La galassia di Madre - 49
La sede fisica della fondazione Chen-Cohimbra era un edificio che poteva essere descritto come una grande e bassa scatola da scarpe mutante e vetrosa, distribuita sulla cima di un colle appena fuori da Guan Yu, capitale di Svarga. Accanto e in parte attorno a questa struttura si apriva e si stendeva un giardino troppo cresciuto, oppure un parco sottodimensionato, a seconda della prospettiva e delle aspettative dell’osservatore. Era un luogo dove andarsi a rilassare, quando proprio si aveva voglia di stare all’aperto, ma anche un luogo dove familiarizzare con forme di vita autoctone, possibilmente in modo non violento. Se proprio si voleva familiarizzare, cosa che pochi planetologi volevano.
Le forme di vita autoctone della zona era quasi solo insetti, più qualche raro fruscio nell’erba o tra i cespugli, che poteva suggerire la presenza di piccoli rettili o piccoli roditori. O anche insetti a cui il termine “piccolo” sarebbe andato un poco stretto, almeno su un qualunque altro pianeta colonizzato dall’uomo. Su Svarga, invece, era spesso necessario ripensare alle categorie entomologiche più note e familiari e inserirle in uno schedario alquanto diverso. Più spazioso, per cominciare, ma anche più voluminoso e vivace.
A niente di tutto questo stava pensando Bogdan Stratos, seduto su una panchina a godersi il fresco della sera in arrivo, o almeno a comportarsi come se si stesse godendo il fresco, o godendo qualcosa in generale. Perché non era stata una giornata fresca. Doveva essere estate o giù di lì, nella porzione di pianeta in cui si trovava Guan Yu, che era poi l’emisfero boreale, ma Bogdan non aveva avuto né tempo né voglia per preoccuparsi delle stagioni o anche solo del clima all’esterno degli edifici. Non era venuto su Svarga per interessarsi al clima, né a quel mondo in generale.
Affermazione forse strana per un planetologo, che si guadagnava da vivere studiando i pianeti, ma giustificata nel suo caso specifico. Perché i pianeti che studiava lui non erano abitabili per l’uomo, o almeno non per un periodo superiore a qualche frazione di secondo, quanto bastava alla pressione di un gigante gassoso per ridurti a un francobollo umano, se anche tu fossi riuscito a sopravvivere ad altre caratteristiche spiacevoli del mondo in questione. Se poi non si parlava di giganti gassosi in generale, ma dei due presenti nel sistema solare di Madre, allora il disinteresse per qualsiasi altra cosa era più che giustificato, almeno dal suo punto di vista.
Che il suo punto di vista non fosse condiviso appieno da tutto il resto della specie umana, poi, era un dettaglio che era stato costretto a scoprire quel giorno stesso, poche ore prima, e in termini che non gli avevano proprio riempito il cuoricino di gioia. Lo aveva appreso proprio da Muzafar Chang, il suo tutore, che con lui lavorava alle ricerche sui due giganti: l’ultima persona da cui se lo sarebbe aspettato, in altri termini, o almeno l’ultima tra quelle a cui avrebbe pensato.
«Quanto tempo è passato dal tuo arrivo su Svarga, Bogdan?» gli aveva chiesto Muzafar poco prima della pausa pranzo, mentre sugli schermi scorrevano le ultime immagini filtrate dei pianeti.
Bogdan aveva alzato la testa, piuttosto perplesso. Perché non si aspettava una domanda di quel tipo, ma anche perché non ne conosceva la risposta. Da quanto tempo era lì? Poteva essere poco, perché sembrava che ci fossero sempre nuovi lavori, nuove ricerche, nuove correzioni, nuove modifiche al suo abbozzo di ipotesi sulla presenza di strutture organiche nei giganti gassosi. D’altra parte, poteva anche essere molto, perché gli sembrava di trovarsi in quei laboratori da sempre. Considerando poi che non aveva ancora mosso un mignolo per familiarizzare col calendario svarghiano e i ritmi delle sue stagioni, l’idea stessa di tempo era qualcosa di tanto astratto e impalpabile da essere quasi non esistente in natura. Il che forse corrispondeva alla verità.
«Da un po’, credo,» aveva risposto alzando le spalle a indicare tutta la propria divina indifferenza di fronte agli interrogativi cronologici. «Troppo poco,» aveva poi aggiunto, nel tentativo ancora velato di suggerire a Muzafar che sì, conversare era bello, buono e giusto, a volte, ma al momento avrebbe preferito lavorare, invece di chiacchierare. Lo stomaco gli aveva annunciato che era quasi tempo di cibarsi ed era opportuno concludere almeno quella sezione, prima di staccare per salire in mensa.
«Sei qui da circa sei mesi, secondo le unità di misura terrestri,» aveva detto Muzafar, non cogliendo apparentemente l’allusione del collega. O forse cogliendola, ma ignorandola.
«Bene, interessante. Come vola il tempo, quando ci si diverte. Adesso però dovrei...»
«E sai quante pause ti sei preso, nel corso di questi sei mesi circa?»
«Nessuna, con tutto il lavoro che c’è da fare. E adesso dovrei proprio...»
«Dovresti proprio staccare e prenderti il resto della giornata libera. E magari anche la giornata di domani, già che ci siamo. Restare sempre tappati qui dentro non è salutare e il lavoro di oggi non è così urgente come dici tu. Abbiamo praticamente finito, per adesso, e il modello è completo: ci sono solo piccole correzioni da fare e di quelle posso occuparmi io. Prima di scoppiare, vedi di prendere fiato. Come tuo tutore, sono responsabile anche della tua salute, non solo dei tuoi studi.»
«Ma adesso siamo così vicini alla fine del modello, lo hai detto anche tu, no? Non ha senso fermarsi prima del traguardo, no? Meglio tirare ancora un poco e staccare poi, giusto?»
«Sbagliato, perché poi ci sarà la presentazione del modello e un lavoro ancora più stressante, sia per te che per me. Prenditi il resto della giornata di pausa, prenditi anche domani, ma stacca e fai il pieno di energie. Dimentica per un poco quei giganti gassosi, Bogdan! Sono là da miliardi di anni e ci saranno ancora tra due o tre giorni, vedrai. Ci saranno anche se tu non li controlli.»
«Ma...»
«Ma niente. È un mio ordine come tuo tutore. Ho l’autorità di ordinarti una pausa, se e quando lo ritengo necessario, e adesso lo ritengo necessario. Staccati da quegli schermi, prima che i tuoi occhi si riducano come i miei!»
Bogdan aveva protestato ancora un poco, ma la battaglia era persa e gli restava solo la ritirata. Così adesso sedeva su una panchina di in un parco inutile, a sprecare tempo guardando fili d’erba, con la testa avvolta dal ronzio di insetti che non vedeva e le narici piene di un odore sospetto, che di tanto in tanto lo faceva starnutire. Poteva esserci qualcosa di peggiore? Senza dubbio, ma non lì e non al momento, quindi non aveva rilevanza. Aveva rilevanza il suo essere stato tagliato fuori dal lavoro, proprio quando erano alla fine. Tagliato fuori temporaneamente, è vero, ma anche temporaneamente era troppo lungo per i suoi gusti. Quel Muzafar non aveva alcun diritto di metterlo a riposo. Non era giusto. Era un abuso di potere bello e buono, ecco.
Giusto o meno, era andata così. Aveva pranzato in un angolo della mensa, da solo, tutto incazzato e con la gioia di un bambino che ha ricevuto soltanto un “pagherò” come regalo di natale, dopodiché era uscito in quella specie di parco, giardino o quello che era, aveva trovato una panchina il più possibile isolata (non molto difficile, dato che non c’era nessuno nel parco) e si era seduto, immerso in pensieri tristi e col muso che arava il terreno. Il pomeriggio era passato così. Un riposo fantastico, di cui scrivere con entusiasmo ad amici vicini e lontani. Magari avrebbe anche potuto inviare una cartolina a quel caprone di Vihersalo, per raccontargli quanto belle fossero le vacanze svarghiane.
Che poi era pure difficile capire che ora fosse su quel pianeta, se guardavi soltanto il cielo. Rispetto ai pianeti normali, aveva un sole di troppo e non contava molto che fosse piccolo, lontano e visibile di giorno soltanto in alcuni periodi dell’anno: era comunque sufficiente a scombussolarti prospettive e bioritmi, o quello che erano. Ritmi circadiani, forse. Si chiamavano così, vero? Probabile, ma non avevano molta rilevanza, finché il tempo lo spendevi al chiuso e magari sottoterra. Quando però il tuo tutore ti costringeva a stare all’aperto...
Non che fosse brutto, come posto. Neanche bello, se proprio si voleva dire la verità, ma passabile sì, non peggiore di molti parchi che aveva visto sulla Terra. Alberi, cespugli, erba, fiori, alcuni locali e altri importati dalla Terra o da altri pianeti: il profumo complessivo tendeva un poco a intorpidirti le narici, alla lunga, ma almeno non le offendeva, anche se sospettava che i pollini non si accordassero col suo apparato respiratorio. Ciò che lo offendeva davvero, invece, era l’essere stato costretto a sprecare tempo in un prato, quando lo avrebbe potuto utilizzare molto meglio terminando gli ultimi dettagli del modello e pensando alla presentazione. Quella, soprattutto, era importante.
Il lavoro diretto di osservazione era terminato, per adesso. Avevano raccolto tutte le immagini che al momento sarebbero servite, avevano applicato le ultime versioni di tutti i filtri applicabili nel loro caso e il risultato era un quadro netto, forse non nitido ma preciso a sufficienza per procedere con la presentazione ufficiale. Non al grande pubblico, beninteso, ma al piccolo pubblico sì, alla platea di colleghi sparpagliati su tutti e undici i mondi colonizzati, più la Terra. Ok, diciamo pure tutti e dieci i mondi colonizzati, visto che Madre non è che avesse ancora molto da dire in fatto di planetologia, ma siccome la scoperta riguardava proprio due pianeti del suo sistema solare, ne avrebbero ricevuto regolare notifica anche i suoi centri di studio. E che poi ne facessero quel che volevano.
Per presentare il progetto, però, serviva anche qualcosa in più rispetto a una catasta di dati, fisici o digitali che fossero. Serviva un modello. Serviva un modello non solo per la presentazione, che era già importante, ma anche e soprattutto per il proseguimento degli studi, che era indefinitamente più importante di qualsiasi presentazione. Sul piano ideale della scienza pura e disinteressata, ammesso e non concesso che qualcosa del genere esistesse. Sul piano della scienza impura e interessata, la presentazione significava onore e gloria per lui, quale scopritore, e quindi aveva una importanza più che notevole per le sue ambizioni personali. Ma la ricerca aveva sempre la priorità, dopo essersene assicurato tutti i meriti di fronte alla comunità interplanetaria. Ma si parlava di dati e modelli.
I dati dovevano essere raccolti e trasformati in informazioni, le informazioni processate e convertite in un modello ideale, il modello ideale assemblato in un modello virtuale, che riproducesse per lo meno nelle canoniche tre dimensioni ciò che si trovava al centro dei due giganti gassosi. O ciò che ritenevano vi si trovasse, che non era proprio la stessa cosa. A ogni modo, questo ultimo passaggio significava in pratica che avrebbero dovuto costruire un modellino dei nuclei dei due pianeti, fedele nei minimi particolari. Fedele almeno a quanto avevano potuto scoprire fino a quel momento, se non proprio alla realtà effettiva dei mondi. E la realtà era fuori della loro portata, per adesso.
Quello era stato il lavoro principale dell’ultimo mese e ormai era concluso. Quasi concluso. Giusto qualche ritocco, correzioni finali, qualche test per verificarne il funzionamento e il modello digitale sarebbe stato completato. E Muzafar gli ordinava di stare a riposo. Di prendersi una vacanza, per contare le cacche di mosca sulle margherite o roba del genere. Cosa aveva nella testa quell’uomo? Castagne bacate? Nidi di coleotteri?
Bogdan sospirò, strofinandosi gli occhi. Ok, forse si era stancato troppo, negli ultimi tempi. Era un pensiero che gli costava parecchia fatica, ma lo poteva anche formulare, almeno mentre era da solo, nel mezzo di un niente di parco. Aveva anche passato un po’ troppo tempo rinchiuso sottoterra nel palazzo della fondazione, a respirare solo aria riciclata e vedere solo luce artificiale. Se proprio si voleva andare fino in fondo, aveva anche dormito poco, un po’ perché non riusciva a staccarsi dalla sua ricerca, un po’ perché il suo alloggio non era proprio confortevole e vivere sottoterra non gli era riuscito così facile come aveva pensato. Si era addirittura svegliato almeno una dozzina di volte, nel corso di quei sei mesi, con la sensazione di soffocare e un retrogusto da incubo dimenticato che gli si attardava in bocca. Ma non era una buona ragione per non lasciargli completare il progetto.
Una specie di libellula lunga quasi come un passero gli passò davanti alla faccia, ronzando lieve sul vento delle sue otto paia di ali. Aveva anche quattro zampe e delle protuberanze strane sul capo, che forse erano antenne o forse cose che Bogdan preferiva non conoscere in dettaglio. Quella schifezza volante si fermò per un attimo a fissarlo negli occhi, o almeno si fermò a mezz’aria orientando nella sua direzione la parte del corpo che sembrava corrispondere alla testa, ronzò un poco più forte e poi fece un favore al mondo, levandosi dalle scatole e andando a dedicarsi a qualunque cosa facciano di tardo pomeriggio gli sgorbi di quel tipo. Altra cosa che Bogdan preferiva non sapere.
«E c’è gente che spreca la vita a studiare quei bagagli,» si disse, scuotendo la testa. No, davvero non riusciva a capire come facessero. Studiare i pianeti sì, era nobile, era un’attività che ti metteva in contatto non proprio con l’eterno, ma almeno con qualcosa che durava sufficientemente a lungo da potersi spacciare per eterno. Ti metteva in contatto con l’universo, ti consentiva di sbirciare i segreti della sua nascita e fantasticare con cognizione di causa su come si sarebbe evoluto e sviluppato nel corso dei miliardi di anni che ancora gli rimanevano. Era una salutare boccata d’aria fresca, quando ti trovavi sepolto tra le mille paranoie e i milioni di deliri di scimpanzé glabri che si credevano il centro dell’universo. Ma gli insetti? Come potevi perdere tempo a studiare cose che non sarebbero campate per più di qualche anno al massimo, se proprio erano longeve?
Eppure gli insetti erano il vanto di Svarga. Strano pianeta, davvero. Oh beh, a ognuno il suo, giusto? A lui interessava soltanto un tipo di struttura organica, per adesso, ed era quella che, per motivi non ancora chiariti, si era formata al centro dei due giganti gassosi di Madre. Ammesso poi che si fosse formata al centro dei giganti e non che i giganti si fossero formati attorno alla struttura, come invece ipotizzava Muzafar. Ipotesi fantasiosa e affascinate, senza dubbio, ma Bogdan la considerava solo il peto cerebrale di un quarantenne con la pancetta e poche altre possibilità di diventare famoso, a cui era toccata la fortuna di pescare proprio un biglietto vincente come Bogdan Stratos e adesso cercava di massimizzarne la rendita, puntando su una strana fantasticheria per farsi un nome in proprio.
Lo poteva capire, anche se non apprezzare. A diventare immortale per quella scoperta sarebbe stato lui, Bogdan, e non certo il suo collaboratore Muzafar Chang. Se Muzafar voleva ritagliarsi un posto che non fosse una nota a piè di pagina, doveva puntare forte su qualcosa di originale, diverso dalla più seria ipotesi di Bogdan: aveva scelto di puntare su una struttura organica che galleggia giuliva nello spazio e attorno a cui, a poco a poco, si forma un gigante gassoso. Imbevibile, giusto per voler essere gentili. Le strutture nel nucleo dovevano chiaramente essersi formate in seguito a un qualche tipo di reazione chimica nei componenti del pianeta, probabilmente innescata dall’enorme pressione che si registra al centro di un gigante gassoso. In alcuni casi si forma un nucleo di diamante, in quel caso si era formato un nucleo sempre a base carbonio, ma organico.
Che tipo di reazione? E di quali componenti? Beh, per rispondere a quelle domande sarebbe servito uno studio molto più lungo e accurato, con mezzi di cui non disponevano ancora, ma che forse non sarebbero stato poi così lontani, dopo un ciclo di presentazioni e dopo aver acceso l’interesse di uno o più sponsor molto munifici. Uno o più pianeti, magari.
Il che gli portò alla mente Einarsson, quel tizio che il ministro Hass gli aveva assegnato come primo referente e primo controllore. Una volta concluso il modello, ne avrebbe dovuto far avere una copia anche a lui, così che la potesse inoltrare alla Terra. Il ministro Hass aveva sostenuto di essere molto interessato ai suoi studi e aveva anche fatto allusioni poco piacevoli ai mezzi di cui disponeva per assicurarsi una piena collaborazione. Einarsson ne aveva poi riso, quando Bogdan gli aveva riferito del colloquio. «Non era una minaccia,» aveva detto. «Sei tu che l’hai interpretata in quel modo. Era detto in senso letterale, non figurato. Pensi davvero che voglia torturarti?»
Bogdan non lo pensava davvero, ma sapeva che prevenire era sempre meglio di curare, per cui non aveva in programma di trasgredire all’accordo: il ministro lo aveva mandato lì ad approfondire gli studi e lui avrebbe fatto rapporto. Regolarmente. Fedelmente. Provvisoriamente, anche, almeno fino a che la fama non gli avesse garantito una posizione sicura a sufficienza per permettersi di sfidare un ministro terrestre, ma erano pensieri secondari e non avevano molta rilevanza, per il momento. Avrebbero continuato a non avere rilevanza finché la galassia si fosse strutturata in un modo che gli permettesse di fare ciò che voleva, ossia proseguire con le ricerche senza intralci. Per adesso tutto possedeva quella struttura, quindi andava bene così.
«Finiamo questo riposo del cavolo, così potrò tornare al modello e farne una copia da inoltrare a Einarsson e non ci pensiamo più.»
Mentre la sera calava e il mondo attorno a lui diventava ancora più ronzante, ma di ronzii diversi da quelli diurni, cresceva anche la luce nel mondo oltre il bordo della collina, dove si apriva la città di Guan Yu, là sotto. Città che aveva visto soltanto una volta, all’arrivo, e poi evitato con cura. A cosa poteva mai servirgli andare in una città, quando aveva già tutto ciò che desiderava lì alla fondazione Chen-Cohimbra? A nulla. A perdere tempo, tutto qui, e di tempo ne stava già perdendo troppo, per quella fantastica idea di regalargli un intervallo di riposo che era venuta a Muzafar. Ah, che gente!
Quella sera dopo cena, Bogdan Stratos brontolava ancora contro le profonde ingiustizie della vita e i tutori che imponevano riposi forzati nei momenti peggiori di un lavoro, quando si sedette come suo solito nell’area di ricreazione assieme ad Anna Lindtner, l’altra planetologa che era arrivata assieme a lui come ricercatrice dall’Ufficio, o come peso superfluo scaricato altrove, a seconda dei punti di vista. A Bogdan non era chiaro perché l’avessero selezionata, ma forse il suo progetto di studio su un qualche pianeta roccioso di un sistema che lui neppure si ricordava doveva possedere almeno la più vaga delle rilevanze, se Vihersalo l’aveva spedita lì. O quello, oppure voleva davvero togliersela dai piedi, come avevano scherzato durante il viaggio. Cambiava poco.
Fosse come fosse, per Bogdan la cosa importante era un’altra: Anna Lindtner era seduta davanti a lui ed era sola. La situazione migliore per potersi lamentare un poco a piede libero, più o meno nello stesso modo in cui si era lamentato con lei quando ancora erano all’Ufficio e il bersaglio delle sue folgori era il caprone Vihersalo. Quella sera il bersaglio era il molto meno caprone Muzafar Chang, ma pur sempre colpevole del reato più ignobile che si potesse immaginare: gli aveva tolto di mano il giocattolo. Temporaneamente, per farlo riposare, ma gli aveva tolto di mano il giocattolo.
«Ma mi spieghi tu che senso ha mettermi a riposo proprio adesso che il modello è pressoché finito? Ma lasciami almeno finire, no? Tempo qualche giorno, no, e le ultime cose sono sistemate e poi, se proprio lo vuoi davvero così tanto, allora posso farmi anche un giorno o due di riposo, ok, va bene, tutto quello che vuoi. Ma adesso? Adesso che devo solo correggere le ultime virgole? Che senso ha, scusa? Non ha senso!» concluse, allargando le braccia e mancando di poco una persona che passava di lì con un vassoio in mano e una espressione concentrata in faccia.
«Certo che sei proprio monotono, tu,» sorrise Anna. «Su qualunque pianeta, alla sera ti trovi sempre seduto da qualche parte, con un bicchiere davanti e una lamentela pronta sul tuo superiore di turno.»
«Non è una lamentela. È una legittima obiezione. Legittima e giustificata. Non fermi una persona quando ha quasi finito, no? Prima la lasci finire e poi la fermi. Mi pare logico.»
«Avrà avuto i suoi motivi, non credi? E comunque lo hai detto anche tu: il lavoro è finito. Se manca solo da correggere qualche virgola, può farlo anche lui. Dopotutto è il tuo tutore, è il docente del posto e ha anche più esperienza di te. Vorrà fare bella figura anche lui.»
«Lasciando fuori me, eh? Hah, se lo scorda. Può essere simpatico quanto vuole e competente quanto vuole, e in entrambe le cose è mille volte meglio di Vihersalo, te lo garantisco, ma il progetto è mio e il nome sul progetto sarà mio. Muzafar sta già cercando di ritagliarsi qualche spicchio di sole con le sue idee balzane su come le strutture organiche si sarebbero formate: è il massimo a cui potrebbe ambire. No, no, davvero: dopo questa pausa mi toccherà ricontrollare tutto, per assicurarmi che non ci abbia messo qualche errore lui. E così lavorerò più del previsto e tutto per la sua splendida idea di farmi fare una vacanza. Una vacanza nel cortile dell’edificio, poi...»
«Ci sono cose interessanti nel parco della fondazione. Insetti interessanti, d’accordo, ma sono pur sempre interessanti: l’aggettivo rimane valido, qualunque sia il sostantivo a cui si riferisce. Me ne ha indicati un paio Fung, qualche giorno fa. Libellule o qualcosa del genere, non saprei dirtelo di preciso. Ma intelligenti, eh! Sanno portare messaggi e in altri centri di ricerca stanno studiando un modo per utilizzarle. Non ho capito bene i dettagli, anche perché non ne sapeva molto neppure lui, ma sono esemplari interessanti. Anche se è cosa da exologi, vero, non da planetologi.»
Bogdan grugnì il proprio scarsissimo interesse, accompagnandolo con un cenno della testa. Pure le libellule messaggere, adesso. Probabilmente se l’era inventato quel Fung Mei, un altro planetologo del posto che si interessava ai pianeti rocciosi, come Anna, e che era diventato suo amico, nel corso dei mesi su Svarga. O forse anche qualcosa di diverso da un amico: Bogdan non lo sapeva e non gli interessava. Gli interessava solo che quella sera non ci fosse, così poteva lamentarsi in pace, senza orecchie extra nei dintorni. Ce n’erano già fin troppe.
«Comunque gli insetti non c’entrano. C’entra il modello, adesso. Te ne ho già parlato, no?»
«Sì, me ne hai già parlato.» Più e più volte, fino a farmi sanguinare le orecchie. Un commento che Anna non inserì, ma che si poteva leggere nel taglio del suo sorriso, se si sapeva come leggerlo. Per fortuna del suo amor proprio, Bogdan non lo sapeva, così continuò a parlarne, giusto per sicurezza e per non lasciare nulla di ambiguo. Anna ascoltò, annuendo dove serviva e partecipando alla maniera di un interlocutore di Socrate, nei dialoghi scritti da Platone. Sapeva essere orribilmente ripetitivo e un poco palloso, Bogdan, ma a volte tornava utile.
«Me ne starò fermo ancora domani, perché Muzafar ha insistito ed è mio tutore, il che gli garantisce il potere di forzarmi a restare fuori, se lo vuole ma dopodomani sarò di nuovo a sistemare gli ultimi dettagli e che ci provi a lasciarmi fuori di nuovo. Ci saranno poi anche le conferenze da preparare e quelle le posso anche lasciare a lui, almeno a livello di organizzazione. A parlare, però, dovrò essere io, perché sono io il più qualificato a farlo. È il mio progetto, dopotutto, e ne voglio tutto il merito.»
«Conferenze?» Anna abbandonò lo stato di screensaver umano e tornò al presente, con tutta la sua attenzione. «Quali conferenze, scusa? Non me ne avevi detto niente.»
«Conferenze, no? Abbiamo una scoperta che rivoluzionerà la planetologia, quantomeno, e quasi di sicuro anche la nostra concezione della galassia. Dovremo pure annunciarla e pubblicizzarla, no? È il nostro dovere nei confronti della scienza, non possiamo tenerla solo per noi.»
Della scienza o della tua ambizione?, si chiese Anna. «Dovrai parlarne anche con Vihersalo e col dottor Leonardi, lo sai. Parlarne prima di programmare qualsiasi conferenza. Che ti piaccia o meno, sei ancora un subordinato di Vihersalo, in quanto capo del tuo dipartimento, e il dottor Leonardi è la persona che ha l’ultima parola su qualsiasi cosa riguardi Madre e il suo sistema solare. Senza il suo consenso non puoi tenere nessuna conferenza sui giganti gassosi, lo sai.»
Bogdan sbuffò. «La scoperta è mia e l’ho fatta nonostante loro, nel caso te lo fossi dimenticata. Non vedo proprio perché dovrebbero metterci becco, visto che non hanno fatto niente per aiutarmi. Anzi, quella capra di Vihersalo ha cercato solo di ostacolarmi. Vuoi che gli dia anche il merito della mia scoperta, adesso? Stai fresca!»
«Non ho parlato di merito, ma solo di avvisarli. In quanto dipendente dell’Ufficio è un tuo preciso dovere. Tu presenti la relazione sulle tue ricerche, esponi la tua idea di una o più conferenze, non so cosa tu abbia in programma, e attendi la loro risposta. È così che funziona nell’Ufficio.»
«È così che ha funzionato nell’Ufficio finora, forse, ma non significa che debba anche continuare a funzionare così per sempre. Forse è il momento di cambiare le tradizioni, non trovi?»
«Non sono tradizioni, ma regole. Puoi anche proporre un cambiamento, se lo ritieni opportuno, ma finché le regole ci sono e non sono cambiate, tu le devi rispettare.»
Bogdan aveva già pronta una risposta adeguata, una per scardinare la bigotta che gli sedeva davanti e non sembrava più intenzionata a fargli da bersaglio placido, ma si morse le labbra e la soffocò. La risposta poteva essere adeguata, ma non era il momento giusto per usarla. Era il momento giusto per riposare, come pretendeva Muzafar, e poi per completare il modello e inoltrarne una copia a chi di dovere, che nel caso specifico era il buon Hideki Einarsson, parcheggiato presso l’ambasciata di Guan Yu. Da Einarsson sarebbe andata al ministro e il ministro... Beh, probabilmente avrebbe avuto qualcosa da dire a proposito di Leonardi e Vihersalo, no? In fondo era stato Hass a permettergli quel viaggio su Svarga, non certo i due tromboni dell’Ufficio. Che se la litigassero tra loro: a lui bastava il riconoscimento della scoperta e la fama che ne sarebbe derivata. E la possibilità di proseguire le ricerche, magari con più fondi e attrezzature migliori. Proseguirla sul campo. O almeno nelle sue vicinanze, dato che uno studio sul campo lo avrebbe ucciso in modi molto affascinanti e sgradevoli.
«Beh, ci penserò. Prima devo finire il modello, in ogni caso,» disse Bogdan. Si concesse ancora qualche chiacchiera blanda, ma la voglia di discutere e sfogarsi con qualcuno gli era passata. Aveva un giorno di duro riposo davanti, ed era meglio pensare a toglierlo il più rapidamente possibile, per poter poi riprendere a fare qualcosa di utile all’umanità. Così salutò e tornò nella stanzetta interrata, da claustrofobia blanda, più annoiato che riposato, ma in fondo pur sempre in -ato, per cui tutto era bene, almeno da un certo punto di vista. Sprecò anche il giorno seguente a fare nulla nel parco, con una occhiata disinteressata e distratta verso la città più in basso, di tanto in tanto, quando il nulla di attività si faceva soffocante e non c’erano sottospecie di libellule da scacciare con la mano. Ma gli poteva andare peggio, tutto sommato: almeno non pioveva.
Era molto vicino a una crisi di astinenza, quando finalmente poté tornare al lavoro, e la prima cosa che vide non migliorò il suo umore: Muzafar Chang, sorridente e un poco miope, in piedi di fronte a una proiezione del modello. Una proiezione completa. Una proiezione che conteneva un errore.
«Quella parte è sbagliata,» disse Bogdan, in una versione diversamente cordiale di buongiorno.
«Quale parte?» Muzafar sorrideva incerto, muovendosi verso il nuovo entrato.
«Quella. Vedi? Lì, lì sotto. Il calcolo è sbagliato.»
Muzafar raggiunse Bogdan, si fermò accanto a lui e guardò il punto che il collega gli indicava. Un punto in apparenza uguale a qualunque altro, ma evidentemente non lo doveva essere. «Dici che è sbagliato? Così, a prima vista?»
«Te lo posso dire anche a seconda vista, se vuoi. È sbagliato. Secondo il modello che ho preparato io, quella parte del nucleo del gigante Alpha presenta una lieve convessità irregolare, lì, e invece la proiezione è concava. Concava, capisci? Il contrario! Hai invertito un qualche segno e non te ne sei accorto, quando hai inserito quei dati?»
«Non ho invertito nessun segno. Non li hai inseriti tu, poi? Vuoi sempre fare tutto da solo...»
«Voglio sempre fare tutto da solo, perché così lo faccio bene di sicuro. E poi no, quella è proprio la parte che mancava ancora e che io avrei fatto negli ultimi due giorni, se tu non mi avessi costretto a prendermi quella fantastica vacanza nel cortile. E adesso dovrò rifare tutto, controllando che non ci sia qualche altro errore. Grazie tante!»
E si incamminò verso la scrivania, scuotendo la testa e borbottando a bassa voce. Muzafar Chang lo guardò, sospirò e alzò le spalle. Ah, quei terrestri! Sempre convinti di essere i migliori su tutto. Ma lo poteva capire, in fondo: il ragazzo aveva per le mani una scoperta importante, forse anche storica, e voleva che ogni dettaglio fosse sistemato a dovere, alla perfezione, eccetera eccetera. Lo avrebbe fatto anche lui, probabilmente, se si fosse trovato al suo posto. Oh beh, anche la pazienza è una virtù e il giovane Bogdan lo avrebbe imparato, prima o poi. Forse non la virtù più importante per vivere in quel mondo che si era scelto, ma una virtù è pur sempre una virtù.
Per i tre giorni successivi Bogdan Stratos non si scollò dagli schermi, se non per le più necessarie e inevitabili funzioni fisiologiche: ricontrollò tutto il lavoro fatto dal collega durante il breve, ma fin troppo lungo periodo di riposo forzato, ricontrollò poi tutto il materiale precedente, generò da capo almeno due proiezioni nuove e tre parziali, scosse la testa più volte, brontolò tra sé e sé un numero non computabile di volte e alla fine si afflosciò sulla sedia. Tutto pronto? Forse, per adesso. A sufficienza per inoltrarne una copia a Einarsson, almeno, ma per una presentazione pubblica non bastava, non se voleva essere preso sul serio. Con quello che doveva presentare, poi, essere preso sul serio era una necessità: sarebbe stato fin troppo facile ridere e parlare di errori.
Non rise e non parlò di errori Hideki Einarsson, quando Bogdan scese a portargli una copia di tutto il lavoro, salvata su supporto esterno. Una copia consegnata personalmente, a mano, come aveva insistito: secondo la filosofia di Hass, fidarsi dei mezzi di comunicazione di un altro pianeta era più che stupido, in una società in cui non puoi fidarti neppure dei mezzi di comunicazione del tuo stesso pianeta, perché chiunque potrebbe essere in ascolto. Puoi utilizzare le linee militari, d’accordo, ma non certo se vuoi spedire qualcosa da o verso un centro di ricerca svarghiano. La fondazione Chen-Cohimbra era un centro di ricerca svarghiano, quindi insicuro sul piano delle comunicazione. Ogni volta che hai qualcosa da inviare, vieni a portarmelo di persona: così aveva richiesto Einarsson. A Bogdan non era piaciuto molto, ma si era dovuto adattare.
«Questa è la versione quasi definitiva del lavoro,» disse, consegnando il materiale. «È possibile che ci sarà qualcosa da correggere, poi, ma per adesso dovrebbe bastare. Saranno solo dettagli secondari e da perfezionare, nel caso, a meno che non abbiamo sbagliato tutto quanto.»
«E avete sbagliato tutto quanto?» chiese Hideki, sorridendo.
«Io non sbaglio mai tutto quanto, ma negli ultimi giorni ho dovuto correggere un paio di errori che il mio collaboratore svarghiano aveva commesso. Non dovrebbero essercene altri, ma non si sa mai. Il grosso comunque è corretto e dovrebbe essere quello che il ministro voleva, no?»
Einarsson alzò le spalle. «Ce lo dirà lui. Il mio lavoro è solo di fare da tramite, non so cosa voglia di preciso lui. Non fa parte del mio lavoro chiederlo o saperlo. Controlliamo però che il materiale non sia difettoso o abbia qualche altro problema, ok?»
Controllarono. Bogdan fu affascinato come sempre, guardando la proiezione dei due presunti nuclei organici nel cuore dei giganti gassosi: era maestosa anche sugli strumenti dell’ufficio di Einarsson, che potevano essere paragonati a quelli della fondazione Chen-Cohimbra soltanto il senso negativo. Come era possibile che esistessero? E come si erano formati? Erano due domande a cui lui avrebbe dovuto rispondere, non appena fosse riuscito a fare accettare alla comunità interplanetaria la realtà di quella scoperta. E una volta accettata... Bogdan sorrise. Sì, il futuro prometteva molto bene, per lui. Prometteva benissimo. Che soddisfazione strofinarlo sul grugno di Vihersalo!
«Sì, la riproduzione funziona, tutto a posto,» disse Einarsson, che invece non sembrava essere stato altrettanto affascinato dal lavoro. Ma in fondo era soltanto un controllore che il ministro gli aveva messo dietro al culo, non si poteva certo pretendere molto da un tizio come quello. Bogdan non lo pretendeva, infatti. La risposta del ministro, invece, sarebbe stata decisamente più importante. Alla luce di quello che aveva detto Anna, poi, sarebbe stata fondamentale. Doveva davvero mendicare il consenso di Vihersalo e Leonardi, per pubblicare i risultati? Non aveva senso! Ci avrebbe pensato di sicuro il ministro a sistemare tutto. In fondo, gli aveva concesso di venire su Svarga proprio perché voleva che i suoi studi procedessero, no?
«Se qui è finito, posso tornare alla fondazione, giusto? Ho ancora lavoro da fare, io.»
«Sì, sì, qui è tutto finito, per te. Torna pure al tuo lavoro e grazie per la consegna del materiale,» lo congedò Hideki, ignorando con scrupolo la lieve enfasi che Bogdan aveva posto sul suo “io” come persona che ha ancora lavoro da fare. Fastidiosamente insopportabile, quel ragazzo, ma Hass voleva i risultati delle sue ricerche e Hass li avrebbe avuti. Apprezzare gli individui che gli erano affidati non rientrava fra i suoi doveri professionali.
Non rientrava tra i suoi doveri professionali neppure interessarsi al materiale che doveva raccogliere e inoltrare alla base, e infatti non se ne interessava. Aveva accolto con una blanda curiosità i risultati di Bogdan Stratos, almeno su un piano grafico: proiezioni curiose alla vista, accompagnate da pile e file di dati o quello che erano. Dovevano possedere un qualche significato, sicuramente, ma era un significato che non apparteneva a lui, né gli interessava. Molto probabilmente non lo avrebbe capito neppure il ministro Hass, ma il ministro non aveva bisogno di capire, non scendendo in dettagli così basici e basilari: aveva uno staff di persone che filtravano la materia grezza e gli consegnavano il prodotto lavorato e si sarebbero occupate anche del materiale che veniva da quello Stratos.
Così i risultati della ricerca che Bogdan aveva consegnato a Einarsson passarono da questi a Hutch Feleke, addetto alla crittografia, e da Feleke partirono verso la Terra, in un viaggio di quattro anni luce circa, puntando verso la sede del ministero della Difesa, meta che avrebbe raggiunto nel giro di qualche giorno. Non fu però il solo comunicato a viaggiare sul tema dei giganti gassosi di Madre, né fu il primo a partire. Il primo ad arrivare, almeno? Ritenta sarai più fortunato.
Ignaro di tutto questo, Bogdan Stratos tornò al lavoro assieme a Muzafar Chang, per perfezionare il modello ed esaminare i punti chiave da inserire nella presentazione che, presto o tardi, avrebbe dato fama, fortuna e possibilmente fondi alle ricerche di Bogdan. Almeno nelle sue speranze. Ancora non aveva digerito l’idea che il caprone Vihersalo avesse diritto di mettere il becco nei suoi studi, specie dopo averli ignorati e derisi mentre si trovava all’Ufficio: il pensiero che altri avrebbero potuto fare lo stesso era qualcosa che non affrontava nemmeno, troppo stupido e insignificante per doversene preoccupare. La realtà sarebbe poi arrivata a correggere le sue prospettive, come la realtà spesso ha la tendenza a fare con chiunque, ma per adesso il proseguimento delle ricerche e il riconoscimento pubblico dei risultati ottenuti era tutto ciò a cui Bogdan pensava, tutto ciò che desiderava.
Il futuro gli avrebbe concesso spazio per soltanto uno dei due, ma ancora non lo sapeva e forse era meglio così. Decisamente era meglio così.