Storie di fanciulle cigno nei Fudoki
Il motivo delle fanciulle cigno è un tema ricorrente nel folklore giapponese ed è antico quasi quanto la scrittura, dato che le prime testimonianze scritte di questo tipo di storia risalgono all’ottavo secolo, stesso periodo a cui risalgono anche i primi documenti scritti che siano arrivati fino a noi. Come sia giunto in Giappone è un altro paio di maniche e sono possibili almeno due ipotesi, che non si escludono a vicenda: una ipotesi settentrionale e una meridionale, per così dire. Vi accennerò in breve, perché una trattazione dettagliata andrebbe ben oltre le mie intenzioni e mi terrebbe occupato troppo a lungo. Prima di tutto, però, due parole su cosa sia il motivo della fanciulla cigno.
Ci sono cigni che si posano sul bordo di uno specchio d’acqua. Può essere un mare, un fiume, un lago: è irrilevante. Dopo essersi posati a terra, si tolgono la pelle, che si trasforma in una veste coperta di piume bianche, e l’appendono a un ramo, l’appoggiano sulle pietre, quello che trovano a portata di mano. Scopriamo così che sotto la pelle di cigno si nascondevano ragazze bellissime. Queste ragazze fanno il bagno, poi indossano di nuovo la pelle di cigno, assumendo così la forma di uccelli, e se ne volano via, tornando da dove erano venute.
Un giorno, un uomo sorprende le ragazze mentre stanno facendo il bagno. Nota la loro bellezza, nota le vesti che hanno lasciato a riva, fa due più due e decide di rubarne una, nascondendola. Tutte le ragazze, finito il bagno, si rivestono e volano via sotto forma di cigno. Resta a terra soltanto una di loro, la ragazza a cui è stata rubata la veste. L’uomo esce allo scoperto, c’è una discussione e alla fine, in un modo o nell’altro, la ragazza deve accettare di diventare sua moglie, di solito molto controvoglia. Vivono assieme per vari anni, hanno figli e tutto procede bene, fino a che un giorno la donna non riesce a ritrovare la sua veste, per un qualche motivo. La indossa subito e se ne vola via in cielo, a mai più rivederci. A volte si preoccupa ancora dei figli, per un poco, e a volte no.
Questa è la storia di base, con numerose varianti. Edwin Sidney Hartland vi dedicò due capitoli interi del suo The science of fairy tales, ossia il decimo e l’undicesimo: se volete approfondire il discorso, potete partire anche da lì, ma ogni altro testo va bene allo stesso modo. Nel suo studio sulle fiabe giapponesi, Yanagita Kunio classificò questo motivo sotto il titolo di “Tennin Nyōbō”, ossia la sposa dal mondo celeste, elencandone numerosi esempi tratti da svariate parti del Giappone. In alcune storie, dopo la fuga della moglie troviamo anche un’appendice, in cui il marito cerca di salire a propria volta in cielo per raggiungerla. In questi casi, dovrà superare un qualche tipo di prova: a volte ci riesce da solo, altre volte viene soccorso dopo il fallimento e abbiamo ugualmente un lieto fine, a modo suo. Sia come sia, è un tipo di storia che appartiene a pieno titolo al folklore giapponese, in qualunque modo ci sia giunta. Appartiene anche al più ampio motivo della sposa magica, di cui il suddetto Yanagita Kunio fornisce parecchi esempi, suddivisi per categorie. Non ne parleremo qui, perché ci interessa soltanto il caso della Tennin Nyōbō, la fanciulla cigno.
Oltre al Giappone, la fanciulla cigno è una figura che compare in buona parte dell’Eurasia, specie nella parte settentrionale. Ne abbiamo esempi scandinavi nell’Edda poetica, la troviamo in Germania e nelle isole britanniche, la troviamo in numerose fiabe e leggende sparse su tutto il territorio della Russia e non ci sarebbe nulla di strano se da lì fosse arrivata anche in Giappone, proseguendo nel suo viaggio verso est. La presenza di storie di questo tipo tra gli ainu di Sachalin, una delle quali registrata nel 1908 dal polacco Piłsudsky1, potrebbe essere considerata un indizio a favore di questa ipotesi, volendo. Da Sachalin alle isole dell’arcipelago giapponese, poi, il passo sarebbe molto breve.
Storie di fanciulle cigno esistono però anche sul versante meridionale dell’Eurasia: le donne non sono sempre cigni, ma la trama rimane la stessa. Ne troviamo esempi nelle Mille e una notte, poi un accenno piuttosto brutale nel Libro di Dede Korkut dei turcomanni, con una peri2 nel ruolo di vittima, mentre in India sono le apsaras a rivestire di solito il ruolo di fanciulla che può volare nel cielo grazie a una veste magica, non necessariamente trasformandosi in animale. Che queste figure indiane siano arrivate in Giappone assieme al buddhismo, come è accaduto ad altri elementi di folklore indiano che a volte comparivano nelle storie buddhiste, è più che ragionevole.
Le fanciulle celesti delle storie giapponesi si trasformano spesso in cigno o in altro animale alato, ma non sempre e non necessariamente. A volte la veste è sufficiente a farle volare, senza tramutarle in uccelli di qualche tipo. La versione più antica è probabilmente quella in cui la veste era una pelle di cigno vera e propria, perché l’idea che gli animali siano esseri umani travestiti ricorre nelle storie di molte popolazioni considerate primitive. Diversi racconti registrati tra le tribù nordamericane ci descrivono come Corvo potesse presentarsi in forma umana quando alzava la sua maschera, mentre aveva l’aspetto di corvo quando la maschera era abbassata. Nel folklore ainu, il corpo di animale era il travestimento (o armatura, hayokpe) che un kamui indossava per interagire con gli umani nel loro mondo; nel suo mondo, il kamui aveva l’aspetto di una persona. Questo a titolo di esempio.
Si potrebbe continuare a lungo, ripescando anche le pitture rupestri dell’Europa paleolitica, dove comparivano figure a metà tra l’umano e l’animale, forse uomini mascherati da bestie, ma non è necessario, così come non è necessario dilungarsi sul versipellis romano raccontato anche da Petronio nel Satyricon, capace di cambiare forma tra umano e lupo rovesciando la pelle3 che indossava. Il punto è che l’idea di una veste o di una maschera, che permette di assumere l’aspetto di animale o di umano, è un motivo ricorrente in tutto il mondo: le fanciulle cigno ne sono solo un caso particolare, non certo qualcosa di unico o speciale.
Volendo, si potrebbe ricostruire una cronologia di questo tipo. In una prima fase, le fanciulle cigno erano animali veri e propri, che assumevano aspetto umano togliendosi la pelle che li rivestiva: animali e umani non sono ancora nettamente differenziati, almeno nelle storie. In una seconda fase, abbiamo esseri umani che possono trasformarsi in animale indossandone la pelle, alla maniera degli sciamani in numerose tradizioni. In una terza fase, la trasformazione si perde e resta solo la veste magica, che conferisce poteri speciali a chi la indossa. Questa non vuole certo essere una ricostruzione accurata, ma solo una piccola proposta di come si potrebbe essere sviluppato nel corso del tempo il motivo della fanciulla cigno, dato che a volte la veste permette di trasformarsi in animale e a volte serve solo a volare in cielo, anche rimanendo in forma umana. Forse l’idea si è modificata seguendo fasi di questo tipo o forse no. Sia come sia, abbiamo fanciulle cigno che rientrano in tutte e tre le fasi proposte e questo è il solo aspetto rilevante.
Non che le fanciulle in questione debbano per forza essere cigni. Troviamo storie in cui il loro aspetto animale è quello di oche selvatiche, oppure di anatre o altro ancora: il cigno è solo la forma più elegante sul piano estetico4. Una cosa da sottolineare, però, è che in genere si tratta di un uccello acquatico, o almeno dai piedi palmati5. Oche, anatre e cigni sono animali che hanno un grande valore mitologico, dopotutto: almeno uno di essi è un attore ricorrente in una forma del mitologema cosmogonico del pescatore primordiale, per esempio, quella dove nel ruolo di pescatore si alternano diversi uccelli acquatici, e un accoppiamento forzato tra un’oca e un cigno è alla base di nascite speciali, come quella di Elena nei Kypria6, i canti che fungevano da prologo ai poemi omerici. In greco antico esiste anche una curiosa somiglianza tra le parole pēnelops (anitra), Pēnelopeia (forma omerica di Penelope, moglie di Odisseo), pēnē (filo, ma al plurale è “tela”) e pēnitis (tessitrice, che era anche epiteto di Atena): con molta creatività, vi si potrebbe costruire una storia. In Giappone c’è chi lo ha fatto, da un certo punto di vista.
Oltre al cigno, nel folklore giapponese esiste infatti un buon numero di storie in cui la sposa magica è un animale di altro tipo, che assume forma umana per una qualunque ragione, a seconda dei casi: a volte per riconoscenza, a volte per questioni di solitudine, oppure per nessuna ragione specificata. Molte di queste spose magiche hanno caratteristiche in comune con le fanciulle cigno, soprattutto nello svolgimento delle loro storie. Se il matrimonio con un essere umano non è forzato, come invece accade di solito alle fanciulle cigno, queste spose soprannaturali portano comunque abbondanza o benessere alla casa in cui entrano, come accade spesso anche per le fanciulle cigno; sempre come le fanciulle cigno, anche la loro presenza è legata a una clausola particolare: una volta violata la clausola, le spose magiche se ne andranno.
Abbiamo così cicogne, anatre, oche e altri uccelli, che si trasformano in donne e sposano l’uomo che le aveva aiutate, per ringraziarlo; usano le proprie piume per tessere abiti speciali, ordinando al marito di non spiarle mentre lavorano; un giorno il marito le spia e loro se ne vanno. Abbiamo poi storie di molluschi e pesci, che si trasformano in donne e sposano un uomo che viveva da solo; la moglie magica cucina per lui cibi deliziosi, ordinandogli di non spiarla mentre lavora; un giorno l’uomo la spia, scopre che il cibo è delizioso perché la donna lo insaporisce immergendosi nel brodo e ne rimane disgustato; la donna se ne va7. Si potrebbe continuare, perché le varianti non mancano, ma non sono rilevanti per il nostro discorso: le ho menzionate solo a titolo di esempio, per evidenziare come il motivo della fanciulla cigno, in Giappone, rientri in un più vasto motivo della sposa magica. Non che accada solo in Giappone, ovvio.
Dopo questa breve introduzione, però, possiamo anche passare a vedere le storie vere e proprie. Sono quattro e provengono dai Fudoki di diverse regioni dell’antico Giappone. Sono tutti stati redatti nella prima metà dell’ottavo secolo, anche se non conosciamo la data precisa: nel 713 la corte imperiale aveva dato ordine di compilare questi Fudoki, ossia una presentazione generale delle province. Contengono dettagli amministrativi, liste di prodotti locali, vie di comunicazione, risorse e così via, ma soprattutto l’origine dei nomi di villaggi, monti e altro. Per raccontare l’origine dei nomi, quasi tutte le province sono ricorse a leggende, storie e a volte miti veri e propri, che costituiscono la parte più interessante dei Fudoki, almeno per me. Sappiamo che lo Izumo fudoki, unico a essere sopravvissuto intero, è stato completato nel 733, perché la data è indicata nel testo, siglato dal governatore; sugli altri possiamo solo formulare ipotesi. Ci troviamo comunque nei primi decenni dell’ottavo secolo: tutti dopo il Kojiki (712), forse alcuni prima del Nihonshoki (720).
Procediamo adesso coi racconti, tradotti e commentati da me.
Suruga fudoki
Secondo il Fudoki, i vecchi raccontavano una storia. C’era una volta una donna divina. Quando scendeva dal cielo, appendeva la veste di piume al ramo di un pino. Un pescatore la scoprì e la guardò. La leggerezza e la morbidezza di questo oggetto erano qualcosa di indescrivibile. Era il cosiddetto abito da sei shu8, qualcosa uscito dal telaio della tessitrice celeste9? La donna divina lo chiese indietro. Il pescatore si rifiutò. La donna divina si domandava come sarebbe potuta tornare in cielo, senza la veste di piume. Alla fine, si sposò qui con il pescatore. Era stato comunque per cause di forza maggiore. In seguito, un giorno la donna trovò la veste di piume e se ne tornò subito tra le nubi. Dicono che anche quel pescatore sia poi salito al cielo sulle sue tracce.
Apriamo con un frammento del Suruga10 fudoki, sopravvissuto come citazione all’interno di un altro testo11. Scabro ed essenziale, ci racconta comunque una storia di fanciulla cigno, con tanto di allusione a un finale esteso, in cui anche il marito umano trova un modo per raggiungere la moglie fuggita. Invece del solito gruppo di fanciulle, tra cui l’uomo di turno sceglierà la più giovane e più bella come propria preda, qui abbiamo una singola fanciulla fin dall’inizio. Piccolo dettaglio, che non modifica sensibilmente la storia. La ragazza è chiamata “donna divina” (神女), non si parla esplicitamente di una trasformazione in cigno, uccello o altro animale, ma la veste è chiamata hagoromo (羽衣), ossia veste (衣) di piume (羽): trasformata o meno, è grazie a questa che può viaggiare tra il cielo e la terra.
Lo svolgimento è canonico, salvo per qualche dettaglio. È perfettamente normale che l’uomo rubi la veste magica alla ragazza; è normale che a distanza di anni la ragazza (ormai donna) la riesca a ritrovare, per puro caso o per altra ragione; è altrettanto normale che poi fugga in cielo subito dopo averla ritrovata, senza un saluto. A essere strano è che l’uomo non ottenga nulla da questo matrimonio soprannaturale, a parte la moglie. Di norma, la moglie magica porta ricchezza o abbondanza nella casa in cui va a vivere. Anche quando non porta ricchezza, porta almeno uno o più figli. Qui non avviene. Una parte di storia si è persa? Oppure era del tutto irrilevante ed è stata tagliata durante la compilazione del Fudoki? Sembra strano che sia così scarna.
Se consideriamo anche la lapidaria chiosa finale, con l’accenno al marito che riesce a raggiungerla in cielo dietro a un laconico “dicono”, l’impressione è che una parte di storia si sia effettivamente persa: nei dettagli, se non nella trama generale. Il ricongiungimento coniugale in cielo non è raro nelle storie etichettate come “Tennin Nyōbō”: se non abbiamo voglia di spulciare raccolte di fiabe12 giapponesi, Yanagita Kunio ci fornisce un elenco di trame nel suo Nihon mukashibanashi meii, ridotte all’osso ma pur sempre indicative della tendenza generale. Ci mostra anche che un certo numero di queste storie tende a convergere in una variante della leggenda astronomica connessa alla celebre festa di Tanabata.
In una fiaba, il marito dovrà fabbricare mille paia di sandali di paglia e usarli per arrampicarsi fino in cielo dalla moglie fuggita. In altre, troviamo un qualche tipo di vegetale, su cui l’uomo si dovrà arrampicare per arrivare in cielo dalla moglie. In alcune storie, poi, l’uomo dovrà anche sottoposti a prove imposte dai suoceri celesti, prima di essere accettato come marito ufficiale della donna. Sia come sia, nel panorama giapponese c’è tutta una parte di fiaba che si sviluppa soltanto dopo che la fanciulla cigno ha ritrovato la veste di piume ed è tornata in cielo, introducendo difficoltà extra per l’uomo che la vuole raggiungere. Niente di tutto ciò accade nella breve storia presentata in questo Fudoki: abbiamo sì un riferimento vago al fatto che l’uomo raggiungerà la moglie in cielo, ma non ci è spiegato alcunché su come avverrà. Lo possiamo ipotizzare sulla base di storie affini, ma una ipotesi è il massimo che possiamo produrre.
La storia di Tanabata è un altro paio di maniche. Prima di tutto, Tanabata è il nome di una festa che si celebra tuttora ogni anno in Giappone, il sette di luglio: da qui i caratteri con cui il suo nome è scritto oggi, ossia 七夕, settima (七) sera (夕). Secondo la leggenda relativa, quello è l’unico giorno in cui due innamorati, la tessitrice Orihime e il bovaro Hikoboshi, si possono incontrare: per tutto il resto dell’anno, invece, sono separati da un fiume. Posto che i due personaggi sono la stella Vega e la stella Altair e che il fiume è la Via Lattea, l’origine astronomica della storia è piuttosto chiara e non è il caso di discuterne qui. La leggenda di Tanabata è stata introdotta ufficialmente in Giappone nel corso del periodo Nara (710-794), ossia nello stesso secolo in cui furono redatti i Fudoki. La sua origine è cinese e all’inizio era presa in considerazione soprattutto alla corte imperiale: soltanto dal periodo Edo (1603-1867) è diventata la festa popolare conosciuta anche oggi.
Un riferimento diretto a Tanabata lo troviamo già nel frammento del Fudoki tradotto qui sopra. Come ho evidenziato anche nella nota relativa, tanabata era prima di tutto il nome di un tipo di telaio. Qualunque donna lavorasse al telaio, nell’antico Giappone poteva essere chiamata orihime, ossia “donna che tesse”. Se si voleva sottolineare il tipo di telaio usato, la si poteva anche chiamare tanabatatsume, ossia “donna del telaio”, dove il telaio è ovviamente quello di tipo tanabata. Fin dall’antichità esistevano vari tabù relativi alla tessitura e all’uso del telaio, ma questo è un altro discorso e non lo affronterò in questa sede: chi è interessato può partire dall’articolo “A Striking Tale of Weaving Taboos and Divine Retribution - A Reinterpretation of the Asauchiyama Myth in Harima Fudoki” di Edwina Palmer13, sempre per rimanere in tema di Fudoki.
Nella storia presentata nel Suruga fudoki, la fanciulla celeste non è una tessitrice: il riferimento alla tessitura è dovuto solo alle caratteristiche speciali della sua veste, che sembra “uscita dal telaio della tessitrice celeste”. In diverse fiabe giapponesi che appartengono alla stessa categoria di questa storia, però, un legame diretto tra la fanciulla cigno di turno e la tessitrice celeste è stabilito, per un motivo o per l’altro. In una fiaba registrata a Kagawa, è la fanciulla stessa a dichiarare di chiamarsi Tanabata, appena prima di volare in cielo. Nel successivo sviluppo della storia, dopo che il marito l’avrà raggiunta nel mondo celeste, la violazione di un tabù li separerà nuovamente: da allora si potranno vedere soltanto una volta all’anno. La fiaba scivola così nella leggenda di Tanabata, nonostante all’inizio fosse una storia di fanciulle cigno. Alcune fiabe di Kagoshima si spingono ancora più in là, trasformando la storia della fanciulla cigno in un racconto sulle origini della Via Lattea, che nella leggenda di Tanabata è l’ostacolo che separa i due innamorati.
Cosa ci dice tutto questo? Da un lato, abbiamo un ottimo esempio di come vivono le storie e di come si possono combinare, sulla base di somiglianze anche marginali. L’origine celeste della protagonista, il suo abito soprannaturale e forse anche la separazione dal marito, nell’immaginario giapponese, hanno interagito tra loro e si sono fusi strada facendo con la leggenda di una tessitrice che viveva in cielo e che era separata dal suo innamorato. A volte succede perché una parte della storia di partenza è stata dimenticata, si è persa per strada o altro ancora: per completarla, la si integra con una storia simile a sufficienza. È accaduto in questo caso specifico?
Possibile. Il fatto che si parli di hagoromo, cioè “veste di piume”, ma non della trasformazione in cigno, potrebbe indicare una qualche lacuna nella tradizione orale. L’uomo che trova la veste ne nota la leggerezza e la paragona subito agli abiti tessuti da una “tanabatatsume”, introducendo così l’elemento della tessitrice celeste. Nelle altre storie della fanciulla cigno raccontate nei Fudoki, come possiamo vedere, questo non accade. Forse i narratori sapevano che l’abito era magico, ma non perché fosse magico, confondendo forse una veste coperta di piume con una veste leggera come una piuma: per spiegarlo, ne hanno attribuito l’origine a una tessitrice divina. O forse non è andata così; sono ipotesi, ma mi pare che il collegamento tra Tanabata e la fanciulla cigno, che troviamo in nuce in questa storia e sviluppato in dettaglio in altre fiabe giapponesi di epoca successiva, sia proprio da individuare nella natura soprannaturale della veste.
Stiamo parlando di una tessitrice che viveva in cielo, dopotutto, e a cui era assegnato il compito di tessere i vestiti per gli abitanti del cielo14. La veste di piume potrebbe essere qui stata colta nella sua fase di transizione: da pelle di cigno, che trasforma in animale, ad abito celeste, dotato della facoltà di far volare, non necessariamente trasformando la persona che lo indossa. Se in origine la veste era la pelle di un animale, qui la vediamo diventare a poco a poco un abito vero e proprio, reso speciale dalla sua provenienza celeste. O così sembrerebbe, quantomeno. Vedremo che in storie dello stesso periodo, ma raccontate in altre zone del Giappone, la veste serve ancora a trasformare chi la indossa e non si fa cenno a tessitrici divine. Considerato però che non due storie sono esattamente uguali, specie sotto questo aspetto, il motivo della fanciulla cigno sembra avere cominciato a differenziarsi in Giappone già nell’ottavo secolo o più probabilmente ancora prima.
Dobbiamo forse considerarlo un indizio a favore di una doppia origine della storia? Possibile, ma non necessario. Di certo, la trasformazione in cigno è un motivo tipico della storia tramandata nei paesi settentrionali, mentre la fanciulla che vola grazie a una veste divina sembra essere più legato all’India e alla figura dell’apsaras, proveniente dalla sua mitologia, ma ci stiamo comunque muovendo nel campo delle ipotesi, per cui è meglio usare il condizionale. Vedremo strada facendo.
Hitachi fudoki
Trenta ri15 a nord della sede del distretto si trova il villaggio di Shirotori. Raccontano i vecchi che ai tempi dell’imperatore Ikume16 c’erano uccelli bianchi17. Arrivavano scendendo in volo dal cielo, si trasformavano in fanciulle, di sera ritornavano in cielo e il mattino dopo scendevano di nuovo. Raccogliendo pietre, costruivano un laghetto. Cercando di costruire i suoi argini, continuarono invano per giorni e mesi. Ciò che costruivano, crollava, e non si riusciva a terminare il lavoro.
«Dei bianchi uccelli / le ali gli argini / erigono, eppure / nel tempo di un bagno / svaniscono [...] e crollano18.»
Le fanciulle risalirono in cielo, cantando in coro in questo modo, e da allora non sono più tornate. Per questa ragione, quel luogo è stato chiamato villaggio di Shirotori.
Il Fudoki della provincia di Hitachi è uno dei quattro che ci sono giunti in forma parziale. Le storie che contiene sono spesso collegate alla figura di Yamato Takeru o ad altri personaggi della corte imperiale, ma troviamo anche un discreto numero di aneddoti più o meno lunghi di argomento mitologico o almeno folklorico. Uno di questi è il breve inserto sulle fanciulle cigno, che ho tradotto qui sopra. È una storiella un po’ così, senza spiegazioni e senza un finale vero e proprio. Nonostante questo, e in parte anche per questo, è piuttosto interessante.
Prima di tutto, le fanciulle cigno. Sono uccelli bianchi, scendono in volo dal cielo ogni mattina, si trasformano in fanciulle e alla sera ritornano in cielo, presumibilmente di nuovo sotto forma di uccelli, anche se il testo non lo dichiara esplicitamente. Tutto quanto si ripete ogni giorno. Come aggiunta, lavorano pure alla costruzione di un laghetto. Abbiamo materiale più che sufficiente per etichettarle come fanciulle cigno, tanto più che col termine “uccelli bianchi” sono indicati proprio i cigni, almeno in giapponese moderno: sono 白鳥, parola che può essere letta sia shiratori (forma più antica), sia hakuchō (forma moderna). Non si fa menzione di vesti, che sono lo strumento usato di solito per cambiare aspetto, ma in fondo le vesti non hanno alcuna rilevanza all’interno della storia, perché nessuno cerca di rubarle, per cui è più che comprensibile se il dettaglio è stato omesso.
La cosa rilevante, per il nostro discorso sul motivo della fanciulla cigno, è la trasformazione. Sono descritte sia in forma di uccello, sia in forma umana. Sono capaci di passare a volontà da una forma all’altra. Sono donne: il termine giapponese usato per indicarle è wotome, forma femminile di wotoko, che non lascia molti dubbi19. Erano donne ed erano giovani, perché sia wotome che wotoko indicavano persone appena giunte all’età da matrimonio, almeno all’epoca in cui furono redatti i Fudoki. Fin qui, tutto a posto. La storia si fa più curiosa quando si giunge al motivo della loro discesa quotidiana dal cielo. Non per un bagno o abluzioni di un qualche tipo, come avviene di solito, ma per un lavoro manuale. Connesso all’acqua, d’accordo, ma non il genere di lavoro che è normale associare a fanciulle celesti, cigni o meno che siano.
Il motivo per cui scendono dal cielo è infatti la costruzione degli argini di un laghetto. Curioso. Attività da muratore non compaiono di solito nelle storie delle fanciulle cigno. Quando compaiono donne in storie che raccontano la costruzione di qualcosa, in genere le cose si mettono molto male per loro. Perché allora cercano di costruire questo laghetto? Il testo non ce lo spiega ed è un vero peccato. Non ci spiega neppure perché gli argini crollino di continuo, ma questo è un elemento più comprensibile e ci proietta verso un altro motivo ricorrente nel folklore di mezzo mondo, Giappone incluso: la costruzione che crolla ogni notte e deve sempre essere ricominciata da capo20. Proprio il genere di storia in cui le donne che compaiono rischiano di lasciarci le penne.
È un motivo che probabilmente piacerebbe agli appassionati osservatori di cantieri. Ci sono persone che stanno costruendo qualcosa: può essere un ponte, una torre, un castello o altro ancora, a seconda dei casi. Di giorno il lavoro procede, ma di notte tutto quanto crolla e il mattino seguente bisogna ricominciare da capo. Lo sviluppo più tipico per storie di questo genere è la necessità di un sacrificio umano, per dare stabilità alla costruzione e farla restare in piedi. La persona che sarà sacrificata è spesso, ma non necessariamente, una donna, spesso moglie o figlia di qualcuno coinvolto nei lavori. In terra giapponese, questo ci conduce di solito allo hitobashira21, ossia al sacrificio rituale di un uomo o una donna, che diventerà le fondamenta della costruzione.
L’idea di base è che ogni nuova creazione, edifici inclusi, ha bisogno di un’anima per poter stare in piedi: sacrificando una persona, si trasferisce la sua anima in quella costruzione22. Sarebbe a modo suo una forma molto specifica e su piccola scala del sacrificio del macrantropo primordiale, alla base del mito cosmogonico di diversi popoli. Per creare un mondo, si uccide un gigante e si usa il suo corpo come materia prima; per costruire un edificio, si uccide una persona e si usa il suo corpo come fondamenta della costruzione, mentre la sua essenza vitale andrà a permeare l’edificio, rendendolo vivo. Questo detto in modo molto sintetico, sia chiaro. Che scene simili compaiano nei miti e nel folklore di molti popoli è innegabile. Che la stessa cosa sia accaduta anche nella realtà, però, è un discorso più complesso e meno concorde: non lo approfondirò in questa sede, perché ci porterebbe troppo lontano dalle fanciulle cigno. Ci basta sapere che sacrifici simili potrebbero essere avvenuti davvero, almeno in alcuni dei luoghi in cui si raccontano le storie relative.
Sia come sia, storie di questo tipo sono diffuse ovunque e ne troviamo un esempio molto famoso nell’infanzia di Merlino, il celebre mago della corte di re Artù. Secondo la versione contenuta nella Historia regum Britanniæ, il re Vortigern, sovrano illegittimo di Britannia, voleva costruire una fortezza inespugnabile per difendersi dai sassoni, ma ogni notte il lavoro dei muratori era inghiottito dalla terra. Maghi assortiti gli dissero che era necessario il sangue di un bambino nato senza padre per solidificare la costruzione. Varie ricerche condussero a un bambino, che sarebbe nato dalla relazione tra una donna umana e un incubus23: è il piccolo Merlino. Vortigern lo avrebbe voluto sacrificare, ma la vittima non era d’accordo, comprensibilmente, e spiegò invece come risolvere il problema senza spargimento di sangue (il suo). Si scoprirà così che il palazzo crollava perché lo stavano costruendo sopra uno stagno dove si celavano due dragoni, uno rosso e uno bianco: prosciugato lo stagno e trovati i due draghi, il problema sarà risolto.
Nell’episodio dello Hitachi fudoki che abbiamo preso in esame, le fanciulle cigno scendono dal cielo per costruire gli argini di un laghetto. Perché? Non lo sappiamo. Gli argini crollano di continuo. Perché? Non lo sappiamo. Le fanciulle si stancano e se ne vanno via. Questo almeno è comprensibile, anche se sarebbe stato più interessante se avessero cercato una soluzione. Dato che non lo hanno fatto, la storia rimane abbandonata a se stessa: è un episodio che serve a spiegare il nome di un luogo, ma resta a propria volta senza spiegazione. Succedono cose e succedono perché sì: così è la vita. Che siano state scelte le fanciulle cigno ha un suo senso, visto il nome del luogo, ma rimane inspiegato tutto il resto dell’aneddoto. Possiamo ipotizzare che un tempo sia esistita una versione estesa della storia, con risposte agli interrogativi che qui rimangono aperti, ma è appunto una ipotesi, nulla di più.
Il fatto che nella prima metà dell’ottavo secolo questa storia fosse già considerata “qualcosa che i vecchi raccontavano”, però, ci dice almeno che la presenza di fanciulle cigno nel folklore di questo angolo di Giappone non è recente, ma precede l’arrivo della scrittura. Non ci dice granché su come sia arrivato in Giappone, ma questo è un altro discorso e probabilmente non avremo mai una risposta definitiva. Considerata però la posizione della provincia di Hitachi, se la storia è abbastanza vecchia, è possibile che sia da collegarsi alla ipotesi settentrionale, ossia una provenienza dalla Russia e dintorni, piuttosto che dall’India. Sono solo ipotesi, in ogni caso, da prendersi per quello che sono.
Ōmi fudoki
La piccola baia di Ikago.I vecchi raccontano una storia. Distretto di Ikago, provincia di Ōmi. Villaggio di Yogo. Piccola baia di Ikago. Si trova a sud del villaggio. Otto fanciulle celesti si trasformavano assieme in cigni, scendevano dal cielo e compivano le proprie abluzioni nell’ansa meridionale della baia. Un giorno Ikatomi, che si trovava sulla montagna occidentale, vide da lontano i cigni. Quelle sagome lo insospettirono. Si domandava se quelle non potessero forse essere delle persone divine. Si avvicinò per controllare. Erano davvero persone divine. Ikatomi, in un attimo, si infiammò di una profonda passione e non riusciva più ad andarsene da lì. Di nascosto mandò il suo cane bianco e questi rubò le vesti celesti. Riuscì a nascondere la veste della sorella minore24. Le fanciulle celesti se ne accorsero a breve. Quelle sette sorelle maggiori se ne tornarono volando in cielo. Quella singola sorella minore non poteva alzarsi in volo. L’accesso alle vie celesti le sarebbe stato precluso a lungo. Era diventata insomma una persona terrestre. La baia dove nuotavano le fanciulle celesti è quella oggi chiamata Kami no Ura25. Ikatomi si sposò con la fanciulla celeste e vissero lì. In seguito, ebbero sia figli che figlie. Ebbero due figli e due figlie. Il nome del fratello maggiore era Omishiru, il nome del fratello minore era Nashitomi, il nome della prima femmina era Izerihime, mentre il nome della seconda era Nazerihime e questi divennero gli antenati dei capi villaggio di Ikago. Alla fine, in breve, la madre ritrovò la propria veste di piume celeste26, la indossò e risalì in cielo. Ikatomi rimase da solo, con un letto vuoto. Tirò avanti con tristezza.
In questo frammento dello Ōmi fudoki, sopravvissuto come citazione all’interno di un’altra opera27, troviamo una storia canonica di fanciulle cigno. Abbiamo praticamente tutti gli elementi di base, che sono necessari per questo tipo di narrazione: il gruppo di fanciulle, la trasformazione in cigno, la discesa dal cielo, il bagno, la veste rubata, il matrimonio forzato, il ritrovamento della veste dopo un certo numero di anni e di figli, il ritorno in cielo della donna. Il narratore ne ha approfittato per ricavarne anche una leggenda genealogica, attribuendo un’antenata soprannaturale alle famiglie dei capi villaggio della zona, ma in questo non c’è alcunché di strano e se ne vedono di peggiori.
Un primo dettaglio interessante è che Ikatomi, l’uomo che ruberà la veste di piume, riconosce subito i cigni come possibili “persone divine”, che in questo caso è scritto come 神人, composto da divinità (神) e persona (人). Dobbiamo considerarlo un segno che i cigni avevano fama di essere una delle forme che persone di origine celeste potevano assumere, scendendo sulla terra? Possibile, ma non necessario. È comunque un indizio che la storia delle fanciulle cigno era già nota a sufficienza in quella regione, al punto da rendere plausibile agli ascoltatori di questo racconto una immediata identificazione dei cigni come possibili persone celesti.
Un secondo dettaglio interessante è il modo in cui Ikatomi ruba una veste di piume. Non ci va di persona, ma manda il cane. Nello specifico, un cane bianco. Perché si è avvertito il bisogno di specificare il colore del cane? Sembrerebbe un dettaglio irrilevante, ma Lévi-Strauss ci sgriderebbe, perché a suo parere i miti non contenevano alcun dettaglio irrilevante o superfluo. Se qualcosa era stato conservato in un mito, allora aveva importanza. Questo il suo parere, quantomeno. Sia come sia, se usare un cane per farsi portare un oggetto è comprensibile, specie se è un cane da caccia, magari da riporto, rimane il dettaglio del colore a lasciare qualche perplessità. Perché bianco?
Il bianco è un colore che ha un significato particolare in Giappone. È il colore della morte, come lo era anche nell’Europa antica, preindoeuropea: il colore delle ossa scarnificate, secondo un rituale di doppia sepoltura che era comune anche nel Giappone preistorico, a quanto ci dicono ritrovamenti archeologici risalenti al periodo Jōmon, e che almeno in una qualche forma sembra essersi protratto fino al primo periodo dell’impero Yamato. I morti sono tuttora vestiti di bianco e ricevere in regalo un abito bianco potrebbe non essere considerato molto simpatico da un giapponese, specie se è superstizioso e magari pure anziano. Un uccello bianco si era alzato in volo alla morte di Yamato Takeru, presumibilmente la sua anima che volava verso l’aldilà, seguendo una idea raffigurata anche nelle immagini trovate all’interno di alcuni tumuli del periodo Kofun.
Un legame tra uccelli, funerali e anima esisteva di sicuro nell’antichità, almeno da prima che fosse introdotta la scrittura. Detto dei tumuli del periodo Kofun, dove un uccello in barca rappresentava il viaggio dell’anima o almeno del morto verso l’aldilà, nel Kojiki e nel Nihonshoki troviamo anche svariati uccelli che accompagnano la veglia funebre di Ame[no]wakahiko: nel Nihonshoki sono oche, a volte assieme a passeri e martin pescatori, mentre per il Kojiki sono anatra, airone, martin pescatore, passero e fagiano. Le fanciulle cigno, di colore bianco, potrebbero inserirsi in questo discorso? Non è da escludere e sarebbe in linea con ipotesi già formulate relativamente alle storie raccontate da altri popoli, sempre riguardo alle fanciulle cigno. Gli uccelli in generale sono intermediari tra cielo e terra già in epoca preistorica, apparentemente, e non è difficile capire perché una idea simile si sia sviluppata, dato che i volatili vivono sospesi tra cielo e terra.
Oltre che alla morte, il bianco è anche un colore connesso ai kami. Il già citato Yamato Takeru, nel corso dei suoi viaggi, incontrò anche un cinghiale bianco28 su una montagna: questo animale era un kami, una divinità del luogo, come scoprirà in seguito. Kami e morti non sono però così lontani tra loro, così come non sono lontani tra loro i kamui e i morti per gli ainu: appartengono tutti al mondo invisibile, a una dimensione che si trova accanto a quella umana, ma separata da essa. Quando un kamui si innamora di un essere umano, cercherà di farlo morire per poterlo portare con sé nel paese dei kamui. Storie simili si possono trovare anche tra i giapponesi, dove le persone che attirano su di sé l’attenzione di un kami rischiano spesso di finire male: è il caso ad esempio della principessa sposata dal dio Ōmononushi in un racconto contenuto nel Nihonshoki, morta poco dopo il suo matrimonio (o la sua ierogamia, se preferite).
In epoca antica, come lo è appunto il periodo Nara in cui furono redatti i Fudoki, esistevano varie espressioni che collegavano la morte sia all’ascesa al cielo, sia al diventare un kami: è il caso di kamuagari, ascendere alla “divinità”, per esempio, usato anche come eufemismo per la morte di un aristocratico, oppure ameshirushi, “ritornare in cielo”, sempre in circostanze simili. Se le fanciulle cigno erano considerate connesse alla morte, o almeno a un altro mondo, un cane bianco era forse il più indicato per accostare esseri di questo tipo, proprio in virtù del suo colore. Le stesse fanciulle cigno sono caratterizzate dal colore bianco, dopotutto: che fossero personaggi divini o che avessero legami col mondo dei morti, appartenevano comunque alla sfera in cui anche un cane del medesimo colore si poteva idealmente inserire29.
D’altro canto, che cani di un colore particolare possedessero poteri speciali è una idea che troviamo nel folklore di molti popoli: non è certo una esclusiva detenuta dai giapponesi. La particolarità è che il colore del cane corrisponde a quello delle vesti da rubare, in questo caso specifico, nonché in generale alla tinta delle fanciulle cigno. Che nell’Edda poetica30 le fanciulle cigno siano sovrapposte alle valchirie, ci mostra come queste figure potessero essere immaginate in relazione col mondo dei morti anche in culture lontane migliaia di chilometri tra loro e prive di contatti diretti. Cani e canidi in generale avevano relazioni speciali con l’aldilà presso svariati popoli31, inclusi gli ainu: per loro, ad esempio, soltanto i cani potevano vedere gli spiriti dei morti, quando questi camminavano nel mondo dei vivi32. Nella nostra storia, vedere le fanciulle cigno non è un problema, ma è interessante come l’uomo ricorra proprio al cane (bianco) per stabilire il primo contatto con loro, dopo avere riconosciuto la natura soprannaturale di queste ragazze.
Probabilmente è una pura coincidenza, ma mi pare utile segnalare che nel folklore ainu compariva la figura di Kenas-kor-unarpe, letteralmente “la zia della piana alberata”. Era un uccello simile al gufo, che si posava sui rami di alberi ai piedi delle montagne o sulle colline e da lì, durante la notte, usava la propria voce per attirare e ingannare i ragazzi di passaggio. Uno dei poteri che le erano attribuiti era quello di trasformarsi in un cane bianco. Di fatto, era un uccello dotato di strani poteri magici, che in alcune storie era presentato come Kenas-unarpe33, quando assumeva l’aspetto di una donna bellissima, dai capelli neri e lisci che le arrivavano fino alle anche: in questa forma andava a caccia di un ragazzo da uccidere, per portarlo con sé all’altro mondo, dove sarebbe diventato suo marito o almeno il suo paredro. Curioso trovare anche qui il motivo della donna-uccello e del matrimonio con un umano, abbinato al cane bianco. Kenas-unarpe non era però un cigno: il suo aspetto naturale, una volta uccisa, era quello di un grosso uccello nero. Solo una coincidenza, forse.
Per il resto, c’è poco da dire su questa storia: cane a parte, è il racconto di fanciulle cigno più canonico tra i quattro presenti nei Fudoki, quasi un esempio da manuale. Ci si potrebbe lanciare in confronti con le versioni europee di questo tipo di storia, ma non mi pare che sarebbe poi molto utile. En passant, possiamo dire che esistono anche leggende gallesi di spose magiche in cui la donna soprannaturale proviene dalle acque e se ne torna alle acque dopo che il marito umano ha violato un tabù, lasciando dietro di sé figli che saranno i capostipiti di importanti famiglie: è il caso ad esempio della storia “The Physicians of Myđvai”, con la cui analisi si apre il primo capitolo di Celtic Folklore - Welsh and Manx di John Rhys. I figli della sposa magica nella storia tratta dallo Ōmi fudoki saranno gli antenati dei capi villaggio: forse non una stirpe illustre, ma pur sempre rilevante, almeno in quel piccolo angolo della provincia.
Tango fudoki
Santuario di Nagu.Così si dice nel Fudoki della provincia di Tango. Distretto di Taniwa34 nella provincia di Tango. Nell’angolo a nordovest dal centro del distretto si trova il villaggio di Hiji. Sulla vetta del monte Hiji di questo villaggio si trova una sorgente. Dicono che il suo nome sia sorgente di Mana35. Oggi è ormai diventata un acquitrino. In questa sorgente, otto fanciulle celesti scendevano a compiere le proprie abluzioni. C’erano ai tempi un vecchio e una vecchia. Dicono che i loro nomi fossero il vecchio di Wanasa36 e la vecchia di Wanasa. Questi vecchi salirono alla sorgente e in segreto presero e celarono la veste di una delle fanciulle celesti. Di lì a poco, quelle che avevano la veste risalirono in cielo volando. La ragazza che non aveva la veste, così, rimase indietro da sola e subito nascose il proprio corpo nell’acqua, vergognandosi di essere lì da sola. A quel punto, il vecchio parlò così alla fanciulla celeste: «Io non ho figli. Per favore, fanciulla celeste, perché non diventi tu mia figlia?»
La fanciulla celeste gli rispose così: «Io sono rimasta da sola nel paese degli umani. Per quale motivo dovrei obbedire, nonostante tutto? Restituiscimi la mia veste, per favore!»
Il vecchio le parlò in questo modo: «Fanciulla celeste, perché dovrei avere un cuore ingannevole?»
La fanciulla celeste gli parlò in questo modo: «Un dono di tutti gli abitanti del cielo è di avere una natura fondata sulla sincerità. Perché i cuori ingannevoli sono tanti e non mi restituite la mia veste?»
Il vecchio le rispose parlando in questo modo: «Che i cuori ingannevoli siano tanti e quelli sinceri pochi è la caratteristica del mondo umano. Avendo questo tipo di cuore, dunque, non posso che pensare che è meglio non restituirla.»
Alla fine, però, la restituì e subito dopo la ragazza andò ad abitare con loro e vissero assieme per dieci anni. Qui la fanciulla celeste divenne molto brava a preparare il sake. Se se ne beveva una sola coppa, si guariva da una miriade37 di malattie. L’ammontare del prezzo per questa singola coppa era trasportato ammassandolo su un carretto. Col tempo, la loro casa divenne così ricca, che anche il suo terreno era prospero. Per questo il villaggio fu chiamato Hijikata38. Questo, trasmettendosi dai tempi passati fino a oggi, è in pratica il luogo che chiamiamo Hiji.
Alla fine, i vecchi parlarono in questo modo alla fanciulla celeste: «Tu non sei nostra figlia. Ti abbiamo solo concesso di vivere assieme a noi per questo tempo. Vai subito fuori di qui!»
A questo punto la fanciulla celeste levò lo sguardo verso il cielo e sospirò, chinò lo sguardo al suolo triste, quindi parlò in questo modo ai vecchi: «Io non sono venuta qui di mia spontanea volontà: questo lo avete desiderato voi due. Perché, mostrando un cuore così orribile, all’improvviso mi fate soffrire buttandomi fuori da qui?»
Il vecchio, arrabbiandosi sempre più, ripeteva che se ne doveva andare. La fanciulla celeste, piangendo a dirotto, indietreggiò fino a uscire dalla porta e così disse agli abitanti del villaggio: «Da troppo tempo sono affondata tra gli esseri umani e ormai non posso più tornare in cielo. Adesso non ho più persone care e non conosco un luogo dove stare. Come dovrei fare, io? Come dovrei fare?»
Piangeva asciugandosi le lacrime e rivolta verso il cielo cantò in questo modo: «Quando volgo lo sguardo verso la piana del cielo, la nebbia sale e la strada verso casa non riesco a distinguere: non so proprio dove andare.»
Alla fine si ritirò e andò fino a giungere alla borgata di Arashio. A questo punto, agli abitanti del luogo parlò così: «Pensando al cuore di quel vecchio e della vecchia, il mio cuore non è cosa diversa da una marea impetuosa.» Per questo la borgata di Arashio39 del villaggio di Hiji è chiamata così. Poi arrivò alla borgata di Nakiki del villaggio di Naniha e pianse appoggiandosi a un albero di zelkova. Da questo viene il nome della borgata di Nakiki40. Ancora, arrivò alla borgata di Nagu del villaggio di Funaki, nel distretto di Takano, e qui parlò così agli abitanti del posto: «Arrivata in questo luogo, il mio cuore è diventato calmo. Chiamerò nagushi41 l’essermi calmata dalle cose del passato.» Si fermò così a vivere in questa borgata. Qui divenne poi la divina Toyoukanome42, venerata nel santuario di Nagu nel distretto di Takano.
Questo frammento43 del Tango fudoki, piuttosto lungo rispetto alla media, ci racconta una storia che, nella sua parte finale, è prolungata artificialmente per raccontare l’origine del nome di più posti, con un aggancio molto tenue alla trama di base. Per il resto, è una versione non romantica del motivo della fanciulla cigno, anche se sviluppato in modo diverso rispetto alle storie precedenti. Niente di strano, visto che tutte e quattro le storie sono piuttosto diverse tra loro.
Tanto per cominciare, qui le fanciulle cigno sono definite amatsuwotome, ossia “fanciulle (wotome) del (tsu) cielo (ama)”: niente di particolare fin qui, perché abbiamo già visto che il nome con cui sono indicate cambia parecchio da una storia all’altra. Più rilevante è l’assenza totale di ogni riferimento alla trasformazione in uccelli. La stessa veste non è mai indicata come “veste di piume”, ma solo come kimono44: rimane anche il dubbio se sia davvero la veste a permettere alle fanciulle di volare, oppure se questa sia soltanto un abito, fatto per coprirsi come ogni altro abito.
Anche dopo averla riavuta, anche dopo essere stata maltrattata e cacciata di casa, la fanciulla non tornerà in cielo, pur essendo in possesso della sua veste. Non ci tornerà, perché ormai ha trascorso troppo tempo sulla terra e non può più ritornare in cielo. Così dichiara lei, quantomeno. Il suo impedimento non sembra dunque essere legato alla veste, ma a una qualche contaminazione contratta vivendo tra gli umani, dato che in altre storie di fanciulle cigno la durata del periodo trascorso sulla terra non faceva alcuna differenza: bastava riavere la veste di piume e si poteva subito volare via. Come se non bastasse, la veste le è restituita fin dall’inizio, invece di essere nascosta per anni, eppure la ragazza rimane sulla terra, perché così le chiedono i due vecchi. Questo particolare la rende già piuttosto anomala tra le storie di fanciulle cigno, ma le cose si fanno più interessanti procedendo con la lettura.
La ragazza celeste porta ricchezza e prosperità nella casa in cui è accolta. Questo è perfettamente normale. Una sposa magica, qualunque sia la sua origine, porta benefici alla casa in cui va a vivere, almeno finché ci rimane a vivere. Lo troviamo anche in un motivo gemello della fanciulla cigno, ossia quello che possiamo definire come il motivo della sposa venuta dall’acqua, piuttosto diffusa nel folklore gallese e delle isole britanniche in generale. In queste fiabe, il protagonista conquista una donna soprannaturale, che proviene da un mondo acquatico: un fiume, un lago o quello che è. Venendo a vivere sulla terra, la donna porta con sé una ricca dote. Per diversi anni tutti vivono nell’abbondanza, poi l’uomo infrange il tabù che gli era stato imposto al momento del matrimonio e la donna se ne va, portando con sé tutta la ricchezza. Il marito rimane spiantato45.
Nel caso della fanciulla cigno, la ricchezza portata è più spesso rappresentata dai figli, ma non mancano anche beni materiali, a volte. Nella storia presa in esame, i due vecchi diventeranno ricchi grazie al sake preparato dalla fanciulla cigno, che ha il potere di guarire ogni malattia. Non abbiamo più notizie di loro nell’ultima parte della storia, ma in apparenza sono rimasti ricchi anche dopo avere cacciato la ragazza: questo è piuttosto insolito, perché in genere le ricchezze portate dalla donna magica se ne vanno assieme alla donna magica, ma questo racconto prende una piega diversa. Invece di mostrarci la punizione di chi ha fatto un torto alla donna magica, infatti, la storia ci mostra l’esilio della donna magica stessa, fino a una sorta di lieto fine.
Non potendo più tornare in cielo per una misteriosa contaminazione contratta vivendo sulla terra, che in apparenza l’ha resa troppo “materiale” per volare via di nuovo, la ragazza celeste trova ospitalità in un santuario, di cui diventerà il kami principale. Che una fanciulla celeste diventi un kami terrestre ha un suo senso e storie di amatsugami, ossia divinità celesti, che scendono sulla terra e decidono di rimanerci a vivere come kunitsugami, ossia divinità terrestri, sono raccontate anche nel Kojiki e nel Nihonshoki. Qui non abbiamo una divinità vera e propria, all’inizio, ma comunque è una persona celeste, un’amatsuwotome, e infatti nel santuario sarà venerata come Toyoukanome, dove il me finale significa “donna”: non è un kami, men che meno un ōkami, come lo è la sua quasi omonima Toyouke no Ōkami, che in un altro frammento del Tango fudoki è descritta come la divinità dei cinque cereali, ruolo che effettivamente ricopre anche oggi nel grande santuario di Ise. Chi è allora questa Toyoukanome?
Se guardiamo il nome, la dobbiamo considerare una delle tante dee del cibo che affollavano il panorama mitologico del Giappone antico. La parola uka significava “cibo” nell’ottavo secolo, quando i Fudoki sono stati redatti. In seguito divenne uke, seguendo una mutazione fonetica che vediamo in molte altre parole giapponesi: kaza (vento) diventa kaze, ama (cielo) diventa ame, ina (pianta di riso) diventa ine, ta (mano) diventa te e così via. Che sia uka o uke, la parola significa “cibo” e la troviamo nel nome di divinità che portano e producono il cibo, come Ukemochi uccisa da Tsukuyomi, Uka no Mitama figlia di Susanoo, oppure la già citata Toyouke no Ōkami, grande divinità dell’agricoltura e dei cinque cereali. Fin qui, tutto a posto.
A stonare con questa evoluzione della fanciulla cigno, però, è il fatto che nel corso della storia le sia attribuito un potere diverso. È sì capace di produrre sake, ma si tratta di un sake magico, che cura ogni malattia. Date queste premesse, sarebbe stato più logico aspettarsi una sua evoluzione come divinità della guarigione, piuttosto che del cibo: nella storia non si fa alcun accenno a una sua capacità di portare abbondanza alimentare, ma solo alla sua capacità di guarire malattie attraverso il sake da lei prodotto. La ricchezza proviene dal modo in cui i due vecchi sfruttano questo sake, vendendolo a prezzi da strozzino. Se vogliamo lanciarci in speculazioni ai confini della realtà, però, possiamo prendere in considerazione un altro frammento del Tango fudoki, dove si parla sia di Toyouke no Ōkami, sia della sorgente di Mana (o Manawi, se preferite). Con parecchia creatività, si potrebbe infatti assemblare una storia che giustifichi tutto, volendo.
In quel frammento si spiega l’origine del nome Taniwa, con cui era conosciuta ai tempi la provincia di Tango. La cosa rilevante per noi è che, secondo il racconto, tanto tempo fa, quando Toyouke no Ōkami discese dal cielo sopra la vetta di Izanako, figure indicate come Ame no Michihime46 (più di una, perché il nome è accompagnato dal suffisso per il plurale, 等) consegnarono alla divinità i semi dei cinque cereali e i bachi da seta. Scavarono poi la sorgente di Mana47 su quella vetta, usarono quell’acqua per irrigare i campi e stabilirono così i terreni per le colture a secco e in acqua. Toyouke no Ōkami tornò poi in cielo, contenta del risultato, ma delle varie Ame no Michihime non si parla più. Che siano le “antenate” delle fanciulle celesti, che in seguito scenderanno dal cielo a bagnarsi nella sorgente di Mana? Se sì, e se il loro ruolo era quello di aiutanti di Toyouke no Ōkami48, una di loro potrebbe essere diventata in seguito una sua vicaria in un santuario della zona: il suo nome di Toyoukanome la potrebbe caratterizzare semplicemente come una donna di Toyouke no Ōkami.
Chi fossero di preciso queste Ame no Michihime è aperto al dibattito. La storia contenuta nel Fudoki ci dice che hanno portato i semi dei cinque cereali e i bachi da seta a Toyouke no Ōkami, non solo una divinità ma una grande divinità: epiteto comprensibile, dato che sarà poi venerata nel grande santuario di Ise accanto ad Amaterasu. Il loro stesso nome è seguito da “mikoto”, termine di rispetto usato per figure di grande rilievo, che in questi Fudoki non è mai utilizzato per indicare le fanciulle cigno (qui chiamate amatsuwotome, ricordiamo), il cui rango è dunque più basso, celeste o meno che sia la loro natura: queste ultime si lasciano imbrogliare e catturare da semplici esseri umani, dopotutto, spesso di bassa estrazione sociale.
Il nome, Ame no Michihime, le qualifica come collegate a una strada (michi) del cielo (ame): potrebbe essere la Via Lattea, volendo, anche se più spesso è indicata come fiume del cielo, ma potrebbe anche essere una espressione più generica per indicare le vie del cielo percorse dalle “persone divine”, capaci di spostarsi tra cielo e terra. Già in un’altra storia abbiamo sentito una fanciulla cigno lamentarsi perché la perdita della veste le aveva chiuso l’accesso alle vie celesti; la stessa protagonista di quella che stiamo esaminando adesso parla di strada verso casa, fissando il cielo. Le Ame no Michihime sono un gruppo, ma il loro numero non è indicato: se hanno portato i semi dei cinque cereali e il baco da seta, possiamo ipotizzare che fossero almeno sei, una per ogni tipo di prodotto, ma è soltanto una ipotesi. Le amatsuwotome sono indicate come otto, ma è un numero che spesso ha il significato di “tante” e non va preso strettamente alla lettera: osservando solo il nome, potrebbero essere considerate ancelle delle Ame no Michihime, semplici “ragazze del cielo” invece di “principesse49 della strada del cielo”.
Una figura chiamata Ame no Michihime (no Mikoto) compare nel quinto libro del Kujiki, pur mancando sia dal Kojiki che dal Nihonshoki. Premesso che la datazione del Kujiki è molto incerta e la sua stesura risale probabilmente all’inizio del decimo secolo, anche se una parte del materiale nel quinto e decimo libro potrebbe essere di molto precedente, bisogna dire che Ame no Michihime vi è presentata come una persona sola, non come un gruppo: è presentata come figlia di Kamimusubi, che nel Kojiki è una delle tre divinità primordiali, connessa al generare e al crescere come le altre divinità “musubi”50. Potrebbe rappresentare un semplice caso di omonimia, privo di legami con le Ame no Michihime che compaiono nel Tango fudoki. Se quelle che troviamo nel Tango fudoki sono un gruppo e prive di caratteristiche individuali, almeno nella breve storia in cui compaiono, la Ame no Michihime del Kujiki ha anche un marito e figli, oltre a essere priva di legami diretti coi cereali e l’agricoltura. Citiamo comunque la sua esistenza, giusto per completezza e perché non si sa mai: magari anticamente un qualche legame esisteva realmente.
Non che sia davvero così importante determinare l’identità di queste figure, almeno per il nostro discorso sulle fanciulle cigno. Considerata la somiglianza sospetta dei nomi, che ritornano in due storie nello stesso Fudoki, è possibile che ci sia stata una certa mescolanza tra i due racconti. In entrambi abbiamo figure femminili che scendono dal cielo e sono collegate a una sorgente sulla vetta di un monte. Una normale storia di fanciulle cigno potrebbe essere stata incorporata in una narrativa preesistente in quella provincia, riciclando nomi e ambienti, per renderla più locale. Da qui le fanciulle cigno che fanno il bagno nella sorgente montana usata altrove per irrigare i primi campi; da qui una fanciulla cigno che ha il potere di produrre sake miracoloso, un liquore ottenuto distillando il riso, uno dei cinque cereali collegati a quella sorgente; da qui il nome finale con cui la fanciulla cigno sarebbe stata divinizzata, Toyoukanome, troppo simile a quello di Toyouke no Ōkami per non farci sospettare un qualche legame tra le due.
Potrebbe essere andata davvero così? Forse. Non sarebbe certo il primo motivo folklorico a essere personalizzato, unendolo a luoghi ed eventi locali. Abbiamo visto un’altra storia di fanciulle cigno utilizzata per raccontare l’origine soprannaturale dei capi villaggio di una certa zona, dopotutto, mentre tutti i racconti contenuti nei Fudoki, lunghi o brevi che siano, sono sempre utilizzati anche per spiegare l’etimologia di una certa località nei paraggi. A volte questa etimologia è parecchio forzata e sembra qualcosa di aggiunto a posteriori a una storia molto più antica: l’ultima parte di questo racconto, con la ragazza che distribuisce nomi quasi a casaccio durante le sue peregrinazioni, ci conferma che anche in questo caso siamo davanti a giochi di parole più o meno riusciti, non diversi nello spirito da quelli a cui ricorre Ovidio nei suoi Fasti per spiegare l’origine di tradizioni antiche, che i romani dei suoi tempi continuavano a praticare pur non ricordandosi più da cosa fossero nate, o perché si facesse così51.
Quanto alla sorgente di Mana, che compare in tre frammenti del Tango fudoki, mi sento di poter escludere che sia da identificarsi con la (quasi) omonima sorgente che compare nel Kojiki. Quella del Kojiki, prima di tutto, è Ame no Manawi (天之眞名井), ossia la sorgente celeste di Mana; quelle del Fudoki, invece, sono solo Manawi, sorgenti di Mana. La sorgente citata dal Kojiki si trovava nel mondo celeste, Takamagahara, nei pressi del fiume celeste dove avviene la sfida tra Amaterasu e Susanoo. È una sorgente sacra, sul cui nome esistono opinioni diverse, come diverse sono le traduzioni: Marega la chiama “pozzo di un vero nome del Cielo”, traduzione letterale del significato dei caratteri, Villani opta per “celestiale polla”, Chamberlain sceglie “True-Pool-Well-of-Heaven” e Philippi lascia il nome giapponese, accompagnato da un breve “the heavenly well” tra parentesi. Per quanto ci riguarda, la possiamo considerare una sorgente nel mondo celeste, da cui sgorgava acqua sacra. Il modo in cui tradurne il nome è irrilevante, qui.
Delle tre sorgenti omonime citate nel Fudoki, due sgorgano sulla vetta di un monte della provincia di Tango: possono essere vicine al cielo, simbolicamente, ma non sono celesti, né il testo le descrive in questo modo. I caratteri usati per scrivere i loro nomi sono diversi da quelli che troviamo nel Kojiki, ma questo è un dettaglio secondario: la pronuncia è la stessa e all’epoca la pronuncia di un carattere aveva più importanza del significato, specie nel trascrivere un nome proprio, e sarà solo alla metà del secolo che si comincerà a vedere una qualche regolarità nel sistema di scrittura. Due nomi scritti con caratteri diversi ma uguale pronuncia, dunque, potevano indicare sia due cose diverse, sia la stessa cosa. A contare è il contesto e il contesto ci mostra che le sorgenti del Fudoki sono diverse da quella del Kojiki. Omonimia, dunque: forse voluta, ma niente di più.
Se le prime due sorgenti del Fudoki siano da considerare identiche, invece, è già più difficile da dire. Si trovano su monti diversi e hanno funzioni diverse, per cui dovrebbero essere diverse tra loro, ma non è impossibile che vi sia stata anche qui una certa sovrapposizione, come già avvenuto per altri nomi. Se in entrambe le storie abbiamo fanciulle celesti che gravitano attorno a una sorgente o a un pozzo “di Mana” e se entrambe le fonti d’acqua sono collegate, in un modo o nell’altro, a una divinità del cibo dal nome molto simile, che sia Toyouke no Ōkami o Toyoukanome, è almeno legittimo sospettare che non sia una pura coincidenza, ma che le due storie si siano contaminate a vicenda, in un qualche modo e in una qualche epoca. Di più non si può dire, ma nessuna legge vieta di fantasticare, se si vuole.
Il discorso cambia in parte per la sorgente citata in un terzo frammento del Tango fudoki: stavolta è Hiji no Manawi (比治之真名井), che in seguito nel testo è chiamata solo Manawi. Se da un lato ci si presenta come l’ennesima “sorgente di Mana”, più interessante è il fatto che sia chiamata “di Hiji”. Il nome del monte su cui si trovava la prima sorgente, quella delle fanciulle cigno, era proprio Hiji, scritto pure con gli stessi caratteri: 比治. Il secondo carattere, 治, ha anche il significato di “curare, guarire” (naosu), che era proprio il potere posseduto dal sake preparato dalla fanciulla cigno. Coincidenza? Forse sì e forse no. Purtroppo manca proprio la prima parte del testo, che comincia spiegandoci che “il fatto che nell’epoca attuale sia chiamata sorgente di Mana di Hiji (Hiji no Manawi) è dovuto a una deformazione”. Deformazione di quale parola o carattere? E come si chiamava prima? Non lo sapremo mai. Tutto ciò che ci è detto sulla sorgente, nel frammento sopravvissuto, è che un certo Ame no Kagoyama (no Mikoto), divinità di un qualche tipo, attingeva alle sue chiare, fresche, dolci acque52. Pazienza.
Sia come sia, questo quarto esempio ci ha mostrato uno sviluppo ancora differente del motivo della fanciulla cigno, mescolandolo almeno in parte con la mitologia vera e propria. Era un tema popolare a sufficienza nell’ottavo secolo da comparire in almeno quattro Fudoki diversi, ogni volta ricevendo un taglio particolare, legato o meno alla geografia e alla tradizione della provincia che ci ha trasmesso quella storia. Ne esistevano altre versioni? Possibile, visto che la maggior parte dei testi è andata perduta: alcune storie sono state conservate come citazioni all’interno di opere successive, ma il grosso del materiale è andato perso per sempre, salvo miracolosi ma parecchio improbabili ritrovamenti. Se poi prendiamo in considerazione le eventuali storie tramandate oralmente, il cielo è il limite, a giudicare dalle fiabe tuttora in circolazione.
Come dicevamo all’inizio, il motivo della fanciulla cigno sopravviverà a lungo nelle fiabe giapponesi e lo troveremo diffuso su buona parte del territorio. Quanto fosse diffuso nell’ottavo secolo, però, non ci è dato saperlo. Lo troviamo in due province orientali, come Hitachi e Suruga, e lo troviamo nell’area del Kinki53 con le province di Tango e Ōmi. Questo è certo, almeno per quanto riguarda la prima parte dell’ottavo secolo, cioè l’epoca in cui furono redatti i Fudoki. A giudicare dalle differenze tra le varie storie, è legittimo pensare che il motivo della fanciulla cigno avesse già una buona circolazione anche prima che i Fudoki fossero redatti, ma questo è un altro discorso: niente e nessuno ci vieta di ipotizzarlo, ma dimostrarlo incontrovertibilmente è un altro paio di maniche.
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NOTE
1 - Uno ucaskoma, ossia un particolare tipo di storia in prosa, tipo una fiaba, che gli fu dettata nel maggio del 1908 da un ainu cinquantatreenne di nome Numaru, residente nel villaggio di Tunajchi, costa sudorientale di Sachalin. Questo almeno in base agli appunti del ricercatore polacco.
2 - Figure del folklore persiano, sono donne con svariati poteri magici, che spesso occupano ruoli non molto positivi. In questa storia, è stuprata da un pastore e partorirà poi una specie di ciclope quasi invincibile.
3 - Era una pelle double-face: indossata con la parte pelosa all’esterno, lo rendeva lupo; indossata con la parte pelosa all’interno, lo rendeva umano. Si chiamava versipellis proprio perché invertiva la propria pelle.
4 - Nonché quella che causa meno problemi: parlare di fanciulle oche o fanciulle anatre potrebbe non essere altrettanto apprezzato, perché sembrerebbe un insulto. Parlare di fanciulla cigno, invece, è più simile a un complimento.
5 - I piedi palmati caratterizzavano anche gli esponenti del Piccolo Popolo, almeno in diverse storie raccontate sulle isole britanniche e dintorni, dove le impronte che lasciavano erano simili a quelle delle anatre o delle oche. C’è chi ha proposto per loro un collegamento col motivo della fanciulla cigno e le anime dei morti, ma è un territorio che non intendo esplorare, almeno non in questa sede e soprattutto non nella sua versione britannica.
6 - Dove l’accoppiamento avviene tra Nemesis, che fuggiva in forma di oca, e Zeus, che la inseguiva in forma di cigno, le due forme con cui si concludeva la classica fuga magica in cui erano stati coinvolti. Per dettagli, rimando a Miti e misteri, di Károly Kerényi: nello specifico il primo capitolo, ossia “La nascita di Helena”.
7 - Fiabe di questo gruppo sono particolarmente interessanti, perché rispecchiano le storie che presso altri popoli si raccontano sull’origine di un qualche tipo di vegetale, di solito alla base dell’alimentazione di quel popolo: ne avevo elencate alcune parlando dell’origine dell’agricoltura.
8 - Antica unità di misura, corrispondente a tre grammi e qualcosa, ma in questo caso non va presa letteralmente: è solo un modo per dire che era un abito leggerissimo.
9 - In originale è 織女, a cui è assegnata la lettura たなばたつめ, ossia tanabatatsume. Se il composto 織女 significa semplicemente “donna (女) che tesse (織る)”, la lettura che vi è assegnata ha più o meno lo stesso significato, ma una storia più interessante. La parola tanabata (棚機) indica un particolare tipo di telaio (機) a tavole orizzontali (棚), e tanabatatsume era la donna (me) del (tsu) telaio, cioè la tessitrice che lo usava per lavorare. La più famosa tanabatatsume è la tessitrice celeste Orihime (織姫), letteralmente “la principessa (姫) che tesse (織)”, protagonista di una leggenda astronomica da cui prende il nome la festa di Tanabata, tuttora celebrata in Giappone il sette di luglio. Una normale orihime, però, poteva essere anche qualunque altra donna tessitrice, perché hime era utilizzato come suffisso nei nomi anche solo per indicare che si trattava di una donna, a prescindere dal suo status sociale.
10 - Più o meno la zona dell’attuale prefettura di Shizuoka, dove si trova il monte Fuji.
11 - Nel quinto libro dello Honchōjinjakō (本朝神社考) di Hayashi Razan.
12 - Il termine giapponese con cui sono indicate le storie di questo tipo è mukashibanashi (昔話), ossia storie (話) di tanto tempo fa (昔): possiamo considerarlo equivalente al nostro “fiaba”, se non siamo troppo puntigliosi. Il corrispettivo più usato in lingua ainu è uwepeker, ma non è certo l’unico e si potrebbero aprire dibattiti sulle sfumature di significato, ma non lo farò.
13 - Pubblicato in Asian Folklore Studies, Volume 66, 2007, pagg. 223-232.
14 - Incarico che il Kojiki e il Nihonshoki assegnavano ad Amaterasu stessa, la dea del sole, o a una sua ancella/sorella minore, mentre il Kogoshūi, che risale al 807 e dunque al secolo successivo rispetto ai primi due testi e ai Fudoki, ci parla già di una certa Tanabatahime, che tesseva vesti divine e avrebbe collaborato con le altre divinità, quando Amaterasu si era nascosta nella grotta. Nei testi più antichi, questo nome non compare. Collegamenti tra la tessitura e la sfera del sacro risalgono ad almeno il settimo millennio a.C. in Medio Oriente e in area mediterranea, come ci mostrano i ritrovamenti di (presunti) templi muniti anche di (resti di) telai, ma questo è davvero un altro discorso.
15 - Un ri era una unità di misura per le distanze, che nell’ottavo secolo corrispondeva a mezzo chilometro circa. Nelle fiabe è usato anche per indicare grandi distanze in generale: i veggenti sono persone con una vista “da mille ri”, mentre un cavallo “da mille ri” può percorrere grandi distanze in un giorno solo, come stivali delle sette leghe.
16 - L’imperatore Suinin, la cui reale esistenza è piuttosto incerta. Nella sua biografia troviamo anche un episodio curioso in cui compaiono i cigni, raccontato in forma diversa nel Kojiki e nel Nihonshoki, ma questa è quasi sicuramente una pura coincidenza e non ha alcun collegamento con la storia della fanciulla cigno che sarebbe avvenuta durante il suo regno: l’incidente col cigno che lo riguarda si svolgeva nella provincia di Izumo, che è a occidente, mentre la provincia di Hitachi si trova a oriente.
17 - In giapponese shirotori (白鳥), letteralmente “uccello (鳥) bianco (白)”, un composto che oggi significa “cigno” e la cui lettura più comune, in giapponese classico, è shiratori. Potrebbero essere cigni anche in questo caso, ma è più prudente usare il condizionale.
18 - Il testo presenta una lacuna tra i verbi “svaniscono” e “crollano”.
19 - A partire dal periodo Heian (794-1185), wotome sarà sostituito da womina -> wouna/wonna come termine generico per indicare una donna, da cui il moderno onna; otome resterà come termine per indicare una ragazza.
20 - È a propria volta un caso specifico del motivo del lavoro da ricominciare ogni mattino, che include anche attività diverse dalla costruzione di edifici: un esempio è l’albero gigantesco da abbattere, che si rigenera ogni notte. Questo è però un altro discorso e al momento non ci riguarda.
21 - Letteralmente, “persona-colonna”. Pensate ai mafiosi che fanno sparire qualche tizio scomodo con una colata di cemento e sarete più o meno nelle vicinanze del rituale in questione, almeno come risultato finale.
22 - La stessa morte di Remo potrebbe essere considerata il sacrificio umano necessario per dare solidità alla città di Roma, volendo. Per un’analisi di questo motivo, rimando al volume Le religioni e il folklore dell’Europa orientale, di Mircea Eliade: il quinti capitolo, intitolato “Mastro Manole e il monastero d’Argeş”, è dedicato proprio ai sacrifici umani per fondare qualcosa, partendo dall’esempio fornito da una ballata popolare romena e balcanica, dove a morire è la moglie del capomastro.
23 - Demone sessuale, versione maschile della succuba. Nella demonologia medievale, incubus e succuba potevano anche essere lo stesso demone, che cambiava sesso a seconda dei casi: come succuba, avrebbe sedotto un uomo, raccogliendo il suo seme, per poi trasformarsi in incubus e usare quel seme per fecondare una donna umana. Da quel seme contaminato sarebbero poi nati bambini parzialmente demoniaci, nell’aspetto o nei poteri. Le capacità soprannaturali di Merlino gli verrebbero proprio dal padre non umano. Nella cronaca di Gaufridus Monemutensis, Galfridus Monumotensis o qualunque fosse la corretta grafia del suo nome, il padre soprannaturale di Merlino è sì un incubus, ma non esplicitamente mostruoso di natura: resta comunque l’origine dei suoi poteri magici.
24 - In giapponese antico la parola è iroto, più spesso scritta irodo, che indicava il figlio o la figlia minore nato o nata da una stessa madre. Il suo opposto, che troveremo poco più avanti per descrivere le altre sette fanciulle, è irone, che indicava invece il figlio o la figlia maggiore, sempre di identica madre. Essere nati dalla stessa madre aveva grande importanza nell’antichità, anche quando le donne avevano ruoli marginali in quella cultura specifica: lo vediamo anche in Grecia, dove la parola adelphos, “fratello”, significava appunto qualcuno uscito dallo stesso utero (delphus), dando così la priorità alla discendenza matrilineare per definire i fratelli.
25 - 神の浦, ossia “insenatura (浦) divina (神)”, che nell’ottavo secolo doveva essere il nome proprio della insenatura e sarebbe una deformazione di kahaamu ura (浴む浦), ossia “insenatura (浦) dove fanno il bagno (浴む)”, almeno secondo l’etimologia popolare riferita dall’autore del testo. Quale fosse l’etimologia reale, poi, è un altro paio di maniche ed è un problema che non tenterò certo di risolvere io.
26 - In precedenza non era specificato che fosse una veste di piume: si parlava solo di koromo (衣), ossia “vestito”, mentre in questo caso è indicato come hagoromo (羽衣), aggiungendo dunque la parola “piume” (羽), che è il termine con ci è meglio nota la veste delle fanciulle cigno nel folklore giapponese.
27 - Teiōhennenki (帝王編年記), decimo libro.
28 - Il cinghiale bianco è anche uno dei tre animali bianchi che dovevano essere offerti in sacrificio per ottenere un buon raccolto, come ci indica il norito del Toshigoi no matsuri: un cavallo, un cinghiale e un gallo, tutti e tre bianchi. Nel Kogoshūi troviamo anche il mito da cui l’usanza ha avuto origine, come ho già detto parlando di fulmine e risaia.
29 - Ricordiamo poi che anche nel mondo celtico i cani del popolo fatato erano bianchi, con le orecchie rosse, come lo erano gli animali del popolo fatato in generale. Cervi bianchi erano spesso usati per attirare l’umano di turno nel mondo del popolo fatato, oppure nel regno dei morti, quando le due dimensioni non coincidevano. Bianchi e con le orecchie rosse erano appunto i cani da caccia di Arawn re di Annwfn in occasione del suo primo incontro con Pwyll, principe del Dyvet, nel primo ramo del cosiddetto Mabinogion gallese. E si potrebbe continuare.
30 - Introduzione in prosa al Volundarkvida, dove si parla di Volundr e i suoi due fratelli che rubano le vesti di cigno a tre valchirie, per farne le proprie spose: due di queste donne hanno soprannomi piuttosto innaturali, come Hervor, “strana creatura”, che diventerà moglie di Volundr. Volundr stesso è la versione scandinava del fabbro Wayland, non certo un comune mortale: è anzi presentato come “principe degli elfi”, più avanti nella storia.
31 - Oltre ai vari cani che fanno la guardia all’ingresso del regno dei morti, possiamo ricordare che per gli etruschi lo stesso Aita (Ade) indossava un copricapo a forma di testa di lupo, mentre la parola etrusca lupu significa “morto”: forse una pura coincidenza fonetica, ma indubbiamente è molto curiosa. Cani erano anche offerti in sacrificio alle divinità infere.
32 - Mentre i cani dei morti potevano vedere i vivi che entravano nel paese dei morti. Il cane fungeva da medium, in pratica, capace di vedere le cose nascoste agli occhi del padrone, per proteggerlo o almeno metterlo in guardia.
33 - Per esempio nello uwepeker pubblicato da Kayano Shigeru col titolo di “リスと平原の化け物” (Lo scoiattolo e il mostro della piana alberata), all’interno della sua raccolta アイヌと神々の物語 (Ainu to Kamigami no Monogatari).
34 - Taniwa (Taniha) era anche il nome del distretto, almeno nella sua forma estesa: “Taniha no michi no shiri no kuni”, per distinguerlo da Taniha no kuni, la provincia di cui inizialmente faceva parte, prima di essere separata per ragioni amministrative che qui non ci interessano.
35 - Manawi (真奈井), se preferite: considerato però che lo wi (井) finale significa appunto “pozzo, sorgente”, chiamarla “sorgente di Manawi” mi sembrava un poco ridondante, come parlare di “lago di Loch Ness”. Troviamo una sorgente di Mana (真名井) anche in altri due frammenti del Tango fudoki: in uno la sua origine è attribuita a Toyouke no Ōkami (la grande divinità dell’abbondanza di cibo), che l’avrebbe fatta scavare per irrigare i campi. Una sorgente dal nome simile, Ame no Manawi (天之眞名井), compare nel Kojiki durante la sfida tra Amaterasu e Susanoo: nelle sue acque, le due grandi divinità sciacquano gli oggetti che poi masticheranno per generare figli. La differenza nei caratteri con cui il nome è scritto è perfettamente normale: nella prima metà dell’ottavo secolo la scrittura era ancora piuttosto incerta e i caratteri potevano essere usati sia per il loro valore fonetico, sia per il loro significato, a discrezione di chi scriveva.
36 - Il nome, 和奈左, aveva probabilmente un qualche significato particolare, ma il ricordo di questo significato sembra essere andato perso nei secoli.
37 - Nell’originale si trova il numero “diecimila”, yorodzu, per indicare che sono tante. Per puro caso, anche in italiano abbiamo la parola “miriade”, che significa “tanti” e deriva dal numero greco “diecimila”: ricordiamo anche il celebre “oi Murioi”, termine con cui erano indicati i Diecimila di Senofonte nell’Anabasi.
38 - Gioco di parole intraducibile, come quasi tutti i giochi di parole. In giapponese, la parola hijikata è usata sia per indicare il terreno (tochi in giapponese moderno), sia come (presunto) vecchio nome del villaggio.
39 - Nome che ovviamente significa “marea impetuosa” ed è la parola usata dalla fanciulla celeste come termine di paragone per il suo cuore.
40 - Perché nakiki, in giapponese antico, significa “pianse”. Il secondo carattere con cui è scritto il nome del luogo è inoltre 木, ossia “albero”: Nakiki potrebbe dunque diventare “albero del pianto”, volendo.
41 - In giapponese antico, nagushi significa “tranquillizzarsi”. In questo caso particolare, la parola è scritta usando tre caratteri: i primi due corrispondono al nome della borgata, ossia 奈具, mentre il terzo è 志 (bontà, gentilezza).
42 - In antico giapponese, uka/uke significava “cibo”. Abbinato al me che significa semplicemente “donna” (oppure “moglie”, a seconda dei casi, ma qui non si vede traccia di marito, per cui limitiamoci al significato di “donna”) e al toyo che indica abbondanza, il suo nome finale suggerisce che siamo di fronte a un’altra dea del cibo, una “donna dell’abbondanza di cibo”.
43 - Conservato nel Kojikiuragaki (古事記裏書), settimo libro.
44 - Letteralmente, kimono significa “cosa che si indossa”, per cui può essere applicato a ogni tipo di abito, il che non ci aiuta granché a determinare che tipo di indumento sia nel nostro caso.
45 - La celebre leggenda francese di Mélusine, così come le sue versioni di altri paesi europei, può essere considerata una variante di questo motivo, a volte senza l’elemento della dote.
46 - Letteralmente, “principessa (hime) della strada (michi) del cielo (ame)”.
47 - Qui la sorgente è dunque un pozzo artificiale, ma il carattere 井 ai tempi poteva indicare entrambe le cose, sia una sorgente naturale che un pozzo scavato dall’uomo. Se oggi per le sorgenti naturali si usa in genere il carattere 泉, izumi, mentre 井戸 (ido) sono i pozzi, nell’ottavo secolo 井 (wi) era qualunque cosa da cui sgorgasse acqua, come sottolineava anche Motoori Norinaga nel suo famoso (e voluminoso) commento al Kojiki.
48 - L’intera storia assomiglia a una variante molto più pacifica del tradizionale mito giapponese sull’origine dell’agricoltura, dove i cinque cereali e il baco da seta sono ottenuti dal cadavere di una dea del cibo.
49 - Ricordiamo che hime, oltre a significare “principessa”, può anche essere usato semplicemente per indicare che si tratta di un nome femminile. Se lo abbiniamo però al termine di rispetto “mikoto”, è chiaro che quelle donne possedevano un rango alquanto elevato, principesse o meno che fossero, ben superiore a una generica wotome.
50 - Il verbo musubu significa “unire, congiungere, dare frutti”. Cinque di queste divinità sono invocate anche nel norito del Toshigoi no matsuri, la cerimonia della petizione per il raccolto: Kamimusubi, Takamimusibi, Ikumusubi, Tarumusubi e Tamatsumemusubi.
51 - Pensiamo solo al contorto racconto con cui Ovidio fa derivare i Lemuria dalla necessità di placare lo spirito di Remo, ucciso dal fratello Romolo: un racconto fondato solo sulla vaga somiglianza tra Remo (Remus in latino) e il sostantivo lemures, nome (plurale) con cui i romani indicavano gli spiriti inquieti degli antenati morti anzitempo (di solito per morte violenta, malattia improvvisa, incidente o variazioni sul tema).
52 - Letteralmente o quasi. Sono indicate come shimizu (清水).
53 - La zona delle città di Kyōto e Ōsaka, per intenderci.