autonomo, e dietro a una parete sottile. Poteva anche essere una tazza in bella vista, in un angolo della cella.»
Vero. Le garantiva un minimo di decenza, anche se la decenza era merce rara, in prigione. Quando ti hanno rinchiusa in una stanza con poco spazio e molte sbarre, concetti come dignità e decenza, o anche pudore, rispetto e igiene assumono un volto assai differente dal normale, come Kemala stava scoprendo a proprie spese e con entusiasmo zero. Doveva mangiare in pubblico, doveva dormire in pubblico e svolgere qualsiasi altra attività in pubblico, a parte quelle due o tre per cui era richiesto il suo cubicolo di bagno. Che il pubblico fosse, al momento, limitato alle sole guardie, era un dato interessante, ma secondario. Comunque la volessi mettere, era la vita del pesce rosso, e in modo molto diverso da come era organizzata su Lakshmi. Quanto alle prospettive per il futuro...
Ma non si sarebbe arresa. Volevano farla parlare e lei aveva parlato, in abbondanza, fino a che non avevano perso la voglia di ascoltarla. Aveva spiegato il come e il perché, aveva spiegato il dove e il quando, aveva spiegato di Choi Jaewon e quelli a cui si sarebbe rivolta, secondo i piani, ossia la Società Interplanetaria di Archeologia. Aveva parlato e spiegato a lungo, perché non aveva niente da nascondere e voleva giocare pulito, ma anche perché riteneva molto più intelligente parlare con le buone, piuttosto che aspettare le cattive. Poteva sopportare la prigione, ma voleva evitare il più possibile le torture. Su un pianeta barbarico come quello, gestito da gente tanto barbarica da non rispettare neppure le minime norme igieniche per le prigioni, la tortura le sembrava sempre dietro l’angolo, come nelle storie immaginarie che piacevano tanto ai lakshmiti. E la tortura poteva essere molto, molto sgradevole. Soprattutto per lei.
Ciò che non aveva fatto, però, era lasciarsi demoralizzare dal modo in cui tutti l’avevano guardata. Come se fosse una deficiente, una povera pazza che non sapeva neppure da che parte fosse girata in quel momento. Aveva spiegato a fondo le proprie ragioni e i motivi per cui le riteneva solide e quasi inattaccabili, ma quelli avevano continuato a fissarla, zitti. Avevano continuato a compatirla. Parla, parla, le dicevano quegli sguardi, tanto lo abbiamo già capito che persona sei. E adesso ci tocca perdere tempo con una povera scema, che alla sua età si comporta ancora da bambina dell’asilo.
Kemala non aveva digerito quelle facce. Non le aveva digerite, perché le facevano venire dubbi. Mi sono davvero comportata da scema? E da qualche parte, a un livello che non era ancora coscienza ma si stava avvicinando, si stava formando il vago sospetto che sì, il suo piano fosse stato davvero stupido, come le aveva tacitamente suggerito Matteo, più di una volta. Ma le facce non erano la sola cosa che non avesse digerito e che continuava a non digerire.
Se il luogo era il problema numero uno, il cibo era il problema numero due. Poteva ringraziare di avere un bagno, e un bagno con una parvenza di privacy, perché la robaccia che le avevano fatto mangiare in quei giorni, cibo che lei non avrebbe rifilato neppure a un pishacha, l’aveva costretta a trascorrere gran parte delle proprie giornate seduta a meditare, come avrebbe detto sua madre in altri tempi. Faceva schifo. Anzi, faceva superschifo. Faceva superschifo e sembrava indigeribile, o almeno lo sembrava al suo intestino. A confronto, la porcheria che aveva mangiato durante il suo soggiorno sulla Terra era una prelibatezza. Poteva solo augurarsi che la pessima qualità del cibo fosse limitata alle prigioni, perché se davvero su Madre mangiavano tutti così...
«No, avranno cercato di avvelenarmi, o intossicarmi, o farmi ammalare,» si disse. «Sarà un modo per indebolirmi, o per punirmi, o anche per mettermi in castigo o quello che pensano loro. Va bene che è una topaia appena colonizzata, ma non possono mangiare tutti così. Non è umano.»
In fondo al corridoio, una guardia alzò la testa e la guardò male, prima di tornare a immergersi nello schermo che aveva di fronte. Kemala gli augurò un buon numero di malattie, con le quali avrebbe potuto trascorrere una serena e breve vita in ospedale. Parlava in lakshmita, quando parlava da sola, ed era abbastanza sicura che nessuno la capisse, non lì, però... sempre meglio essere prudenti. Forse doveva evitare di parlare ad alta voce, per non rafforzare la loro opinione che lei fosse una povera scema, anche se ascoltare la propria voce le sembrava il solo modo per non impazzire.
Non un modo molto efficace, pensò. Si spostò i capelli dalla fronte e li sentì duri e ruvidi sotto le dita. Era già passato parecchio dall’ultimo lavaggio e non contava di potersi fare una doccia entro breve, ma neanche entro lungo. Forse la prigione è anche questo, pensò, un modo per trasformarti in una bestia. E con lei ci stava riuscendo? Ma soprattutto, a cosa serviva tenerla chiusa lì?
Guardò la cella, la divisa gialla e scomoda che le avevano fatto indossare, in un tessuto che le stava irritando la pelle. Pensò ai suoi capelli, sporchi e sparati in ogni direzione. Pensò all’odore che si sentiva addosso e a quello molto più sgradevole che usciva dal bagno. Sì, ci stava riuscendo, dal di fuori. Ma non avrebbe mai ceduto dentro. Quello no. Avrebbe resistito e vinto, alla fine.
Se però avessero fatto in fretta, su Lakshmi, allora sarebbe stato ancora meglio. Sarebbe stato molto meglio. Non aveva tenuto il conto dei giorni, ma pensava che ormai la professoressa Choi dovesse aver contattato l’ambasciatore e che l’ambasciatore dovesse ormai avere avanzato una richiesta alla Terra. E la risposta? Potevano aver risposto che non c’era nessuna Kemala Kexin, su Madre? Sì, in effetti potevano e questo era uno sviluppo che non aveva considerato. Potevano negare tutto, tenerla lì sotto e farle quello che volevano. E nessuno su Lakshmi lo avrebbe mai saputo.
Per la prima volta si sentì vicina alle lacrime. Per la prima volta cominciò seriamente a pensare di essere una povera scema, come le facce dei soldati avevano suggerito fin dal momento dell’arresto. Aveva davvero sbagliato qualcosa di fondamentale, nei propri calcoli? Era davvero arrivata fino lì, su Madre, per finire rinchiusa in una cella, dove sicuramente le sarebbe successo qualcosa di molto, molto brutto? Sì, forse poteva avere qualche ragione per piangere.
Inghiottì le lacrime a fatica, quando i passi si avvicinarono lungo il corridoio. Che fosse una guarda o che fosse un altro di quei militari, venuto a interrogarla, Kemala non voleva che farsi vedere così, a piangere. Non avrebbe mai dato loro questa soddisfazione, la soddisfazione di vederla piegata e prossima alla resa, in una delle loro luride celle. Soprattutto, non avrebbe mai confermato di essere una povera scema, che aveva agito senza neppure prendersi la briga di pensare a cosa stesse facendo e seguire un qualche percorso logico. No, mai e poi mai.
Ma non era una guardia, né un soldato. Quando alzò la testa per guardare il nuovo arrivato, Kemala si trovò davanti un uomo di mezza età, serio, coi classici capelli a spazzola che sembravano essere molto di moda, da quelle parti, e una divisa semplice, ma ricca di decorazioni. Accanto a lui stavano altri due soldati, sull’attenti, o su quello che agli occhi di Kemala poteva passare per una posizione di attenti, qualunque fosse il suo nome ufficiale, ammesso che ne avesse uno.
«Kemala Kexin, l’archeologa lakshmita?» chiese, pronunciando il suo cognome in un modo quasi corretto. La fissava senza il disprezzo, o meglio ancora senza il compatimento riservato a un minus habens, che aveva letto su molte delle facce dei soldati, almeno tra i soldati con cui lei aveva avuto a che fare. Forse era qualcuno con cui poter intavolare una qualche discussione costruttiva?
«Sono io,» gli rispose, alzandosi. Sembrava una persona seria, ma soprattutto sembrava un pezzo grosso dell’esercito, forse un qualche tipo di generale, se non addirittura il capo della caserma dove l’avevano rinchiusa, sempre che fosse una caserma. Decise di procedere con la solita cortesia, per vedere cosa volesse quell’uomo da lei. Interrogarla, ovvio, ma su cosa?
«Sono il generale Demetrios Petkovic, comandante in seconda delle forze armate su Madre,» si presentò. «Le chiedo scusa per non essere venuto prima, ma la mia base è dislocata in un’altra zona del pianeta e ho impiegato un certo tempo per sistemare tutto, prima di potermi muovere.»
«Mi dispiace di averle causato un disturbo, allora,» disse, cercando di trattenere l’ironia. «A cosa devo l’onore della sua visita, dunque?»
Il generale Petkovic si stropicciò gli occhi, come se si fosse appena svegliato, o come se avesse un qualche problema alla vista. «Credo che abbiamo qualcosa di cui discutere sulla sua presenza in questo luogo,» le rispose. «Credo che, se tutto andrò bene, potremmo risolvere il problema anche oggi stesso e rimandarla nel luogo cui lei appartiene di diritto.»
«Il luogo a cui appartengo di diritto è questo, come ho già spiegato più volte ai suoi uomini. Sono dovuta venire qui, fingendomi terrestre, proprio perché non mi avete consentito di unirmi al gruppo di archeologi attraverso vie legali e legittime. Immagino che avrete già ricevuto la comunicazione dalla professoressa Jaewon, a nome della Società Interplanetaria di...»
Il generale Petkovic alzò una mano a interromperla. «Abbiamo ricevuto la comunicazione, abbiamo risposti alla comunicazione, abbiamo ricevuto una seconda comunicazione e si è svolto un dialogo a distanza tra noi e vari responsabili del suo pianeta, incluso l’ambasciatore lakshmita sulla Terra, che è il diplomatico più vicino a lei, sotto questo aspetto, almeno fino a che non ci sarà una sede anche qui su Madre. Un progetto per il futuro, naturalmente, dato che al momento non ci sono ancora i presupposti per l’apertura di sedi diplomatiche su quella che, a tutti gli effetti, è soltanto una colonia primitiva e sottosviluppata.»
«Se avete già discusso così tanto allora saprete anche che ho detto la verità e potrete lasciarmi andare, giusto? A cosa serve tenermi ancora qui sotto? Non voglio essere offensiva, ma una prigione non è proprio una sistemazione molto comoda, come potrà immaginare anche lei...»
Il generale Petkovic sospirò. «La nostra intenzione è proprio di lasciarla andare e permetterle di tornare sul suo pianeta di origine, col primo volo disponibile. Su un piano prettamente legale, noi avremmo ogni diritto di trattenerla qui in carcere, sottoporla a un regolare processo e, a seconda del risultato, condannarla a una pena detentiva, che comunque potrà scontare sul suo pianeta, in base ai trattati in vigore. In considerazione però delle recenti tensioni tra i nostri pianeti, Terra e Lakshmi, abbiamo concordato che la soluzione migliore sia il suo immediato rimpatrio, per consegnarla così alla giustizia lakshmita. È la soluzione migliore per tutti, mi creda.»
«Non direi proprio che è la soluzione migliore per me! Io non voglio tornare su Lakshmi! Io voglio restare qui a studiare assieme agli altri archeologi. Non lo capisce che è proprio per questo che ho fatto tutta questa pagliacciata?»
«Signorina, questo è un problema suo, non certo mio. È almeno consapevole di ciò che ha fatto e degli imbarazzi che ha causato non soltanto al suo pianeta, ma anche alla Società di Archeologia a cui si riferisce di continuo?»
«Io... ma... imbarazzi? Che cosa...»
Il generale Petkovic si stropicciò di nuovo gli occhi, lentamente. «Mi ascolti, per favore. Quello che lei definisce come il suo progetto iniziale, se ho capito bene, consisteva nell’infiltrarsi su Madre come clandestina, sotto falsa identità, dopodiché causare un qualche tipo di incidente diplomatico, per forzare la mano e costringerci ad accettarla qui, giusto? Confidando poi nell’appoggio esterno di autorità come l’ambasciatore del suo pianeta, società interplanetarie e così via, giusto?»
Kemala Kexin lo guardò incerta. Dove voleva arrivare, quel tizio? «Sì, ecco, più o meno è così. Non è proprio corretto nei dettagli, ma come approssimazione generale possiamo dire che è il mio piano, sì. Perché me lo chiede? Non vedo cosa ci sia di sbagliato in tutto questo.»
«No, non lo vede. Non ho dubbi che lei non lo veda. D’alta parte, la sua idea era di commettere un reato, uno di quelli considerati più odiosi in campo interplanetario, e poi farlo diventare giusto in un qualche modo, sollevando un polverone grande a sufficienza da nascondere il reato iniziale. E tutto questo contando su un appoggio incondizionato e immotivato sia da parte del suo pianeta, sia di una organizzazione interplanetaria, che come ogni altra organizzazione interplanetaria ha dovuto fare di un sano agnosticismo politico la propria barriera, per non scontentare nessuno. E in tutto questo lei continua a non vedere niente di strano, o di sbagliato. Giusto?»
«Come sarebbe uno dei reati più odiosi? Non ho ucciso nessuno, no? E non ho neanche rubato.»
«Più odiosi sul piano delle relazioni interplanetarie, ho detto. Introdursi clandestinamente in una colonia amministrata da un altro pianeta, infrangendo una esplicita limitazione all’accesso. Come lei dovrebbe sapere, o almeno come io pensavo che lei dovesse sapere, ma apparentemente mi sto accorgendo di averla sopravvalutata, tutti i pianeti sono molto sensibili a questo argomento. Chi può e chi non può accedere al territorio di un altro pianeta? Le leggi che governano gli accessi non sono certo identiche per tutti, ma esistono per tutti. Vede adesso qual è il punto difettoso nel suo piano?»
Kemala intravedeva qualcosa e quel qualcosa non le piaceva. «La mia intenzione non era quella...»
Il generale Petkovic la interruppe di nuovo. «Le sue intenzioni non hanno alcuna rilevanza. Sono le sue azioni ad averla. Come lei stessa ha espressamente dichiarato in più occasioni, le sue violazioni delle nostre leggi sull’immigrazione sono state intenzionali, premeditate e volte a forzarci la mano e costringerci ad accettare la sua presenza. Contava di ricevere un appoggio sia dal governo lakshmita che dalla Società Interplanetaria di Archeologia. Contava che, entrambi, avrebbero scelto di forzare un altro governo a piegare le proprie leggi sull’immigrazione, per accettare lei. Ciò che lei sembra non avere calcolato, però, è l’effettiva volontà di collaborare al suo piano da parte dei suoi due ipotetici alleati. Nel caso del governo lakshmita, le posso dire che la volontà è pari a zero.»
Dopo aver toccato il fondo, il morale di Kemala si munì di una buona pala e cominciò a scavare. In tutto questo doveva esserci un errore, giusto? Quell’uomo la stava solo ingannando, per spingerla ad arrendersi, giusto? «Cosa significa che il governo lakshmita non vuole collaborare, scusi?»
«Significa esattamente quello che le ho appena detto. Madre è una colonia ancora in piena fase di formazione, dipendente in tutto e per tutto dalla madrepatria, che sarebbe la Terra, e una politica di controllo piuttosto rigido sugli ingressi è del tutto normale in questi casi, soprattutto quando si tratta di ingressi provenienti da altri mondi, diversi dalla madrepatria. Non solo è normale, ma la stessa norma è stata applicata anche per gli altri pianeti di più recente colonizzazione e sarà applicata ai prossimi, nuovi pianeti colonizzati, quando ce ne saranno altri. Tutti i governi la conoscono e tutti i governi la approvano. Meglio ancora, l’hanno applicata, in passato, e contano di applicarla ancora in futuro, se sarà necessario. Crede davvero che un qualche governo sia disposto a collaborare alla creazione di un precedente, che di fatto distruggerebbe questa norma, rendendone impossibile ogni futura applicazione? E tutto questo solo per assecondare i capricci di un’aspirante archeologa? Ci pensi bene e vedrà che la risposta è una sola ed è ovvia.»
Kemala fissò il generale, fissò la sua scorta che la guardava con un sorriso di derisione nascosto a fatica, fissò la cella in cui era rimasta rinchiusa per giorni, infine fissò il pavimento, come ultimo rifugio dei peccatori. Possibile? Possibile, in effetti, almeno come era stato presentato da quel tizio, quel Petkovic. Aveva un suo senso. Non un senso gradevole, certo, ma pur sempre un senso. Se poi si prendeva in considerazione l’atteggiamento tipico del governo lakshmita, che ricordava a grandi linee un lumacone marino, allora diventava molto più che possibile. Diventava inevitabile.
Perché non ci aveva pensato, allora? Perché non se n’era accorta? Perché Choi Jaewon non le aveva detto nulla? Ma soprattutto: se davvero era così, a cosa era servito tutto quanto? Fingersi terrestre, sprecare mesi sulla Terra, lavorando, e poi viaggiare fino a lì, su Madre, per sprecare altro tempo in una cella, trattata come un animale? A cosa era servito, se adesso la rispedivano a casa, con niente in mano e nessuna prospettiva per il futuro? Che senso aveva?
Nessuno, era la risposta. Non aveva senso, perché niente aveva senso, di per sé: l’unico senso che le cose, gli eventi e le azioni possedevano era il senso che le persone davano loro. Ed era un senso provvisorio, un senso posticcio. Un senso aggiunto, che non cambiava di una virgola la naturale insensatezza di tutto. Ora più che mai, Kemala Kexin aveva voglia di piangere e abbracciare una qualsivoglia forma di pessimismo cosmico.
«Come le dicevo all’inizio, abbiamo concordato con il suo pianeta che sarà rimpatriata al più presto. Cosa le accadrà una volta tornata su Lakshmi, poi, non è una questione che mi riguardi: sarà il suo pianeta a punirla come riterrà opportuno, se deciderà di punirla. La invito però a non ritentare azioni di questo tipo, perché le conseguenze potrebbero essere sgradevoli, in caso di recidività. Inoltre, non credo che avrà bisogno di ritentare, dato che la quarantena sarà tolta tra dieci giorni e non ci saranno più ostacoli ai contatti tra Madre e Lakshmi. Anche se,» aggiunse Petkovic, «dopo questa bravata, lei potrebbe anche trovare qualche difficoltà extra a farsi accettare in un qualunque ruolo dalla comunità scientifica di Madre, almeno nell’immediato futuro.»
E quell’ultima nota, per Kemala, fu il famoso e famigerato colpo di grazia. Il generale Petkovic parlò ancora per un poco, specificando quando sarebbero venuti a prelevarla, per accompagnarla al suo temporaneo alloggio presso l’ascensore, da dove poi l’avrebbero rimpatriata, ma erano parole che le scorrevano attorno, senza sfiorarla. Dettagli di un’altra vita, di un’altra persona. L’unica cosa che aveva in testa, e che lampeggiava come una vecchia insegna al neon, era una domanda, che non poteva evitare. E adesso io? Ma a quella domanda non c’era una risposta.
Quando i militari si furono allontanati, lasciandola sola nella cella, i singhiozzi cominciarono.